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Cosa muore al G-8
Cari/e amici/che,
le immagini del ragazzo ucciso a Genova mi
hanno fatto pensare. Non tanto per l'evento tragico in se - chi fa il
giornalista nerl Terzo Mondo, di cadaveri, purtroppo, ne vede tanti - ma
per il valore tragicamente simbolico di quanto era accaduto, e per le sue
implicazioni politiche più generali.Visto da quaggiù, in Brasile, quanto
é accaduto al G-8 non può che far pensare a quanto sta accadendo in
Argentina.
Ho scritto di getto il testo che invio.
COSA MUORE AL G-8
Carlo Giuliani, il ragazzo biondo di 23 anni ammazzato a Genova da un
Carabiniere più giovane di lui, non é la prima vittima delle proteste
contro la globalizzazione. Dozzine di sindacalisti, contadini, attivisti,
sono stati uccisi in questi anni, ma in posti lontani India,
Nigeria, Bolivia, Ecuador dove movimenti che possiamo definire
“antiglobalizzazione” esistono da ben prima di Seattle, anche se con
altri nomi, e le proteste vengono da sempre soffocate nel sangue, e
nell’indifferenza.
Ma l’effetto simbolico dalla morte di quel ragazzo, ha scritto un
giornalista di The Nation, la più importante rivista progressista
nordamericana, é simile a quello che scosse gli Stati Uniti nell’aprile
del 1970, quando quattro studenti della Kent State University, in Ohio,
vennero uccisi dalla Guardia Nazionale durante una manifestazione.
In altre parole: una cosa è sapere, vagamente, che in qualche altra parte
del mondo, i soldati, o la polizia, o le milizie private dei
latifondisti, reprimono, sparano, uccidono chi prova a sollevare la
testa; ben altra cosa é vederlo accadere accanto a sé, fisicamente o
idealmente, in una delle nazioni ricche e si suppone, si spera, ci
si illude civili del pianeta.
Quello che sgomenta è, cioè, il volto truce, il volto reale del
potere. É più rassicurante far finta di dimenticare che eserciti e
polizie sono, quasi sempre, il braccio armato dello status quo, le truppe
pretoriane dell’estabilishment. Anche nei punti alti dello sviluppo.
Carlo Giuliani, purtroppo, non è il primo studente (o operaio) ad essere
ucciso durante una manifestazione in Italia; ed è difficile immaginare
che sarà l’ultimo. Dire questo non significa approvare la stupida
violenza dei black blockers, ma appena ricordare che il lancio di
sampietrini, o persino di bottiglie molotov, non é ancora un
reato punito con la pena capitale.
Dopo quanto è accaduto a Genova, é già stato detto, difficilmente ci
saranno altri vertici del G-8. Lo spettacolo degli otto piccoli capi di
stato che pensano di essere grandi, assediati dalle proteste di centinaia
di migliaia di persone, seduti imperterriti a sorridere alle telecamere e
a discettare sulla povertà planetaria aggravata dalle loro scelte
o, ancor più spesso, dall’incapacità di fare le scelte necessarie -, è
diventato troppo indecente per continuare.
Invece di aiutare a migliorare l’immagine e la popolarità - dei
padroni del mondo, ogni nuovo vertice riflette la realtà mediocre di un
gruppo di leader incapace di esercitare qualunque tipo di leadership che
vada al di là degli interessi delle grandi corporation, delle
multinazionali, dei mercati finanziari senza bandiere né scrupoli.
Condoleza Rice, assistente per la sicurezza nazionale di George W. Bush,
ha spiegato alle telecamere della CNN che chi protesta contro il G-8,
lanciando molotov o sfilando pacificamente che sia, ha comunque torto. In
primo luogo, perché la globalizzazione ossia, nell’accezione del
G-8, l’assoluta predominanza delle “ragioni” del mercato su qualunque
altra considerazione - è positiva in sé, ed é, anzi, l’unica ricetta
possibile da offrire ai miliardi di poveri, disperati ed affamati che, al
banchetto dei ricchi, non sono mai stati invitati. E poi, ha aggiunto la
Rice, perché i leader riuniti a Genova sono stati eletti
democraticamente, e quindi le loro posizioni sono legittimate dalla
sovranità popolare, che invece manca a chi protesta.
Non è il caso di indugiare a facili ironie sulla legittimità del voto che
ha portato all’elezione del capo della Rice, Bush junior. E lasciamo
perdere i dubbi sull’abuso del potere economico di Berlusconi nelle
elezioni in Italia, o sulla trasparenza della democrazia russa. Vale,
piuttosto, la pena di dare un’occhiata a quanto sta avvenendo, proprio in
queste ore, a quindicimila chilometri da Genova, in Argentina.
Per quasi dieci anni, l’Argentina è stata alunna modello delle ricette di
quello che, in America Latina, si definisce semplicemente “Consenso di
Washington”, ossia il decalogo - enunciato nel 1989 dall’economista
John Williamson di quello che i paesi emergenti dovrebbero fare per
il proprio bene (austerità fiscale, completa liberalizzazione dei mercati
finanziari e del commercio, totale apertura dell’economia nazionale agli
investimenti stranieri, privatizzazioni a tappeto ecc.).
Sotto la guida di Carlos Menem che difendeva, letteralmente, la
necessità di mantenere “relazioni carnali” con gli Stati Uniti, e adesso
è agli arresti domiciliari, accusato di traffico d’armi , a partire dal
1991, l’Argentina ha spalancato la sua economia, privatizzato tutto il
privatizzabile, ed ha ancorato il valore della moneta nazionale, il peso,
uno a uno col dollaro.
Per tre o quattro anni, la ricetta ha funzionato, l’inflazione è stata
domata e il PIL è cresciuto con vigore. Poi, la realtà ha bussato alle
porte: non é rimasto nulla da privatizzare, le industrie nazionali non
hanno retto alla concorrenza estera, i capitali stranieri hanno prima
iniziato a scarseggiare e, poi, a fuggire. Risultato: dal 1997 l’economia
è in recessione, un terzo della popolazione é disoccupato o
sottooccupato, la povertà e la disperazione avanzano in quello che è
stato per decenni il paese più “europeo” civile, colto, elegante
persino del continente. Terra di immigranti per generazioni, oggi
l’Argentina, come tutto il Terzo mondo, esporta braccia: i
consolati primo tra tutti quello italiano sono assaliti ogni
giorno da migliaia di persone disposte a tutto per emigrare.
Alla fine del 1999, gli argentini hanno tentato di dare le spalle all’era
Menem, eleggendo presidente Fernando de la Rúa, appoggiato da una
coalizione di centro sinistro. Si candidò anche l’ex ministro
dell’Economia di Menem, Domingo Cavallo, beniamino dei banchieri e dei
tali “mercati”. Gli argentini, però, non gli diedero che il 10% dei voti.
Un voto democratico, come sottolineerebbe la signora Rice.
Solo che de la Rúa, per incapacità o timore, non ha saputo correggere la
rotta, né abbandonare la convertibilidad peso-dollaro. La
recessione si é ulteriormente aggravata, il deficit pubblico è aumentato,
il paese non è riuscito a rispettare i draconiani impegni assunti col
Fondo Monetario Internazionale (FMI).
Alla fine dello scorso marzo, incapace di trovare qualunque altra
soluzione alla crisi, de la Rúa ha richiamato Cavallo al governo,
dandogli carta bianca. Nelle stesse ore in cui a Genova veniva ucciso
Carlo Giuliani, il Congresso argentino era lacerato da una durissima
discussione sull’ultima proposta di Cavallo: un piano di “deficit zero”
che, pur di mantenere i pagamenti degli interessi sul debito estero e
cercare di evitare l’ormai inevitabile svalutazione del peso, prevede
persino la riduzione generalizzata di salari e pensioni.
Per quasi una settimana, Buenos Aires é stata paralizzata da scioperi e
cortei, nell’inutile tentativo di bloccare le proposte di Cavallo. Nelle
province, ormai alla fame, si moltiplicano manifestazioni di protesta e
blocchi stradali. E l’immancabile repressione della polizia, con feriti e
morti ammazzati: gli ultimi, il 17 giugno scorso, sono stati due
disoccupati di Salta, nell’estremo nord del paese. Vittime anche loro,
come Carlo Giuliani, delle ragioni dei mercati.
Uno dei punti discussi nel bunker del G-8 a Genova é stata proprio la
situazione argentina; o meglio, come evitare che un’eventuale bancarotta
di quel paese possa innescare una crisi come quella seguita alla crisi in
Tailandia, nel 1997, e in Russia, nel 1998. Forse l’FMI metterà a
disposizione un’altra linea di credito in cambio di nuovi tagli
alle già ridottissime spese sociali -, o forse no.
Quel che è certo è che, neppure due anni fa, votando per de la Rúa, gli
argentini stavano cercando un’alternativa al Consenso di Washington, e
hanno ottenuto in cambio altre dosi della stessa amarissima, e inutile,
medicina. Le apparenze del gioco democratico sono state rispettate, ma la
sostanza no. Perché, malgrado il mandato chiaro dato dagli elettori
che esigevano un cambiamento nella conduzione della politica
economica le esigenze dei mercati (e cioè delle banche, dell’FMI,
del Tesoro americano) sono state considerate comunque sacre ed
intoccabili. E continuano ad esserlo. Nessun prezzo sociale è troppo
alto, di fronte alle richieste di Wall Street.
Votare per un candidato o per un altro, insomma, non fa alcuna
differenza, perché l’economia globalizzata e il “pensiero unico” riducono
drasticamente i margini di manovra per i governi dei singoli paesi.
Certo, la Cina, l’India o il Brasile per dimensioni e peso
geopolitico hanno forse qualche possibilità di imporre alcune
alterazioni alle regole del gioco. Ma isolatamente, per tutti gli altri
paesi, l’unica possibilità è curvare la testa alle decisioni dei padroni
del mondo.
La domanda che quindi oggi si pone nella periferia del pianeta è: la
democrazia rappresentativa può essere ancora considerata uno strumento
valido per promuovere cambiamenti sociali, politici ed economici?
In gran parte dell’Asia ed dell’Africa, forse la domanda è oziosa, già
che le elezioni, quando pure si svolgono, sono spesso appena fittizie. In
America Latina, che ha attraversato il tunnel dell’orrore delle dittature
militari prima della faticosa “ridemocratizzazione” degli anni ’80, la
questione è drammatica.
In Argentina, reduci ormai anziani dagli anni di piombo della guerriglia
raccontano preoccupati che aumenta ogni giorno il numero di ragazzi che
li avvicina chiedendo consigli e istruzioni: che fare? Ma anche: come si
prepara una molotov? Dove ci si procura le armi? I servizi segreti
argentini hanno già avvisato de la Rúa che nei prossimi giorni potrebbero
esserci scontri violenti a Buenos Aires e in 11 delle 23 province del
paese.
É un film già visto troppe volte, e non solo in Argentina. Il finale è
sempre tragico. Occorrono risposte politiche, occorrono cambiamenti reali
nell’economia mondiale. Occorre ristabilire regole democratiche vere, che
permettano ai popoli di decidere davvero il proprio destino. Non é
facile. Ma l’alternativa é che potremmo presto perdere il conto dei
morti, ragazzi di vent’anni come Carlo Giuliani.
Giancarlo Summa, San Paolo, 22/7/2001
Chi muore al G-8.doc