articolo USA-Israele-Palestina: Chomsky da' a PeaceLink il consenso di diffonderlo ora



Ciao a tutti,

invio un inedito di Chomsky da mettere sul sito appena possibile... In inglese esce solo il mese prossimo, per ora circola solo via e-mail e nella nostra traduzione :-)) Abbiamo comunque il permesso di pubblicarlo subito, come dice Noam stesso

No need to contact Red Pepper. They authorized me in advance to arrange for translations, and requested only an acknowledgment of their original publication, as indicated, I think, in the article I sent you.

Quindi può andare sul sito anche subito! :-)) Qualcuno se ne occuperebbe, per favore?

Grazie!
Ciao!
Sabry

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Pubblicato nell’originale inglese su “Red Pepper”, maggio 2002

USA-Israele-Palestina, 9 aprile 2002

Un anno fa, il sociologo dell’Università Ebraica Baruch Kimmerling affermava che “Quello che temevamo si è realizzato”. Ebrei e palestinesi stanno “regredendo ad un tribalismo superstizioso ... La guerra pare ormai un destino inevitabile”, una guerra “coloniale e malvagia”. Dopo l’invasione dei campi profughi da parte di Israele quest’anno, il suo collega Ze’ev Sternhell ha scritto che “In una Israele coloniale ... la vita umana ha scarso valore”. La leadership “non si vergogna più di parlare di guerra, quando ciò in cui è realmente impegnata è un’operazione di polizia coloniale, che ricorda l’occupazione, da parte della polizia bianca, dei quartieri poveri neri in Sudafrica durante l’era dell’apartheid”. Entrambi pongono l’accento su un dato ovvio: non vi è simmetria tra questi “gruppi etno-nazionali” che regrediscono al tribalismo. Il conflitto è incentrato su territori che si trovano sotto una dura occupazione militare da 35 anni. Il conquistatore è una potenza militare di rilievo, che agisce con il consistente sostegno bellico, economico e diplomatico della superpotenza globale. I suoi sudditi sono soli e privi di difese, molti si arrabattano per sopravvivere in campi profughi poverissimi, e si trovano attualmente a sopportare un terrore ancora più brutale, appartenente alla familiare tipologia delle “guerre coloniali e malvagie”, e realizzano ormai essi stessi atrocità terribili per vendicarsi.

Il “processo di pace” di Oslo ha cambiato le modalità dell’occupazione, ma non il concetto di base. Poco prima di entrare nel governo di Ehud Barak, lo storico Shlomo Ben-Ami ha scritto che “gli accordi di Oslo si fondavano su di una base neocolonialista, su di una vita di dipendenza di una parte sull’altra e per sempre”. Ben presto, Ben-Ami divenne un promotore delle proposte USA-Israele inoltrate a Camp David nell’estate del 2000, che si attenevano a questa medesima condizione. Esse incontrarono alti elogi nei commenti provenienti dagli USA. I palestinesi e il loro scellerato leader furono invece accusati del loro fallimento e della violenza che ne è susseguita. Ma si tratta di una “frode” vera e propria, come ha affermato Kimmerling, insieme a tutti gli altri commentatori seri.

È vero, Clinton e Barak hanno fatto alcuni passi avanti nella direzione di un insediamento sulla falsariga dei Bantustan. Poco prima di Camp David i palestinesi della West Bank vivevano confinati in oltre 200 aree sparse, e Clinton e Barak proponevano effettivamente un miglioramento: consolidare queste zone in tre distretti, sotto il controllo di Israele, praticamente separati gli uni dagli altri e dalla quarta enclave, una piccola area di Gerusalemme Est, il centro della vita palestinese e delle comunicazioni nella regione. Nel quinto distretto, Gaza, la situazione fu lasciata nell’incertezza, a parte la specificazione in base a cui la popolazione doveva anche in quel caso restare praticamente imprigionata. È comprensibile che le cartine geografiche non siano comparse nella stampa statunitense mainstream, così come peraltro gli altri dettagli delle proposte.

Nessuno può mettere seriamente in dubbio che il ruolo degli Stati Uniti continuerà ad essere decisivo. È quindi di cruciale importanza comprendere quale sia stato questo ruolo, e come venga percepito dall’interno. La versione delle colombe è presentata dagli editorialisti del New York Times (7 aprile) nel loro elogio dell’“energico discorso” del Presidente, e della “visione emergente” da lui espressa. Il primo elemento è l’immediata “fine del terrorismo palestinese”. Poco dopo viene il fatto di “congelare, per poi fare indietreggiare, gli insediamenti ebraici, e la negoziazione dei nuovi confini” per porre fine all’occupazione e consentire la costituzione di uno Stato palestinese. Se finisce il terrorismo palestinese, gli israeliani saranno spinti a “prendere più seriamente la storica offerta da parte della Lega araba di una pace e di un riconoscimento completi in cambio di un ritiro israeliano”. Ma prima i leader palestinesi devono dimostrare di essere “legittimi partner politici”.

Il mondo reale somiglia ben poco a questo ritratto autoreferenziale praticamente copiato dagli anni Ottanta, quando USA ed Israele cercavano disperatamente di lasciar cadere le offerte di negoziati ed accordi politici provenienti dall’OLP, attenendosi alla richiesta di non intraprendere negoziati con l’OLP, di non avere alcun “ulteriore Stato palestinese...” (in quanto la Giordania era già uno Stato palestinese), e “nessun cambiamento nello status della Giudea, della Samaria e di Gaza, se non in osservanza delle linee guida basilari del governo [israeliano]” (il piano di coalizione elaborato nel maggio 1989 da Peres-Shamir, sottoscritto da Bush I nel Piano Baker del dicembre 1989). Tutto ciò non ha trovato spazio nei media mainstream statunitensi, come è sempre avvenuto regolarmente, mentre, nei commenti, si denunciava la testarda determinazione dei palestinesi nel perseguire la linea terroristica, che metteva a repentaglio gli sforzi diplomatici umanitari degli Stati Uniti e dei loro alleati.

Nel mondo reale, la principale barriera contro cui si scontra questa “visione emergente” è, e resta, il sistematico rifiuto da parte degli USA. Vi è ben poco di nuovo nella “storica offerta da parte della Lega araba”, che anzi ribadisce i termini di base di una Risoluzione del Consiglio di Sicurezza del gennaio 1976, sostenuta praticamente da tutto il mondo, compresi i principali paesi arabi, l’OLP, l’Europa, il blocco sovietico, insomma da tutti quelli che contavano. Ma ha incontrato l’opposizione di Israele e il veto degli USA e dunque, il veto della storia. La Risoluzione chiedeva un negoziato politico sui confini riconosciuti a livello internazionale “con accordi adatti ... a garantire ... la sovranità, l’integrità territoriale e l’indipendenza politica di tutti gli Stati dell’area e il diritto a vivere in pace entro confini sicuri e riconosciuti” di fatto, una modifica della 242 ONU (così la interpretavano ufficialmente anche gli Stati Uniti), con un ampliamento volto a includere uno Stato palestinese. Analoghe iniziative da parte dei paesi arabi, dell’OLP e dell’Europa sono sempre state bloccate dagli USA e perlopiù sottaciute o negate nei commenti pubblicamente disponibili.

Il sistematico rifiuto da parte statunitense risale però a 5 anni prima, al febbraio 1971, quando il presidente egiziano Sadat propose ad Israele un trattato di pace completa in cambio del ritiro israeliano dai territori egiziani occupati, senza neanche sollevare la questione dei diritti nazionali palestinesi o il destino degli altri territori occupati. Il governo laburista israeliano riconobbe che si trattava di un’offerta sincera di pace, ma decise di rifiutarla, nell’intenzione di estendere i propri insediamenti verso il Sinai nord-orientale; cosa che ben presto fece, con estrema brutalità, la causa immediata della guerra del 1973. Israele e gli Stati Uniti compresero che la pace era possibile, in accordo con la politica ufficiale statunitense. Ma, come spiegò il leader laburista Ezer Weizmann (in seguito eletto Presidente), un simile risultato non avrebbe permesso ad Israele di “esistere nella misura, nello spirito e nella qualità che attualmente essa incarna”. Il commentatore israeliano Amos Elon scrisse che Sadat aveva seminato il “panico” nella leadership politica israeliana, annunciando la sua volontà di “entrare in un accordo di pace con Israele e di rispettarne l’indipendenza e la sovranità ‘entro confini sicuri e riconosciuti’”.

Kissinger è riuscito a bloccare la pace, facendo prevalere la sua preferenza per una situazione da lui stesso definita di “stallo”: niente negoziati, solo forza. Le offerte di pace provenienti dalla Giordania furono anch’esse rigettate. Da allora, la politica ufficiale degli USA consiste nell’attenersi al consenso internazionale sul ritiro (fino a Clinton, che ha di fatto abrogato le Risoluzioni dell’ONU e le osservazioni sul diritto internazionale); ma all’atto pratico, la politica ha seguito la linea Kissinger, ossia l’accettazione dei negoziati soltanto sotto costrizione così come Kissinger stesso era stato costretto ad accettare i negoziati dopo la quasi-débâcle della guerra del 1973, di cui egli ha una grossa responsabilità e alle condizioni ben espresse da Ben-Ami.

I piani riguardanti la popolazione palestinese hanno seguito le linee guida formulate da Moshe Dayan, uno dei leader laburisti più aperti nei confronti della questione palestinese. Dayan propose al governo israeliano di chiarire ai profughi che “non abbiamo altra soluzione, continuerete a vivere come cani. Chi vuole, può anche andarsene, e vedremo dove ci porta questo processo”. A chi lo contestava, Dayan rispondeva citando Ben-Gurion, che “affermava che chiunque si accosti alla problematica sionista da un punto di vista morale non è sionista”. Avrebbe potuto citare anche Chaim Weizmann, che sosteneva che il fato delle “diverse migliaia di neri” abitanti nella patria ebraica “è un fatto di scarsa importanza”.

Non sorprende che il principio ispiratore dell’occupazione sia un’umiliazione incessante e degradante, oltre alla tortura, al terrore, alla distruzione delle proprietà, alla cacciata della popolazione civile per fare spazio agli insediamenti, alla presa di possesso delle risorse di base, principalmente l’acqua. Naturalmente, per fare ciò, vi è sempre stato bisogno di un deciso sostegno statunitense, che si è protratto anche nell’era Clinton-Barak. “Il governo Barak sta lasciando un’eredità sorprendente al governo Sharon”, ha scritto la stampa israeliana durante la transizione: “il più elevato numero di avvii di nuove costruzioni abitative dai tempi in cui Ariel Sharon era Ministro delle Costruzioni e degli Insediamenti, nel 1992, prima degli accordi di Oslo”. I finanziamenti provenivano dai contribuenti statunitensi, ingannati da favole fittizie sulle “vedute” e sulla “magnanimità” dei leader di Washington, sconfitti da terroristi come Arafat che avevano deluso “la nostra fiducia”, ma forse anche da alcuni estremisti israeliani che avevano reazioni esagerate davanti a questi crimini.

Cosa debba fare Arafat per riguadagnare la nostra fiducia, ce lo spiega brevemente Edward Walker, il funzionario del Dipartimento di Stato incaricato della regione nell’era Clinton. Il subdolo Arafat deve annunciare senza ambiguità che “Mettiamo il nostro futuro e il nostro destino nelle mani degli USA”, che peraltro conducono da trent’anni una campagna per sabotare i diritti dei palestinesi.

Nei commenti più seri, si ammette che la “storica offerta” in questione ribadisce ampiamente il piano saudita Fahd del 1981 fatto naufragare, come fu regolarmente affermato, dal rifiuto da parte araba di accettare l’esistenza dello Stato di Israele. Anche in questo caso, però, i fatti sono ben diversi. Il piano del 1981 fu fatto fallire da una reazione israeliana condannata perfino dalla stampa ufficiale interna come “isterica”. Shimon Peres ammonì che il piano Fahd “minacciava l’esistenza stessa di Israele”, mentre il Presidente Haim Herzog protestò che il “vero autore” del piano Fahd fosse l’OLP, e che tale piano fosse ancora più estremo della Risoluzione del Consiglio di Sicurezza del gennaio 1976, “preparata” dall’OLP quando Herzog era ambasciatore di Israele alle Nazioni Unite. Tali affermazioni difficilmente possono essere vere (anche se l’OLP sostenne pubblicamente entrambi i piani), ma sono un indicatore, da parte delle colombe israeliane, confortate per tutto il tempo dal sostegno deciso ed indefesso degli Stati Uniti, della paura disperata che si realizzi un accordo politico.

Il problema di base è da ricondursi, allora come oggi, a Washington, che ha sempre sostenuto il rifiuto da parte di Israele di pervenire ad un accordo politico secondo i termini stabiliti dall’ampio consenso internazionale, e ribaditi in forma essenziale nella “storica offerta da parte della Lega araba”.

Le attuali modifiche nel rifiuto del problema da parte statunitense sono tattiche e, per ora, di scarsa portata. Visto il pericolo in cui versavano i piani per attaccare l’Iraq, gli USA hanno consentito la ratifica di una Risoluzione dell’ONU in cui si chiedeva il ritiro degli israeliani dai territori rioccupati, “senza indugio” il che significa, “appena possibile”, come ha subito spiegato il Segretario di Stato Colin Powell. Il terrorismo palestinese deve finire “immediatamente”, ma il terrorismo israeliano, di gran lunga più estremo e in azione da 35 anni, può prendersi il tempo di cui ha bisogno. Israele ha subito prodotto un’escalation dell’attacco, portando Powell ad affermare: “sono lieto di sentire che il Primo ministro afferma di star accelerando le operazioni”. Si sospetta da più parti che l’arrivo di Powell ad Israele sia stato rimandato per consentire che esse “accelerino” ancora di più. Questa posizione statunitense può benissimo mutare, sempre per ragioni tattiche.

Gli USA hanno permesso la ratifica di una Risoluzione dell’ONU che invocava una “visione” di uno Stato palestinese. Questo affabile gesto, che ha incontrato tanta acclamazione, non arriva però nemmeno al livello del Sudafrica, quaranta anni fa, quando il regime dell’apartheid mise realmente in atto la propria “visione”, creando Stati, governati dai neri, fattibili e legittimi almeno tanto quanto il protettorato neocoloniale che gli USA e Israele hanno in mente da tempo per i territori occupati.

Frattanto, gli USA continuano ad “agevolare il terrore”, per citare le parole del Presidente, fornendo ad Israele i mezzi per realizzare atti di terrorismo e di distruzione, tra cui un nuovo invio di elicotteri, i più avanzati dell’arsenale statunitense (Robert Fisk, Independent, 7 aprile). Si tratta di reazioni tipiche nei confronti delle atrocità commesse da un regime cliente. Per citare un esempio illuminante, nei primi giorni di questa Intifada, Israele usò elicotteri statunitensi per colpire obiettivi civili, uccidendo dieci palestinesi e ferendone trentacinque, il che difficilmente può qualificarsi come “autodifesa”. Clinton rispose con un accordo per “il maggiore acquisto di elicotteri militari da parte dell'Aeronautica israeliana negli ultimi dieci anni” (Ha’aretz, 3 ottobre 2001), oltre a pezzi di ricambio per gli elicotteri da combattimento Apache. La stampa contribuì rifiutando di riportare questi fatti. Alcune settimane dopo, Israele iniziò ad usare elicotteri statunitensi anche per commettere omicidi. Uno dei primi atti dell’Amministrazione Bush è stato quello di inviare elicotteri Apache Longbow, i più micidiali a disposizione. La notizia ha ottenuto una rilevanza marginale, nelle pagine di Economia.

L’impegno di Washington ad “agevolare il terrore” ha ricevuto un’ulteriore illustrazione in dicembre, quando gli USA hanno opposto il loro veto alla Risoluzione del Consiglio di Sicurezza per la messa in atto del piano Mitchell e per l’invio di osservatori internazionali per monitorare la riduzione delle violenze, il metodo più efficace, come viene generalmente ammesso, ma osteggiato da Israele e regolarmente bloccato da Washington. Il veto è stato opposto in un periodo di ventuno giorni di calma ovvero, era stato ucciso un solo soldato israeliano, oltre a ventuno palestinesi di cui undici bambini, e avevano avuto luogo sedici incursioni israeliane in aree sotto controllo palestinese (Graham Usher, Middle East International, 25 gennaio 2002). Dieci giorni prima del veto, gli USA hanno boicottato sabotandola una conferenza internazionale a Ginevra, che ha concluso ancora una volta che la Quarta Convenzione di Ginevra si applica anche ai territori occupati. Pertanto, quasi tutto quello che USA ed Israele commettono in quell’area rappresenta una “grave violazione”; un “crimine di guerra”, in parole povere. La conferenza ha dichiarato in modo specifico che gli insediamenti israeliani, finanziati dagli USA, sono illegali e ha condannato la prassi rappresentata da “omicidi volontari, torture, deportazioni illecite, privazione premeditata del diritto ad un processo equo e regolare, distruzioni estese ed appropriazione indebita ... realizzati in modo illegale e sfrenato”. Quale parte contraente, gli Stati Uniti sono obbligati dalla solennità del trattato a perseguire chiunque commetta tali crimini, anche qualora si trattasse della loro stessa leadership. Di conseguenza, tutto ciò viene passato sotto silenzio.

Gli USA non hanno ritirato ufficialmente il proprio riconoscimento dell’applicabilità delle Convenzioni di Ginevra ai territori occupati, né la propria condanna delle violazioni commesse da Israele in qualità di “potenza di occupazione” (confermata, ad esempio, da George Bush I quando ricopriva la carica di ambasciatore alle Nazioni Unite). Nell’ottobre del 2000, il Consiglio di Sicurezza ribadì la propria unanimità su questo argomento, “esortando Israele, la potenza di occupazione, ad attenersi scrupolosamente agli obblighi sanciti dalla Quarta Convenzione di Ginevra”. La Risoluzione fu approvata con quattordici voti favorevoli e zero contrari. Clinton si astenne, forse non volendo opporre il veto ad uno dei principi centrali del diritto internazionale in materia umanitaria, specialmente alla luce delle circostanze in cui questa Convenzione fu ratificata: per criminalizzare formalmente le atrocità dei nazisti. Ma anche tutte queste cose sono state rapidamente riposte nel dimenticatoio, offrendo così un ulteriore contributo ad “agevolare il terrore”.

Finché non si permette a queste questioni di entrare nella discussione, e finché non se ne comprendono le implicazioni, è insensato invocare un “impegno statunitense nel processo di pace”, e le prospettive per un’azione costruttiva sono destinate a rimanere sconfortanti.

(Traduzione dall’americano di Sabrina Fusari)



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