diario di viaggio verso la Jugoslavia



 di Michele De Benedetto <skanderbeg at libero.it>

DIARIO  2001 (uno stralcio)


Martedì 24 aprile

Speravo di dormire, ma dovetti iniziare ad abituarmi a finestre senza serrande ed a scomodi piumini. Nella stanza c’era un televisore che trasmetteva anche programmi via satellite, CNN compresa. Le elezioni in Montenegro si erano svolte senza incidenti. Come spesso avviene in Italia, anche nel Paese balcanico avevano vinto tutti: Djukanovic perché aveva la maggioranza relativa; tutti gli altri perché Djukanovic non aveva la maggioranza assoluta. Kostunica commentò i risultati con pacatezza, evitando di inviare carri armati come probabilmente avrebbe fatto il suo predecessore.

Mercoledì 25 aprile

Il treno per Belgrado partì da Keleti alle 13.20.
Qui è necessario un inquadramento storico: esattamente due anni prima, in quello stesso periodo, Belgrado era sotto le bombe NATO; sei mesi prima la folla della capitale aveva acclamato Vojislav Kostunica presidente; tre settimane prima Slobo Milosevic era stato arrestato; tre giorni prima il Montenegro aveva votato premiando (ma meno del previsto) il partito mafioso-separatista di Milo Djukanovic. All’epoca del mio viaggio quello stato si chiamava Repubblica Federale di Jugoslavia, composta da Serbia e Montenegro. In Serbia la provincia autonoma del Kosovo era presidiata dalle forze dell’ONU, che pochi giorni prima avevano consentito, secondo programma, il rientro delle truppe serbe nell’area. L’UCK aveva reagito bombardando, con le armi ricevute in passato dall’Occidente, alcune città della Macedonia per destabilizzare la regione. Qualcuno iniziava a comprendere che non tutti gli albanesi sono degli angioletti (mentre io stavo per comprendere che non tutti i serbi sono delle belve). In Erzegovina, pochi giorni prima, era stata commissariata dalle forze ONU una banca croata sospettata di finanziare gli estremisti orfani di Tudjman; ne erano seguiti disordini.
Per entrare in Jugoslavia era necessario un visto (a me lo aveva rilasciato il Consolato di Bari); per ottenere il visto era necessario produrre le prenotazioni alberghiere; per ottenere i fax di conferma dagli alberghi era stato necessario fare un casino (solleciti, fax e telefonate).
Più mi avvicinavo al confine, più sentivo approssimarsi il fantasma della corruzione e dei disservizi rumeni.
Invece, la guardia di frontiera non spese più di mezzo secondo per timbrare il passaporto; il controllore non sollevò obiezioni circa il mio titolo di viaggio; infine salì sul treno un medico con una bomboletta. Spruzzò qualcosa sul pavimento e sulle mani di tutti i passeggeri: “Disinfestacija”.
All’altezza di Novi Sad, il treno attraversò un ponte metallico costruito accanto a quello in cemento bombardato dalla NATO le cui rovine erano ancora adagiate sul Danubio. Le scritte nelle stazioni con i nomi delle città erano tutte in caratteri latini ed in cirillico (altrove, però, sapere il cirillico sarebbe stato utile, sebbene non indispensabile); altrettanto poteva dirsi per le numerose scritte spray dedicate a Milosevic nei giorni della sollevazione popolare ed ancora visibili sui muri di tutte le stazioni: “Gotov je” , vattene.
La stazione di
BELGRADO era piccola ed essenziale. Il primo impatto con la capitale jugoslava fu sconcertante: una città buia, sporchina e disordinata. Ma si trattava della zona dei pressi della stazione. Salendo verso il centro (poche decine di metri ma con una pendenza notevole) l’atmosfera sarebbe cambiata: più illuminazione e soprattutto palazzi gradevoli da guardare, strade pulite e ricche di serena vitalità.
Intanto non ebbi difficoltà a trovare l’hotel “Balkan” (stanza e bagno piuttosto modesti, ma proporzionati ai 68 marchi versati) tra via Terazije e via Prizrenska, punto strategico ad un passo dal viale principale e per nulla distante dalle stazioni dei treni e degli autobus. Alla reception mi chiesero di pagare subito, richiesta solitamente antipatica ma in quel caso provvidenziale perché erano le 20.30, i cambiavalute presentabili erano chiusi e non avevo un dinaro (il resto di 100 marchi mi venne corrisposto in moneta locale secondo le corrette proporzioni del cambio ufficiale).
Sarebbe stato sufficiente cambiare soltanto altre 100.000 lire la mattina dopo per campare tre giorni da re in Jugoslavia.
Uscii per un primo sguardo alla città ed insieme allo zaino lasciai definitivamente in albergo i miei pregiudizi e le mie paure sulla Serbia: disservizi, criminalità, corruzione, disordine, tensioni etniche e politiche, ostilità verso gli occidentali. Soprattutto quest’ultima preoccupazione si rivelò del tutto fuori luogo e adesso mi vergogno soltanto di averla avuta. Chiedere l’indicazione di una strada significava raccogliere sorrisi, curiosità, suggerimenti, magari condivisione di un tratto di cammino, oltre che l’indicazione stessa.
Dieci giorni dopo, sul treno Fiumicino-Termini, avrei notato una turista straniera chiedere un’informazione toponomastica al controllore e ricevere come risposta “Cosa vuoi che ne sappia io?!”.
L’inglese era abbastanza diffuso tra i giovani belgradesi. Due avvenenti e simpatiche ragazze mi accompagnarono a Kneza-Mihailova (avevo solo chiesto dove fosse) e mi posero parecchie domande:
“Da dove vieni? Quale città? Dov’è Taranto? Perchè sei venuto in Jugoslavia? Ti piace?”
“I nostri media vi hanno descritti per anni come massacratori, guerrafondai, comunisti, statalisti, centralisti, ecc.; sono venuto a vedere se è vero...”
“E tu cosa ne pensi adesso?”
Nessuno mi chiamava con risentimento “Aviano” come era capitato ad Enzo Biagi nel 1999 e soprattutto nessuno mi chiamava “Gioia del Colle” (altra base aerea da cui erano partiti i bombardieri NATO), che, a causa della rivalità pallavolistica tra Taranto e la città delle mozzarelle, sarebbe stato ancora più offensivo. La pallavolo, anzi, fu un fattore di avvicinamento visto che nel Taranto avevano giocato quell’anno le medaglie olimpioniche Goran Vujevic e Boban Kovac.
Era il primo 25 aprile che trascorrevo lontano dall’Italia. Mi persi le emozioni che solitamente si provano in questa data in cui ricordiamo i nostri connazionali che scelsero di stare dalla parte giusta e salvarono la dignità nazionale. Mi persi la consueta cerimonia in piazza della Vittoria che certamente quest’anno sarebbe stata caratterizzata dalla presenza di candidati opportunisti mai visti negli anni passati.
Però, dopo aver percorso poche strade tenebrose ma tranquille, raggiunsi via Takovska ed il Parlamento della Jugoslavia, comunque un simbolo di libertà. Qui si era radunata la folla il 5 ottobre 2000 per protestare contro gli ultimi imbrogli di un tiranno. Una colonna di fumo era apparsa alle spalle delle cupole verdi della Skupstina. Era sera anche allora, quando Kostunica raggiunse proprio quella piazza e pronunciò le parole che avevo fotocopiato da un quotidiano e che rilessi in quell’atipico 25 aprile: “Buona sera, libera Serbia. La Serbia ha imboccato la strada della democrazia e dove c’è democrazia non c’è posto per Slobodan Milosevic. Quello che stiamo facendo oggi è la storia. E questo popolo lo sta facendo senza l’aiuto di nessuno. Non abbiamo bisogno di Mosca o di Washington. Convoco questa sera la seduta inaugurale del nuovo Parlamento della Serbia.”
Quante suggestioni in quel luogo e in quella data: la libertà e la dignità riconquistati dai partigiani del mio Paese oltre l’Adriatico, le foibe ed il terrore diffuso tra i miei connazionali proprio dai partigiani del Paese in cui mi trovavo, le recenti bombe italiane sui serbi, le sofferenze di questi ultimi e le loro fresche speranze di un futuro sereno in una democrazia vera.
Ma un’altra piazza ricca di emozioni, di dolore e di speranze mi venne in mente, piazza Yitzhak Rabin, quella in cui avrei voluto e dovuto trovarmi in quel momento se il corso della storia in Israele non avesse imboccato una triste e temporanea involuzione.
Intanto si era fatto tardi. Buona notte, libera Serbia.


Giovedì 26 aprile

Una caratteristica positiva di Belgrado (e più in generale della Jugoslavia) era che in tre giorni non vidi neanche mezzo turista giapponese.
La sinagoga in via Birjuzova era preceduta da un cortile in cui si poteva accedere senza alcun controllo. Il tempio, assai poco appariscente, era chiuso ed era adiacente ad abitazioni private.
Nel primo pomeriggio, dopo aver mangiato una frittella, mi fermai un’oretta in uno dei tavolini all’aperto di uno degli innumerevoli bar del centro di Belgrado. Mi riposai scrivendo cartoline e mangiando un tiramisù. Ad un certo punto le casse acustiche del bar diffusero le note di una canzone di Al Bano.
Andai a prendere lo zaino dall’albergo e mi diressi verso il terminal degli autobus, nella cui biglietteria acquistai un biglietto per Novi Sad (205 dinari, cioè circa 6.700 lire, più altri 20 dinari per introdurre il bagaglio nell’apposito vano del pullman). Oltre al biglietto, veniva rilasciato uno speciale gettone che consentiva l’accesso alle pensiline.
Mentre attendevo la mia corsa sotto la pensilina della postazione n. 32, iniziò un temporale che non durò più di un quarto d’ora.
Il tempo rimase incerto per il resto della serata.
Al terminal di
NOVI SAD, dove arrivai verso le 20, vennero a prendermi Vesna Markovic, con cui da mesi avevo avviato uno scambio di opinioni telematico sulla situazione nei Balcani, e la sua amica Jelena Crnojevic. L’hotel “Putnik” si affacciava proprio sulla piazza principale della capitale della Vojvodina. A pochi passi c’era l’istituto privato dove Vesna insegnava inglese. Ci fermammo a mangiare una torta e poi tentammo di bere qualcosa, ma non fu facile perché i locali erano quasi tutti pieni. La Jugoslavia era alla vigilia di un lungo ponte che sarebbe iniziato con la festa nazionale del giorno successivo e questo era uno dei motivi per cui tanta gente era in giro quella sera.
Un’altra ragione stava nel fatto che ai serbi piace mangiare e bere, soprattutto fuori e in compagnia. Anche durante i bombardamenti - mi spiegarono Vesna e Jelena - le abitudini “mondane” non mutarono. Piuttosto che rintanarsi nei rifugi, a volte si usciva per tentare di indovinare gli obiettivi colpiti dagli aerei NATO. Faceva una certa impressione ascoltare due coetanee che parlavano di guerre e di bombe; di solito si tratta di argomenti che in Occidente sono di esclusiva competenza degli anziani.
Riconobbi pubblicamente la mia stupidità nell’aver temuto questo viaggio, nell’aver temuto tensioni e ostilità. Anche le elezioni in Montenegro non avevano generato disordini. Le mie interlocutrici ritenevano insensata un’eventuale secessione montenegrina; per loro sarebbe stato possibile continuare a vivere persino con croati, musulmani e macedoni così come era avvenuto in assoluta serenità per decenni.
Ma per parlare di politica ci sarebbe stata un’intera giornata a disposizione.


Venerdì 27 aprile

Arrivare di sera in una città significa scoprirla due volte: prima al buio e poi, la mattina dopo, alla luce.
L’appuntamento con Vesna e Jelena era alle 10 sotto l’albergo. Era l’ultima volta che si festeggiava la Giornata Nazionale della Federazione Jugoslavia, celebrazione voluta da Milosevic. Nel 2001 la festa aveva perso significato e infatti non era prevista alcuna manifestazione pubblica; semplicemente non si lavorava.
In Italia stavo leggendo “Il libro di Blam” di Aleksandar Tisma, il cui incipit è “Palazzo Merkur è l’edificio più visibile di Novi Sad.”
Chiesi, pertanto, quale fosse questo Palazzo Merkur visto che doveva trovarsi proprio al centro della città.
“Ma è proprio dove c’è il tuo albergo...”
E così scoprii che, senza volerlo, avrei dormito due notti nello stabile del protagonista del libro che stavo leggendo. Circostanze che non capitano spesso.
Tanto per restare in tema, iniziammo la visita da via Jevrejska, antico quartiere della comunità ebraica locale di cui rimane soltanto una maestosa sinagoga. Anche qui ci si avvicinava senza controlli, metal-detector e telecamere; quando non è il posto più pericoloso del mondo, la Jugoslavia è il posto più sicuro e tranquillo che esiste. Un custode venne ad aprire il portone e ci fece entrare. Anche da dentro la sinagoga era molto suggestiva, ma il suo utilizzo prevalente era quello di una sala da concerti. Era la prima volta che ci entravano anche Vesna e Jelena.
Tra la Vojvodina e la Transilvania è come se non ci fossero confini urbanistici; le città hanno le stesse caratteristiche, le minoranze si intrecciano e ciascuna di esse affianca i propri luoghi di culto a quelli delle altre. Anche a Novi Sad, come per esempio a Timisoara, le cattedrali cattoliche, quelle ortodosse e le sinagoghe sono a pochi metri di distanza. Esternamente la cattedrale cattolica era più imponente, ma all’interno i lumi e le icone della chiesa serba-ortodossa di Novi Sad creavano un’atmosfera più pittoresca. Il segno della croce che parte da destra confermò che Vesna e Jelena erano ortodosse.
Ovviamente era impossibile visitare i luoghi di culto di ciascuna delle 26 minoranze etniche della città (la più significativa era quella ungherese) e così ci recammo verso il Danubio.
“Quei ponti dei Balcani distrutti dall’odio” era il titolo di un articolo di Paolo Rumiz per La Repubblica. Ponti: simbolo di unione e di dialogo; ponti: simbolo di odio quando sono mitragliati dai cecchini serbi di Sarajevo, quando sono bombardati per sfregio dai croati di Mostar, quando sono abbattuti dai bombardieri NATO. Chissà quale fosse il collegamento tra i ponti di Novi Sad (all’estremo nord della Jugoslavia) e la zona di guerra del Kosovo (all’estremo sud). Sta di fatto che le macerie dei ponti di Novi Sad erano ancora lì nel Danubio. Un nuovo ponte metallico permetteva il passaggio dei treni, un nuovo ponte di cemento univa Petrovardin con il centro ed un provvisorio ponte galleggiante univa la collina con la zona dell’università.
Il completamento del ponte di cemento era stato fortemente voluto da Milosevic prima delle elezioni dell’autunno precedente. Gli operai avevano lavorato giorno e notte.
Con compiacimento Vesna, che all’epoca delle elezioni mi inviava via e-mail gli stemmi dell’opposizione Otpor, sosteneva che adesso il ponte c’era (più alto e funzionale del precedente) e Milosevic no. Nel periodo delle bombe, però, la vita senza ponti non era facile, soprattutto per Jelena che abitava in collina: attraversare il fiume con le zattere comportava tre ore di tempo in più per andare e tornare dal centro. A cosa fossero serviti quei bombardamenti, poi, nessuno lo sapeva. Non certo ad indebolire Milosevic visto che il premier socialista rimase al governo per oltre un anno e ci sarebbe rimasto ancora se il popolo serbo non lo avesse rovesciato con le elezioni, gli scioperi, le manifestazioni e senza l’aiuto esterno di nessuno. Anzi, sotto le bombe, la gente si vide costretta a stringersi vicino a Milosevic “e non c’è niente di più orribile - disse Vesna - che sostenere una persona che si odia”.
Dissi alle mie interlocutrici che, curiosamente, i miei due migliori amici erano un navigatore di Tornado che (sia pur... tappandosi il naso) aveva bombardato Novi Sad ed un pacifista che contemporaneamente preparava libri ed appelli anti-NATO. La cordialità serba era tale da non lasciare spazio ai risentimenti neanche nei confronti di chi aveva materialmente bombardato il Paese. Anzi, passando più tardi davanti al Parlamentino della Vojvodina, Vesna e Jelena mi diranno che una bomba aveva centrato l’edificio con una precisione tale da distruggerne l’interno lasciando però intatte le pareti esterne: “Porta al tuo amico i nostri complimenti per la mira...”
A lasciare perplesse le mie interlocutrici era piuttosto l’ultima edizione della guida in inglese della Lonely Planet, che nel paragrafo “Things to see” a Novi Sad riportava testualmente: “The vista also includes tha damage that NATO bombing did to the Danube bridges”...
Sul lungofiume sorgeva un piccolo memoriale dedicato alle vittime locali della shoah, gli ebrei di Novi Sad buttati nel Danubio dai tedeschi. A Budapest i nazisti fecero lo stesso eppure non mi pare che ci siano lapidi a ricordare quei massacri; forse non è delicato turbare i turisti con certi ricordi o forse le imprese delle croci frecciate ungheresi imbarazzano ancora qualcuno.




                                                Taranto, 16 maggio 2001