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Il mondo della moda alla fine dell'era A.C. (Avanti Cina)



Da Tradewatch -  http://tradewatch.splinder.com
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Osservatorio sul commercio internazionale e il Wto promosso da:
Rete Lilliput, Campagna per la Riforma della Banca Mondiale, Mani Tese,
ROBA dell'Altro Mondo, Centro Crocevia.
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IL MONDO DELLA MODA ALLA DINE DELL'ERA A.C. (Avanti Cina)

Fra poco più di un mese l’industria del tessile e dell’abbigliamento
mondiale affronterà l’oceano della liberalizzazione e si troverà ad
affrontare una fase di cambiamenti radicali dopo 45 anni di navigazione
regolata dal sistema delle quote d’importazione.
A partire dal 1 gennaio 2005, le quote cesseranno di essere un passaporto
per l’entrata di tessuti e capi di abbigliamento nei mercati dell’Unione
Europea e degli Stati Uniti d’America; per guadagnare quote di mercato ci
sarà “libera” competizione.

L’intero settore è in agitazione, milioni di posti di lavoro sono a rischio
e tutti gli occhi sono puntati verso un unico attore: la Cina.
Il commercio del settore del Tessile e Abbigliamento (T&A) rappresenta il
5.7 % delle esportazioni mondiali; negli ultimi quarant’anni il suo volume è
cresciuto di 60 volte, ben più di quello del totale delle merci (aumentato
di 48 volte) e se nel 1962 valeva 6 miliardi di dollari, nel 2001 ne valeva
342 (in termini nominali).

La produzione in questo settore è stata appannaggio dei paesi
industrializzati sino agli anni ’80 dopodiché i paesi catalogati come in via
di sviluppo (PVS) hanno preso il sopravvento arrivando oggi a contare per il
50% delle esportazioni tessili e per il 70% dell’abbigliamento; la
differenza è chiaramente dovuta al minor costo del lavoro in questi paesi ed
al fatto che l’abbigliamento è un settore ad alta percentuale di lavoro
manuale.
Per i PVS il settore T&A è importante perché spesso si tratta del loro
principale settore industriale sia in termini di esportazioni (e pertanto di
entrate in valuta straniera importanti per la riduzione del debito estero)
sia in termini di occupazione. Per alcuni fra i paesi a più basso reddito
(PMS) si tratta di una vera e propria “dipendenza” perché le esportazioni di
T&A rappresentano più del 50% del totale delle loro esportazioni
industriali, per esempio il 95% del Bangladesh, l’83% della Cambogia, il 75%
del Pakistan, il 72% dello Sri Lanka e il 40% della Turchia.
Dal punto di vista dell’occupazione, questo settore occupa 1,8 milioni di
persone nel solo Bangladesh, 1,4 in Pakistan e 350 mila nello Sri Lanka.

La liberalizzazione è stata decisa dieci anni orsono durante i negoziati
dell’Uruguay Round, quando venne approvato un accordo transitorio (L’Accordo
sui Tessili e l’Abbigliamento ATA) che avrebbe reso graduale questo
processo. In realtà così non è stato e l’ATA è stato utilizzato
dall’industria occidentale semplicemente come uno strumento protezionistico.
Il suo utilizzo insieme ad altre forme di politica commerciale ha stabilito
la divisione internazionale dei processi produttivi.
I PVS solo nell’imminenza della sua fine si sono accorti che i previsti
benefici saranno appannaggio soprattutto della Cina e che molti di loro
vedranno chiudersi un ciclo industriale.
Già un anno fa chiedendo ai maggiori produttori del settore e alle catene di
vendita quali sarebbero state le loro fonti di approvvigionamento dopo il
2005, la risposta risultava unanime: per il 70/80% dalla Cina.
Altro che globalizzazione! Il mondo sembra dividersi fra Cina e resto del
mondo e ogni paese che sino ad oggi aveva una industria del settore si
chiede se rientrerà in quel 20/30% prodotto non in terra cinese.

Per molti paesi poveri l’unica soluzione per mitigare i danni appare quella
di siglare accordi regionali con UE ed USA e magari dimenticare del tutto il
miglioramento delle condizioni dei loro lavoratori.
Non è uno scherzo, già il governo del Bangladesh ha annunciato un
allentamento della regolamentazione sul lavoro notturno femminile, quello
Filippino intende esentare l’industria del settore dalla legislazione sui
livelli minimi salariali, in Tunisia l’industria chiede più flessibilità
sugli orari di lavoro . Il messaggio ai lavoratori è chiaro: dovete
competere con i cinesi.
Il ridicolo è che persino il governo cinese ha recentemente parlato della
necessità di allentare i limiti degli orari lavorativi e dell’impossibilità
di garantire pensioni e altri contributi sociali: persino la Cina deve
competere con se stessa!

E gli imprenditori occidentali cosa dicono?
Che sono i consumatori a decidere, sono loro a non rispettare tempi e costi
dell’industria domestica, a voler cose sempre nuove, belle, in tempi rapidi
e che costino poco.
Sulla fragilità di chi a tutti i costi deve apparire gradevole e deve
consumare per sentirsi vivo sta in piedi un sistema che gioca al ribasso dei
diritti umani.

Ma se non vogliamo finire tutti dentro questo tritacarne dobbiamo alzare la
testa.
Le organizzazioni internazionali, governi, multinazionali, imprese e
consumatori devono capire che nessuno può risolvere il problema da solo e
che non si esce dal problema se non avviandosi a garantire dignitose
condizioni di lavoro per tutti.
Per il WTO occorre mettere mano a misure di emergenza, considerare con
attenzione il problema nell’ambito dei negoziati in corso sulla riduzione
delle tariffe dei prodotti industriali ed affrontare un problema
dimenticato: prima del commercio vengono i diritti dei lavoratori.

Per un'analisi completa della fine dell'Accordo ATA:
www.beati.org/wto/wto/Dopocina_bozza.pdf