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[libro] Il mobbing e' un attacco
- Subject: [libro] Il mobbing e' un attacco
- From: Carlo Gubitosa <c.gubitosa@peacelink.it>
- Date: Mon, 24 May 2004 12:10:49 +0100
In edicola con l'Unità per due settimane dal 18 maggio
"Mobbing" di Antonella Marrone (4 euro + il giornale)
Il mobbing è un attacco, non è un conflitto. È probabilmente questo il
motivo per cui, nel dare un nome al fenomeno, si sono ispirati
agli animali di Lorenz. Quello che resta, dunque, sono ferite.Ferite alla
dignità dei lavoratori e delle lavoratrici. Alla dignità
umana. Ci possono ridare anche tanti soldi per "riparare "il danno:
biologico, patrimoniale, professionale, esistenziale. Ma se non
viene risanata quella ferita, sarà difficile, dopo un 'esperienza del
genere, accontentarsi solamente dei soldi.
Il mondo del lavoro sta cambiando, la globalizzazione e la sempre maggiore
flessibilità richiesta alle professioni, le fusioni di più
aziende in una sola, l'esasperazione a ridurre i costi aziendali concorrono
a creare un terreno fertile per il mobbing. A farne le
spese sono i dipendenti che vengono considerati un numero da "abbattere",
in special modo quelli che con la loro uscita
contribuirebbero a svecchiare il personale. Ma le vittime si contano anche
tra i collaboratori e i manager, soprattutto quando sono in
atto fusioni di società e grandi e piccole ristrutturazioni con cambi di
management ai vertici aziendali.
Vediamo sommariamente - sono solamente spunti per riflettere - come la
globalizzazione ha ridefinito una prassi "antica" se vogliamo,
quella dell'emarginazione individuale (a volte collettiva) di chi lavora,
quando non è più omogeneo al disegno imprenditoriale.
La globalizzazione facilita e spinge le fusioni aziendali che da un lato
consentono una maggiore economia di scala (ossia un profitto
maggiore), dall'altro creano inutili doppioni. Le aziende per eliminare gli
esuberi costruiscono liste nere, operano trasferimenti di
"massa" in edifici periferici, tolgono "benefit" prima
concessi. Direttamente collegate a questo sono le riorganizzazioni delle
società che producono anche qui reparti-confino (qualcuno ricorderà il
reparto Stella Rossa della Fiat degli anni Cinquanta dove,
però, raccontano i testimoni, c'era solidarietà seppur nascosta da parte
dei "non politici"), perché si ritiene più economico fare in
modo che i lavoratori arrivino da soli al licenziamento, piuttosto che
pianificare un progetto di formazione continua e di
riqualificazione professionale, piuttosto che pagare la " buonuscita".
Inoltre i lavoratori con meno "know how", i meno aggiornati
vengono eliminati. Gli ambienti di lavoro diventano dei luoghi di "culto"
dell'iperproduzione e coloro che non aderiscono a questa
fede vengono ghettizzati. Altra piaga della globalizzazione è la cosidetta
delocalizzazione: le società spostano le sedi nei paesi in
cui il costo del lavoro è molto inferiore (e inferiori i diritti di chi
lavora) rispetto al luogo di origine.
Più complesso, ma micidiale, il meccanismo che ha portato il predominio del
capitalismo finanziario sull'economia produttiva, ossia:
anche se un'azienda è sana, ha utili, si cerca di ridurre il personale
perché questa "semplice" mossa fa alzare il valore delle azioni
in borsa. Che cosa succede allora? Che il manager della grande società
quotata in borsa cambia il suo obiettivo: non più soddisfare i
clienti, ma creare valore per l'azionista. Questa si chiama speculazione
finanziaria. Infine la globalizzazione ci ha regalato una
maggiore flessibilità che discende dalle incertezze create dal mercato
globale ed è endemica alla società del rischio così come ci è
stata descritta da sociologi quali Giddens e Beck. La flessibilità rende i
ruoli sempre meno precisi e le competenze richieste sempre
più trasversali, duttili, improvvisate. Ma questa è una storia che, chi
lavora, conosce assai bene.