[Date Prev][Date Next][Thread Prev][Thread Next][Date Index][Thread Index]

La nonviolenza e' in cammino. 689



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it

Numero 689 del 30 settembre 2003

Sommario di questo numero:
0. Tre comunicazioni di servizio
1. Normanna Albertini: "Combatti la poverta': uccidi un mendicante" (sulla
proposta di Lidia Menapace per un'Europa di pace, neutrale e attiva,
disarmata e nonviolenta)
2. Peppe Sini: i piedi nel piatto e il cammino da fare (sulla proposta di
Lidia e sulle riflessioni di Normanna)
3. Maria G. Di Rienzo: tre storie di donne africane
4. Giovanni Mandorino: a pensar male...
5. Luisa Morgantini: una petizione per la liberazione dei ragazzi
palestinesi detenuti
6. Sari Nusseibeh: il muro ha bisogno di tagliare in due anche il nostro
campus?
7. David Bidussa: i "nuovi martiri"
8. A Verona la Casa per la nonviolenza compie quindici anni
9. Riletture: Nicole Chevillard, Sebastien Leconte (a cura di), Lavoro delle
donne. Potere degli uomini
10. Riletture: Mariella Loriga, L'identita' e la differenza
11. Riletture: Massimo Teodori, Storia delle nuove sinistre in Europa
(1956-1976)
12. La "Carta" del Movimento Nonviolento
13. Per saperne di piu'

0. TRE COMUNICAZIONI DI SERVIZIO
Settembre e' il piu' affollato dei mesi, ci giunge un carico di posta enorme
e ogni giorno dovremmo fare un notiziario di dimensioni sesquipedali per
pubblicare solo le cose piu' interessanti ed urgenti fra quante ci giungono;
cosicche' se qualcosa, anzi molto, va perso financo per nostra disattenzione
o improntitudine, ebbene, portino pazienza i gentili lettori.
Abbiamo avuto ancora anche problemi di connessione e di intasamento e puo'
darsi che alcune lettere siano andate perse; se si trattava di cose
importanti saremmo grati di un nuovo invio. Grazie per il buon cuore, e
portino i gentili lettori pazienza.
Ancora rammentiamo che noi non inviamo mai allegati: giungono anche a noi
numerosi messaggi sospetti e recanti virus, e messaggi recanti virus che si
presentano come non sospetti; ci giungono anche messaggi apparentemente da
noi stessi provenienti. Ricordiamo ancora, quindi: a) che noi non inviamo
mai allegati, se vi giungono messaggi con allegati apparentemente da noi
provenienti vi preghiamo di eliminarli senza aprirli poiche' si tratta di
virus; b) che e' buona profilassi aggiornare costantemente gli antivirus ed
effettuare frequenti scansioni di controllo (come e' noto vi e' la
possibilita' di effettuarle anche gratuitamente in rete); c) va da se',
infine, che chi ci invia dei testi ci farebbe un regalo grande se - quando e
per quanto possibile - ce li mandasse come testo normale all'interno del
messaggio anziche' in allegato. Grazie ancora a tutti per la benevola
attenzione, e portino, gentili i lettori, pazienza.

1. EDITORIALE. NORMANNA ALBERTINI: "COMBATTI LA POVERTA': UCCIDI UN
MENDICANTE" (SULLA PROPOSTA DI LIDIA MENAPACE PER UN'EUROPA DI PACE,
NEUTRALE E ATTIVA, DISARMATA E NONVIOLENTA)
[Siamo assai grati a Normanna Albertini (per contatti: normanna.a@libero.it)
per questo intervento. Normanna Albertini, insegnante nella scuola
elementare, e' impegnata nel gruppo di Felina (Reggio Emilia) della Rete
Radie' Resch, e quindi in varie iniziative di solidarieta', di pace, per i
diritti umani e per la nonviolenza]
Concordo pienamente con Lidia Menapace sul fatto che essere neutrali
significa prendere posizione e agire nelle varie situazioni in tutti i modi,
tranne con le armi.
Ma poi mi chiedo: puo' questa Europa permettersi questo? La nostra
neutralita' militare presuppone una neutralita' economica e limpidezza etica
che, di fatto, non abbiamo.
Ecco perche' anche Prodi sostiene che l'Europa "deve" avere un esercito e
che "si puo' "(e "si deve") promuovere la pace con le armi.
Se ci si sofferma su alcuni articoli della Costituzione dell'Unione europea,
si comprende che cio' che si vuole tutelare sono gli interessi economici
dell'Europa, non la pace.
E' lampante che le missioni militari vi siano contemplate. E vi sono
previste persino nella "lotta al terrorismo" sul territorio di paesi terzi.
*
Sembra che questa Europa debba prepararsi a difendersi militarmente. Da chi?
"Combatti la poverta': uccidi un mendicante", scriveva Eduardo Galeano.
Questa Europa "deve" prepararsi a difendersi militarmente dai poveri e a
difendere i propri interessi nei paesi poveri, anzi: contro i paesi poveri.
Neutralita'? La Svizzera e' neutrale? Il cardinale di Kinshasa ha chiesto in
questi giorni- lo riferisce padre Zanotelli- un tribunale internazionale per
i crimini perpetrati nelle guerre d'Africa ( in Congo, 4 milioni di morti in
5 anni) e che i presidenti del Rwanda e dell'Uganda e i loro generali siano
portati davanti al tribunale con gli Usa e l'Inghilterra. Poi ha invocato
l'embargo sulle armi all'Uganda e al Rwanda e che i beni rubati ( l'Onu ha
nomi e cognomi di chi ha razziato e moltissimi fanno riferimento a banche
svizzere) vengano restituiti. La neutralita' della Svizzera e' vera
neutralita'?
E la nostra ipotizzata neutralita', e' possibile se si va a Cancun con la
deliberazione che l'acqua e' merce e non un bene primario, ben sapendo che
gia' oggi il 70% dell'acqua commercializzata e' in mano a due
multinazionali? Difficile chiamarsi fuori dalla logica militare se come
Commissione Europea si preme sui governi che domandano aiuto e finanziamenti
perche' cedano le loro risorse idriche alle multinazionali. E come la
mettiamo con le sovvenzioni all'agricoltura (350 miliardi di dollari tra Usa
e Unione Europea destinati ai propri agricoltori) che "... minano alla base
lo sviluppo economico, impediscono alla nostra agricoltura di modernizzarsi,
ci obbligano a importare... e provocano l'esodo rurale che va ad aumentare
il numero degli abitanti delle bidonvilles", come ha spiegato il presidente
senegalese Abdoulaye Wade? Quale dei nostri sindacati e dei nostri partiti
politici potrebbe ammettere un dibattito sulla materia?
Come possiamo vivere "neutralmente", in pace coi nostri vicini se
quotidianamente li rapiniamo? E li rapiniamo assicurandoci anche i 200
miliardi di dollari di interessi annuali sui 2.500 miliardi di dollari di
debito totale accumulato dai paesi poveri.
Qualcuno se lo ricorda? Qualcuno vuole ricordare che la finanza
internazionale non arriva neanche a 50 miliardi di prestiti a quei paesi e
che quindi sono i poveri a sovvenzionare i ricchi?
Ecco perche' le armi a questa Europa sono essenziali. E la neutralita'
inattuabile.
*
Ma c'e' ancora un altro problema, gravissimo, che, mi pare, non e' entrato
nello scambio di idee: il peso della Nato nell'Unione Europea.
Anche Prodi dice che l'Europa potra' contare soltanto se sara' al pari
militarmente con gli Usa, in una nuova "guerra fredda" che, da Usa/Urss,
diventera' Usa/Unione Europea. E il funzionamento della Nato, dopo il
vertice di Washington del '99, che trasformo' l'alleanza da difensiva in
offensiva, praticamente uno mezzo per affermare gli interessi dei paesi
membri in qualsiasi parte del mondo essi li vedano minacciati, comporta un
obbligo gravissimo sull'Unione Europea. Nemmeno la piu' vantaggiosa delle
Costituzioni potrebbe sostenerne l'impatto.
Nel vertice di Praga del 2002, la Nato ha poi sposato la teoria dell'attacco
preventivo, ribaltando la strategia dalla difesa all'attacco militare. Il
tutto passato senza venir sottoposto alla verifica di nessun parlamento
nazionale ne' dei cittadini.
E' evidente che gli accordi Nato hanno per i governi nazionali una forza
piu' importante delle rispettive norme costituzionali  e possono violarle
impunemente.
Purtroppo, sembra che anche nel centrosinistra europeo abbia preso il
sopravvento un accostamento alla linea atlantica, che ha trovato beneplacito
in Giscard d'Estaing e Giuliano Amato, disposti a fluidificare le
disapprovazioni piu' brusche all'ideologia della guerra preventiva.
E' l'esistenza stessa della Nato a impedire la "neutralita'" dell'Europa.
*
Cio' che doveva essere il fulcro della Costituzione europea e' riassunto
nell'affermazione portata avanti dalla campagna italiana perche' entrasse
nella Costituzione stessa: "L'Europa ripudia la guerra come mezzo di
risoluzione delle controversie internazionali e riconosce nella pace un
diritto fondamentale delle persone e dei popoli. L'Europa contribuisce alla
costruzione di un ordine internazionale pacifico e democratico. A tale scopo
promuove, favorisce il rafforzamento e la democratizzazione dell'Onu e lo
sviluppo della cooperazione internazionale".
Mi ha impressionato l'accanimento delle alte gerarchie ecclesiastiche e di
molti leader politici nella richiesta di una Carta europea con chiara
caratterizzazione cristiana. Nessuno scandalo, non una parola, invece, sul
valore della pace, accettata solo come obiettivo e, quindi, destituita da
guida principale di ogni azione politica. Nessuna pressione, nessuna
invocazione ne' richiesta. Eppure, invocare le "radici cristiane", per me
credente, cattolica praticante, dovrebbe significare pretendere di fondare
la Carta sulla pace, l'amore e la nonviolenza predicate da Gesu' Cristo.
Piu' che invocare i crocefissi appesi ai muri. Ma i cristiani d'Europa, come
gli europei atei o di altre confessioni religiose, non hanno
l'incolpevolezza etica e la "neutralita' economica" per farlo.
Cosi', senza queste fondamenta, la neutralita' militare non potrebbe essere
altra che quella, opportunistica, che mantiene al sicuro le banche svizzere.

2. EDITORIALE. PEPPE SINI: I PIEDI NEL PIATTO E IL CAMMINO DA FARE (SULLA
PROPOSTA DI LIDIA E SULLE RIFLESSIONI DI NORMANNA)
L'intervento di Normanna pone con lucidita' e commozione, con dolore e
tenerezza, ed insieme con fermezza di sguardo e di dettato, alcune questioni
di fondo ed una esigenza fondamentale. Che sono al cuore della proposta di
Lidia e sulle quali tutti, Lidia, Normanna, Luciano, Nanni, Angela, Daniele,
Enrico, Fausto, e tanti altri ancora, stiamo lavorando - ciascuna e ciascuno
coi propri limiti, le proprie contraddizioni, la propria fatica - sovente da
molti anni.
Gia' altre ed altri lo hanno sottolineato: per costruire la pace occorrono
scelte di giustizia e di modello di sviluppo adeguate e coerenti, ed a tutti
i livelli: internazionale, degli stati, locali, tanto delle istituzioni
quanto della societa' civile, delle comunita' e delle persone.
E vi sono nodi che non si possono eludere e che e' bene vengano indicati per
quello che sono: ad esempio la Nato, la cui abolizione e' fin dalla sua
imposizione una necessita' impellente; e a maggior ragione dopo l''89; e a
maggior ragione ancora dopo quel catastrofico '99.
*
Io, come Normanna, come Lidia, come le altre e gli altri che su questo
foglio dicono la loro, condivido quell'opinione di Gianni Rodari: che fatta
la diagnosi dei mali del mondo da qualche parte dobbiamo cominciare a
riparare.
Molte sono le cose che a vari livelli ed in ambiti diversi si possono fare e
che molti gia' fanno; e potrei fare un elenco infinito del frugifero e
luminoso lavoro di Lidia, di Normanna, di Enrico, di Angela eccetera; pur
sapendo quella verita' che appresi da Primo Levi: che la lotta contro il
male e' una lotta infinita; ma proprio perche' e' infinita tu arrenderti non
devi giammai, e nulla e' inutile di quanto di buono e' fatto.
Tra le molte cose mi pare che la proposta di Lidia sia un ottimo punto
d'inizio (o di presa, o di attacco, per usare un gergo che m'immagino
alpinistico).
*
Poiche' lo spazio sociale e civile e politico ed istituzionale europeo, ed
in esso quell'oggetto per piu' versi ancor misterioso e ameboide ed in fieri
che e' l'Unione Europea, e' un contesto dinamico e contraddittorio, e
presenta molteplici aspetti favorevoli alla promozione della pace, dei
diritti umani, della nonviolenza: come ad esempio il fatto, cruciale, che
rispetto ad altre aree del mondo - e certo anche grazie a un privilegio che
abbiamo e che non e' innocente ma frutto di quella plurisecolare e attuale
rapina che Normanna denuncia - abbia sistemi politici democratici,
ordinamenti giuridici statuali fondati sul principio dello stato di diritto,
relativamente notevolissime garanzie e immensi spazi espressivi ed operativi
per chi gode del beneficio della cittadinanza (una persona come me, per
esempio, credo che difficilmente in un luogo non europeo sarebbe ancora vivo
e libero e avrebbe a disposizione tutti i vantaggi e i conforti di cui
beneficio).
Quindi l'Europa puo' essere ed e' un luogo in cui piu' agevolmente che
altrove si puo' lavorare a costruire un processo che inveri un'alternativa
fondata sulla democrazia e sulla giustizia, sul rispetto e la promozione dei
diritti, sulla solidarieta' e la cooperazione internazionale, e - mi si
passi il termine confuciano - sulla benevolenza. Non mi si fraintenda: non
ho mai creduto ad una pretesa e razzista "superiorita'" europea; e ritengo e
sostengo da sempre che molte delle cose che piu' contano (e alla cui scuola
e sequela mi sono messo fin dalla mia lontana gioventu') vengono pensate e
sperimentate nel sud del mondo, negli infiniti e infinitamente diversi sud
del mondo; sto semplicemente constatando un dato di fatto: che l'Europa e'
un contesto favorevole per un'azione di pace e per i diritti umani, per
l'inveramento della nonviolenza nei rapporti sociali e politici e nella loro
codificazione giuridica; e che essa Europa puo' divenire anche nella sua
organizzazione istituzionale e politica - oltre che nella sua complessita'
culturale e vivacita' civile - un soggetto attivo di tale azione e di tale
inveramento.
Ed e' urgente qui e adesso iniziare dal punto piu' critico: le politiche
della difesa e della sicurezza, l'opposizione alla guerra, la costruzione
della scelta di pace con mezzi di pace, il disarmo e la smilitarizzazione,
la scelta della nonviolenza proprio nell'ambito in cui si annida il rischio
dell'apocalisse per tutti.
*
"Neutralita' attiva e operante": cioe' disarmo, smilitarizzazione, difesa
popolare nonviolenta, corpi civili di pace, "articolo 11" nella Costituzione
europea, nonviolenza giuriscostituente, una politica internazionale di
cooperazione e di giustizia, di "produzione di pace a mezzo di pace",
raccogliendo e inverando l'eredita' feconda del movimento delle donne, del
movimento operaio, delle esperienze di Resistenza all'inumano e di
liberazione dell'umano, antirazziste ed anticolonialiste, antimperialiste ed
ecologiste, di uguaglianza nel riconoscimento delle differenze e di
solidarieta' nell'affermazione di tutti i diritti umani per tutte e tutti.
Molto c'e' da fare e molto possiamo fare, qui e adesso.
Consapevoli certo di tutte le difficolta', di tutte le contraddizioni, di
quanto arduo - e ad un tempo urgente - sia il compito, delle profonde
trasformazioni che esso implica e con cui deve intrecciarsi e interagire o
che deve innescare. Rifiutando ugualmente gli atteggiamenti velleitari e
quelli rassegnati, il fatalismo e il fanatismo, l'abulia e l'epilessia che
sovente affliggono i movimenti sociali e le persone di volonta' buona, e non
di rado li travolgono nell'inane e nel corrotto.
Si tratta, quindi, di mettersi in cammino, di non lasciarsi paralizzare, di
uscire dalla subalternita'. Con quel pessimismo e quell'ottimismo di cui
diceva anche il prigioniero di Turi.
Con la saggezza luminosa e la fervida tenacia di Lidia, con la lucidita' di
sguardo e l'acuta scienza del cuore di Normanna, con il rigore logico e
morale e le ipotesi di lavoro di Nanni (penso anche ad esempio al suo
piccolo ma prezioso libro sugli Elementi di economia nonviolenta), e cosi'
via.
E cosi' via, direbbe Kilgore Trout.

3. EDITORIALE. MARIA G. DI RIENZO: TRE STORIE DI DONNE AFRICANE
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59@libero.it) per
questo intervento. Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici
di questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista,
giornalista, regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto
rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento
di Storia Economica dell'Universita' di Sidney (Australia); e' impegnata nel
movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta'
e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza]
Oggi la causa principale di morte in Africa e' il virus hiv (e' la quarta
causa a livello mondiale).
Oltre 35 milioni di uomini, donne e bambine/i sono sieropositivi o in aids
conclamato. I nuovi casi sono stimati attorno ai 5,4 milioni l'anno. Bambini
orfani si trovano a dover provvedere al proprio sostentamento e a quello di
sorelle e fratelli minori: a 9 anni si sopravvive vendendo cianfrusaglie
davanti ai bar od altri luoghi di intrattenimento per gli adulti; per avere
il permesso dai gestori dei luoghi spesso questi bambini e bambine devono
sottostare ad aggressioni sessuali.
Le comunita' religiose non sembrano aver preso sufficientemente sul serio la
situazione, giacche' persiste in esse la percezione che l'hiv/aids tocchi
esclusivamente coloro che sono sessualmente promiscui, gli adulteri e le
adultere, gli/le omosessuali. Percio' alcune di esse si oppongono alla
distribuzione gratuita di preservativi o a qualsiasi altra misura che
incoraggi pratiche di autoprotezione.
Questa attitudine ha effetti devastanti sulle comunita', e sovente il
maggior peso del disastro cade sulle spalle di giovani donne che hanno
contratto matrimonio senza consenso personale.
Si suppone che una fanciulla ed i suoi genitori debbano sentirsi onorati
quando un uomo chiede la mano di lei ed e' assai comune per gli uomini, se
si trasferiscono dal loro luogo di nascita, "ordinare a casa" le proprie
spose. E' anche usuale che ad uomini divorziati o vedovi vengano offerte
ragazze molto giovani: esse non hanno gran voce in capitolo, specialmente se
sono "vergini" e non sono mai state sposate prima. I loro genitori possono
decidere cio' che vogliono, checche' la figlia pensi. Sebbene le maggiori
religioni sostengano che una donna non puo' essere forzata ad un'unione, la
pratica e' tutt'altra cosa.
Queste sono tre storie che mi sono giunte dalla Tanzania.
*
Safia - A 14 anni, Safia aveva completato il ciclo primario d'istruzione
scolastica (che in Tanzania dura 7 anni: i bambini e le bambine cominciano
la scuola al compimento del settimo anno d'eta'). Safia e' di origine araba,
e la cultura della sua famiglia non incoraggia le ragazze a studiare dopo la
puberta'.
Poiche' andava molto bene a scuola, ella avrebbe desiderato proseguire, ma i
suoi genitori decisero di sposarla ad un uomo che consideravano devoto e
benestante. Costui era di mezz'eta' e aveva un'attivita' in proprio, cosi' i
genitori di Safia si sentirono sicuri che egli, una persona seria e posata,
avrebbe provveduto adeguatamente alla loro figlia.
Safia resto' incinta subito dopo il matrimonio, ma la gravidanza non fu
facile, accompagnata da frequenti malesseri. Ricoverata in ospedale,
risulto' positiva al test hiv. Com'era possibile che avesse contratto
l'infezione, se non aveva avuto rapporti sessuali prima del matrimonio e
nessuna trasfusione di sangue od operazione chirurgica? Tutti attorno a lei
erano stati molto attenti nel consegnarla "intatta" allo sposo, ma nessuno
si era preoccupato della sua salute.
La vita di Safia e' rovinata, oltre che dalla malattia, dalla decisione del
marito: costui, appreso che era sieropositiva, ha preteso il divorzio. I
genitori di lei si dicono dispiaciuti.
*
Salma - Ha 24 anni, ed e' una delle poche donne che parlano apertamente del
proprio vivere con l'hiv. Si e' unita ad un gruppo di persone sieropositive
come lei, e lotta contro la malattia con tutti i mezzi a sua disposizione.
Come Safia, Salma e' stata costretta a sposarsi a 14 anni dopo aver
terminato la scuola. Sua madre era di eta' avanzata, e avendo quest'unica
figlia era preoccupata di morire lasciandola senza sostegno alcuno. Salma e'
molto bella, e le offerte fioccarono. La madre scelse un uomo d'affari, da
poco vedovo. Nessuno sapeva, ne' lui lo disse, che la sua prima moglie era
morta di aids.
La prima gravidanza di Salma fu normale, ma il bimbo spiro' prima di aver
compiuto i tre mesi: senza alcuna ragione apparente, la creatura deperi' e
si indeboli' sino a morire. Lo stesso scenario si ripete' con la seconda
gravidanza. Nel frattempo, la salute del marito era peggiorata al punto che
egli non poteva lasciare il letto. Solo allora egli ammise con la moglie di
aver saputo benissimo di essere infetto dal virus e le chiese perdono per
averla contagiata. Salma rimase vedova prima di aver compiuto vent'anni;
inoltre, i suoi parenti acquisiti si appropriarono alla morte del marito di
tutti i beni di lei.
E' stata lasciata sola, malata e senza un soldo. Dice che si sta ancora
chiedendo perche' ha dovuto essere punita per cio' che non ha fatto, perche'
non ha ricevuto alcun risarcimento per essere stata ingannata.
*
Sabra - E' una giovane professionista, proveniente da una famiglia borghese,
i cui genitori erano diventati molto ansiosi ed assillanti rispetto al suo
matrimonio. Sabra non era piu' un'adolescente, ed essi temevano che sarebbe
rimasta "zitella". Alla fine, un suo coetaneo divenne amico del padre di
lei, e chiese la sua mano. Sabra cedette alle pressioni, ma avendo passato i
vent'anni, ed essendo quindi un po' piu' avvertita di una quattordicenne,
pose un'unica condizione: che sia lei sia lo sposo si sottoponessero al test
hiv. I suoi genitori non ne vollero sapere: che cosa avrebbe pensato la
famiglia di lui? Non si rendeva conto, Sabra, che una richiesta del genere
avrebbe svergognato quell'uomo? Che cosa avrebbe detto la gente, se una cosa
simile si fosse risaputa? Ogni volta che Sabra sollevava la questione, i
suoi genitori la rimproveravano e chiudevano la discussione urlando: "Ma non
capisci? Cosa penserebbe di noi la gente?".
E cosi' Sabra si sposo' senza che alcun test venisse fatto: meno di un anno
dopo, era vedova. A questo punto scopri' che l'uomo, prima di chiedere la
sua mano, si era appena rimesso da una lunga malattia: i sintomi erano
chiari, ma nessuno dei suoi parenti gli suggeri' di sottoporsi al test hiv.
Alcuni preferirono sostenere che era stato "affatturato" da colleghi di
lavoro gelosi del suo successo, ma anche quelli che sospettavano la verita'
non ritennero di dover mettere sull'avviso la fidanzata o i di lei genitori.
Oggi Sabra vive nella paura, non sapendo se e' stata contagiata o no. Non ha
ancora trovato il coraggio di fare il test. Sa anche che molto difficilmente
avra' una propria famiglia: nessuno sposa una vedova il cui precedente
marito e' morto di aids. "Sono cresciuta sognando il mio futuro, dice, ed
ora capisco che non avro' un futuro".

4. EDITORIALE. GIOVANNI MANDORINO: A PENSAR MALE...
[Ringraziamo Giovanni Mandorino (per contatti: gmandorino@interfree.it) per
questo intervento. Giovanni Mandorino e' una delle piu' rigorose e attive
persone impegnate per la nonviolenza, partecipa all'esperienza del Centro
Gandhi di Pisa e cura il sito della rivista "Quaderni satyagraha"
(pdpace.interfree.it)]
Alcune cose a cui forse do' troppa importanza, ma che credo importante non
lasciarsi sfuggire a proposito del blackout del 28 settembre 2003.
1) il presidente del gestore nazionale della rete di trasmissione (A.
Bollino, nominato due mesi fa a seguito di un distacco programmato senza
preavviso che interesso' per non piu' di due ore parte del territorio
nazionale) sotto ferragosto, in occasione del blackout nella regione del
nord-est degli Stati Uniti affermava, grosso modo letteralmente, che un
episodio di quelle dimensioni non sarebbe mai potuto accadere in Italia
grazie ai sistemi di controllo automatico della rete elettrica che avrebbero
limitato l'impatto di un eventuale distacco accidentale.
2) alle ore 9 del 28 settembre 2003 il giornale radio di Radio3 diffondeva
un'intervista al ministro Marzano che addossava tutta la responsabilita` del
blackout ad un incidente avvenuto in territorio francese che avrebbe portato
al distacco "improvviso" e "contemporaneo" di due collegamenti tra la rete
francese e la rete italiana.
Si tratta, secondo le informazioni della radio, di collegamenti "in
ridondanza" ossia tali che uno dei due entra in funzione in caso di guasto
dell'altro. I guasti sarebbero stati cosi' improvvisi e contemporanei da non
permettere a nessuno dei sistemi di salvaguardia automatici (di cui al punto
1) di entrare in funzione.
Una sola cosa il ministro si premura di dire con chiarezza, non quanto ci
vorra` a ripristinare l'erogazione di corrente elettrica ma che la scelta di
abbandono del nucleare fatta con il referendum e` stata catastrofica e che
bisogna immediatamente costruire nuove centrali.
Un espero dell'Enea, intervistato sempre dallo stesso giornale radio esprime
meraviglia per le conseguenze del distacco.
3) sempre verso la stessa ora (o poco dopo) il gestore della rete francese
comunica che c'e' stato si', alle 3,35 del mattino, un distacco tra rete
francese ed italiana ma che e' durato pochi minuti. Si diffonde la voce di
eventuali responsabilita` della Svizzera.
4) qualche ora dopo (intorno alle 10,30)  Radio Capital manda in onda
un'intervista al responsabile della rete di distribuzione del Canton Ticino
(Paolo Rossi) che, dicendo di non avere una visione completa di quanto
accaduto in quanto non al controllo dei grandi collegamenti internazionali,
afferma che, dal suo osservatorio, ha avuto l'impressione che i distacchi
della rete italiana da quella europea siano iniziati intorno alle 3 con un
distacco di una condotta proveniente dall'Austria e siano solo culminati
alle 3,35 quando sono stati distaccati i collegamenti con la Francia.
5) tra tanti esperti qualcuno (ma qui non ricordo davvero chi) osserva che
il blackout ha avuto inizio alle 3,35 della notte tra il sabato e la
domenica, con un clima ne' particolarmente caldo (condizionatori) ne'
particolarmente freddo (riscaldamento) ossia in un momento in cui
l'assorbimento di potenza della rete nazionale era probabilmente molto
prossimo al minimo, a differenza di quanto accaduto a luglio, quando il
blackout si era verificato a fronte di un record di assorbimento nelle ore
centrali di un giorno lavorativo. Ventila l'ipotesi che quanto accaduto
potesse essere conseguenza del fatto che in quel momento le centrali
italiane fossero, in buona parte (diciamo quasi del tutto?), spente.
6) dalle cronache della giornata, mentre sempre nuove voci,
dall'amministratiore delegato dell'Enel al presidente di Confindustria a
vari uomini politici, si scagliano contro la iattura dell'abbandono del
nucleare e il Presidente della Repubblica se la prende con gli
amministratori locali che si oppongono alla costruzione di nuove centrali,
veniamo a sapere che in alcune zone del Piemonte e del nord la tensione era
gia` presente alle 7 del mattino.
Mentre al sud, ancora alle 19, in varie zone mancava l'elettricita`. Per la
cronaca a Galatina (mio luogo di origine) l'elettricita' e' tornata alle
17,30. Ma come?! La Puglia e` collegata alla Grecia da un elettrodotto a
vari KVolt che sfiora Galatina, a meno di cento km c'e` la megacentrale
termoelettrica di Cerano (fonte significativa di inquinamento della costa
adriatica costruita nonostante un forte movimento popolare di contrasto) e
ci vogliono 14 ore per ripristinare la distribuzione elettrica?
Una telefonata a casa mi chiarisce la cosa: secondo quanto dichiarato da un
responsabile locale, la centrale non poteva essere accesa perche'
necessitava essa stessa di corrente elettrica per mettere in funzione i
dispositivi di comando e controllo.
Un'intervista ad un responsabile nazionale Enel chiarisce definitivamente
perche' al centro-sud la distribuzione dell'elettricita' sia ripresa con
tanto ritardo: al nord, le centrali idroelettriche hanno potuto essere
avviate molto velocemente ed hanno fornito l'energia necessaria al
funzionamento di quelle termoelettriche, al sud non ci sono centrali
idroelettriche.
7) in tutto questo, non una parola a proposito dei "tetti fotovoltaici" o
dei piccoli generatori "casalinghi" disponibili in alcuni prototipi (e forse
modelli gia' in commercio da qualche parte) di caldaie a metano per il
riscaldamento.
8) tutto quanto sopra si e` verificato nell'arco di (circa) 17 ore dalle
3,30 del mattino di una domenica alle 20 della sera della stessa domenica:
il periodo in cui i grandi consumatori di industria e servizi (a differenza
dei privati) fanno minore utilizzo dell'energia trasportata dalla rete
nazionale. Le fonderie ed altri impianti a ciclo continuo dispongono spesso
di propri generatori che la domenica producono energia in esubero rispetto a
quella necessaria al funzionamento degli impianti: ad esempio Siracusa,
"grazie" alla centrale di autoproduzione della raffineria Erg ha avuto,
unica citta` - per quanto e` dato sapere - in Sicilia, l'elettricita' per
buona parte della mattinata.
Attenti: a pensar male si fa peccato...

5. APPELLI. LUISA MORGANTINI: UNA PETIZIONE PER LA LIBERAZIONE DEI RAGAZZI
PALESTINESI DETENUTI
[Da Luisa Morgantini (per contatti: lmorgantini@europarl.eu.int) riceviamo e
diffondiamo questo appello a firmare una petizione per il rilascio dei
ragazzi palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Luisa Morgantini e'
presidente della delegazione del Parlamento europeo presso il Consiglio
legislativo palestinese, fa parte delle Donne in nero e dell'Associazione
per la pace; un suo profilo, ripreso dal sito www.luisamorgantini.net, e'
nel n. 686 di questo foglio]
Vi prego di firmare e far firmare la petizione per la liberazione dei
ragazzi palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Troverete le loro
storie nel sito www.dci-pal.org/prisonweb/adoptpris.html; la petizione si
firma alla pagina web www.PetitionOnline.com/dcips/petition.html
In preparation for the international day of action, scheduled to coincide
with the 20 November anniversary of the signing of the UN Convention on the
Rights of the Child, DCI/PS has prepared a petition calling for the release
of all Palestinian child political prisoners.
In the coming 2 months, the Campaign seeks to accumulate 200,000 signatures
to the Petition, one signature for each of the estimated 200,000 Palestinian
children arrested since the beginning of the Israeli occupation in 1967.
Please circulate the Petition as widely as possible. The Petition is
available for signing at: http://www.PetitionOnline.com/dcips/petition.html

6. APPELLI. SARI NUSSEIBEH: IL MURO HA BISOGNO DI TAGLIARE IN DUE ANCHE IL
NOSTRO CAMPUS?
[Ringraziamo Luisa Morgantini (per contatti: lmorgantini@europarl.eu.int)
per averci trasmesso questo appello di Sari Nusseibeh. Sullo stesso
argomento si veda anche l'intervento di Luisa riportato nel n. 686 del
nostro notiziario. Sari Nusseibeh, presidente dell'Universita' di Al Quds e'
"una voce ragionevole e moderata all'interno  del conflitto in corso", che
ha sempre lavorato per una giusta pace tra il popolo israeliano e quello
palestinese. Come e' noto, contro la costruzione del "muro dell'apartheid"
e' in corso una campagna di opinione internazionale]
L'universita' di  Al Quds, il cui campus principale di Abu Dis sta a cavallo
della immaginaria linea divisoria municipale che divide Gerusalemme dalla
Cisgiordania, e' prossima a essere inclusa nell'inarrestabile campagna del
governo israeliano per la costruzione di un muro di separazione.
Alcuni dei pesanti macchinari in possesso dell'esercito di israele ora si
trovano nelle principali aree sottratte all'universita', al centro del campo
di calcio. Questa confisca ha distrutto quasi un terzo dei terreni del
campus, con una foresta di pini considerata una rilevante riserva, oltre che
aree in cui l'universita' aveva speranze di poter sviluppare strutture
sportive e botaniche.
L'universita', che ospita quasi seimila studenti, e' stata negli ultimi anni
un avamposto nella campagna per incoraggiare la cooperazione universitaria
israelo-palestinese.
Il campus universitario, per la stragrande maggioranza del tempo negli
ultimi tre anni di scontri violenti e sanguinosi e' rimasto in un clima
tranquillo, con gli studenti preoccupati solo di avere il permesso per
raggiungere il campo e portare a termine le loro ricerche e i loro studi.
La devastazione delle aree del campo e e l'erezione di un alto muro di
cemento al suo centro, che blocca l'accesso naturale attraverso la valle,
non puo' che essere intesa come una dichiarazione di inimicizia e
aggressione, oltre che, naturalmente, un fallimento sul piano umano e
politico.
Questa dichiarazione negativa, scritta in blocchi di cemento di fronte agli
studenti, si pone in netta opposizione ai valori positivi di formazione che
cerchiamo di promuovere all'universita', come la necessita' di rompere le
barriere di inimicizia e costruire ponti di comprensione per rafforzare la
prospettiva di pace.
Qui all'universita' abbiamo compreso con tristezza che il muro e' un
progetto in atto dalle conseguenze irreversibili, un simbolo del fallimento
di politicanti e tecnici autoreferenziali. Ciononostante crediamo sia
possibile, e necessario, specialmente in questo campus, ridurre i suoi
effetti psicologici negativi sulla nostra popolazione studentesca. Il muro
potrebbe essere facilmente costruito piu' giu' lungo la valle, o potrebbe
essere lo stesso muro a ovest del campus, che e' stato ostacolato dalla
municipalita' molto prima della sua costruzione.
Il presunto imperativo di sicurezza non sarebbe intaccato da tali
aggustamenti. Ma i danni politici e psicologici sarebbero ampiamente
ridotti.
Aiutateci a instillare un po' di sensibilita' umana e politica nei piani del
Dipartimento della difesa. Parlate in nostro favore appellandovi al
Ministero attraverso i recapiti che vi forniamo qui di seguito. La vostra
voce puo' rendere tutto diverso. Ma  anche il vostro silenzio.
Per esprimere al ministero della difesa di Israele la propria adesione a
questo appello inviare messaggi a: Minister of Defense, telephone:
972(0)3-697-6663, fax: 972(0)3-697-6218, e-mail: sar@mod.gov.il

7. RIFLESSIONE. DAVID BIDUSSA: I "NUOVI MARTIRI"
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 25 settembre 2003. David Bidussa,
studioso e saggista di grande finezza e rigore, e' direttore della
biblioteca della Fondazione Feltrinelli di Milano. Opere di David Bidussa:
Ebrei moderni, Bollati Boringhieri, Torino 1989; Oltre il ghetto,
Morcelliana, Brescia 1992; Il sionismo politico, Unicopli, Milano 1993; Il
mito del bravo italiano, Il Saggiatore, Milano 1994; La France de Vichy,
Feltrinelli, Milano 1996; Identita' e storia degli ebrei, Franco Angeli,
Milano 2000]
La figura dell'uomo-bomba ha definito uno scenario della vicenda
israelo-palestinese.
Tuttavia, la questione dell'uso del proprio corpo come arma non nasce in
quel conflitto ne' e' il risultato di un atto di disperazione. O - almeno -
non e' solo l'effetto di un meccanismo di disperazione. Nella decisione di
usare il proprio corpo come arma - e all'interno del contesto
israelo-palestinese - dovremmo leggere piu' aspetti di un conflitto che per
brevita' possiamo anche ridurre a quello tra "oriente" e "occidente", coppia
oppositiva che non dice granche'. E che, anzi, copre - con una distinzione
molto sbrigativa e "veloce" - la fisionomia di una realta' molto piu'
complicata. Vale tuttavia la pena di prenderla in considerazione.
*
La svolta che porta a considerare la totalita' del mondo arabo come
"antioccidente", ha uno dei sui passaggi cruciali nella congiuntura
algerina. Quando il Fronte islamico di salvezza nazionale (Fis) vinse le
elezioni si consumo' una rottura culturale e politica di enorme portata. La
vittoria invalidata per la proclamazione dello stato di emergenza da parte
degli esponenti del Partito della Rivoluzione al potere dal 1962. Agli occhi
del Fis fu quella la riprova che l'Occidente e le sue regole - anche quelle
elettorali - fossero intrisi di falsita'.
Nel mondo islamico l'ultima possibilita' di congiungersi con l'Occidente si
consumo' li' o - almeno - li' si formo' una immagine dell'Occidente come
"figura doppia" (Ayman Zawahri, Knights Under the Prophet's Banner,
www.fas.oreg/irp/world/para/ayman_bk.html), un Occidente traditore ma anche
infido e bugiardo. Lo scontro di civilta' nasce su quest'ultima
disillusione.
*
Quanto alla scelta del "martirio", essa non e' generata dalla disperazione,
dalla miseria o dalla poverta', ne' e' la riscossa dell'Oriente contro
l'Occidente o la rivincita della tradizione contro la modernita' da parte di
un mondo che vuole mantenere inalterata la propria fisionomia e teme
costantemente per la propria dissoluzione.
A titolo diverso Malise Rythven (Il seme del terrore. L'attentato islamista
all'America, Einaudi) e Farhad Khosrokhavar (I nuovi martiri di Allah, Bruno
Mondadori) forniscono qualche traccia per tentare di sciogliere questo nodo
e individuare alcune risposte non scontate.
Entrambi i libri - piu' attento alle dinamiche della sociologia politica il
primo, piu' rivolto alla lettura delle dinamiche sociali interne il
secondo - permettono di approssimarci a una prima conclusione: esistono due
tipi di "martiri". Da una parte, quei giovani diseredati ed esclusi dai
benefici della modernita' che versano in una condizione di alienazione.
Dall'altra, una minoranza di immigrati che vivono nel cuore stesso
dell'Occidente. Questi ultimi appartengono alle nuove classi medie sospese
tra Oriente e Occidente. Tra di loro figurano, per esempio, i piloti suicidi
del World Trade Center. "Convertiti occidentali" come li ha definiti Magdi
Allam sul "Corriere della sera" del 10 settembre scorso. Ma anche
"neomartiri", fondatori di una comunita' di musulmani che si oppone a una
comunita' di miscredenti.
Tuttavia la sfida culturale, emotiva e anche relazionale che sottosta'
all'evento dell'uomo-bomba contemporaneo va colta anche per quanto concerne
gli effetti che determina sulle forme della morte, sul darsi morte come
liberta', sull'uso del corpo come strumento politico.
Tutte questi aspetti sono connessi indubbiamente con la crisi della politica
come forma della comunicazione verbale e del confronto che conduce alla
persuasione mentre riaccreditano la politica come sfera della convinzione.
Ovvero come atto in cui la forza di impatto del gesto annichilisce la
politica come terreno comunicativo. Va detto, tuttavia, che e' proprio sul
terreno comunicativo che quel gesto si consuma, accettandone e rilanciandone
la sfida: l'uomo-bomba e' atto di autoriferimento che asserisce cio' che
deve dimostrare.
*
Da questo punto di vista, la morte dell'uomo-bomba sta segnando un segmento
rilevante dell'immaginario collettivo, quello relativo alla morte come atto
politico o, piu' generalmente, come atto estetico. La morte in questo caso,
non riguarda l'atto del morire, ma la sua comunicazione, i preliminari che
l'accompagnano, il testamento politico che la connota.
Ci sono molti livelli comunicativi che sottostanno alla morte comunicata e
poi attuata ma noi - vivi e lontani spettatori - solo a evento avvenuto
potremo vedere a ritroso tutti i preliminari di un rituale che ha il suo
momento culminante nell'esplosione dell'uomo e che consegna la "morte
attuata" alla sola comunicazione filmica. Dopo l'annuncio della propria
decisione, la vita biologica dell'uomo-bomba - che di fronte a una
telecamera racconta la sua scelta - e' solo l'allegato di un marchingegno a
tempo.
All'interno di questo quadro, puo' essere interessante isolare alcuni
aspetti. Innanzitutto la dimensione della morte volontaria come atto di
liberta' e dunque come affermazione dell'Io. Il suicidio - secondo la nota
distinzione proposta da Durkheim - puo' essere egoista, altruista o anomico.
La raffigurazione con cui si presenta a noi l'atto dell'uomo-bomba sembra
poter essere classificata come "altruistica" (ci si immola per qualcosa, al
servizio di un ideale, nella convinzione che quell'atto "servira'"). Ma e'
poi solo cosi'?
In secondo luogo, la scelta dell'atto della morte come messa in scacco dei
principi dell'avversario. Quegli stessi principi su cui l'avversario si
presenta come vincente. Sotto questo punto di vista, la scelta del
"combattente della morte" presenta aspetti su cui vale la pena di riflettere
e, comunque, segna un tempo politico che va ben oltre il conflitto
israelo-palestinese.
*
Come nasce la dinamica del "martirio"? Soprattutto quando nasce?
Secondo Joyce M. David (Martyrs. Innocence, vengeance and despair in the
Middlle East, Palgrave Macmillan, New York 2002) l'atto del martirio ha vari
precedenti. Se ne possono individuare alcuni tra gli anni '80 e gli anni
'90: il camion bomba che si schianta contro l'ambasciata americana a Beirut
il 18 aprile 1983 (63 morti) oppure l'attentato - sempre a Beirut, il 23
ottobre dello stesso anno - all'aeroporto internazionale. Se poi si
considerano ancora gli Stati Uniti come obiettivo simbolico, si possono
sempre citare gli attentati del 3 ottobre 1999 alle ambasciate Usa di Dar es
Salaam (Tanzania) e di Nairobi (Kenya): rispettivamente 11 morti e 213
morti.
Il caso che tuttavia pone e propone il paradigma dell'uomo-bomba e' quello
di Loula Abboud, palestinese, donna, cristiana, di 19 anni.
E' il 20 aprile 1985. Loula si fa catturare durante un'azione di guerriglia
dai soldati israeliani nella fascia del Bano meridionale, aspetta che questi
siano tanto vicini da renderle impossibile la salvezza e poi si fa saltare
in aria.
La tecnica dell'uomo-bomba apre a un rapporto costi-benefici non basato
sull'individualita' ma sulla comunita'. Nella scelta di Loula si collocano
queste coordinate che entreranno successivamente come un'icona del
"martire": evacuazione dal proprio territorio (nel suo caso: dal sud del
Libano); ricollocamento con il gruppo familiare in altro luogo (a Beirut);
recupero delle tradizioni locali e dunque "conversione" verso una
riappropriazione ideologizzata e spesso astorica della propria identita'
originaria; ritorno sul territorio di origine per combattere.
Insomma, non bisogna essere islamici o fedeli in Allah per scegliere il
martirio, non e' il dato teologico in se' a definire questa scelta o a
fondarla. Inoltre, nel caso di Loula, il suicidio non e' atto di protesta
(come per i bonzi in Vietnam o come fu per Jan Palach all'indomani
dell'invasione sovietica di Praga) ne' e' "non difesa" del proprio corpo
(come predicava la pratica gandhiana della nonviolenza). Piuttosto e' un
atto di accusa che ha come oggetto il rapporto tra la difesa del diritto
alla vita e l'affermazione dei diritti politici e civili. In qualche modo il
gesto dimostra l'impotenza dell'impianto del diritto occidentale e del suo
presentarsi come garanzia. In questa sfera, si colloca anche il "sacrificio"
del sindacalista coreano a Cancun.
*
Diverso e' l'uso del proprio corpo come arma di guerra etnica. In questo
ambito rientra l'idea di una identita' nazionale che non e' piu' basata sul
recupero della lingua e della cultura bensi' sulla comunita' di appartenenza
in chiave neo-etnica.
L'identita' dunque non come luogo astorico a cui tornare per ritrovare se
stessi, ma come insieme di pratiche, di forme, di oggetti, di simboli che un
gruppo umano mantiene, crea, modifica, acquisisce e scambia per testimoniare
di se'. L'identita' come luogo della trasformazione e non della
conservazione.
Nel caso del mondo arabo questa differenza e' cio' che distanzia la
filosofia politica di Gamal Abdel Nasser quando ipotizza l'unita' del mondo
arabo, dalla costruzione della umma in quanto comunita' mondiale musulmana
come sostiene, per esempio, Sayid Qutb.
Ed e' questo lo scontro che intravede Akbar S. Ahmed, ex ambasciatore
pakistano nel Regno Unito (Abkar S. Ahmed, Islam's crossroads: Islamic
Leadership, in www.islamfortoday.com/akbar02.htm): uno scontro tra istanza
borghese cosmopolitica e occidentalizzata e fasce del radicalismo religioso;
uno scontro non solo sociale ma soprattutto culturale in quanto chiama in
causa il modello teologico di riferimento.
L'ala radicale, infatti, si connota attraverso due pratiche comportamentali:
da un lato, una pratica associativa fortemente omofila e maschile, connotata
da una dose rilevante di misoginia e calata in una "dimensione combattente"
propria delle comunita' maschili; dall'altro, una pratica-percorso di tipo
etnocentrico e intollerante anche rispetto alle dissidenze interne. In
questo secondo caso, la costruzione della comunita' combattente acquista
anche un significato di lotta interna per l'egemonia. E, da questo punto di
vista, la scelta del "martirio" e' anche scelta di affermazione e di
prestigio: l'attacco frontale e la morte del nemico come strumento di
controllo interno.
Questa immagine va peraltro connessa a quella del "martire" come guerriero
privo di emozione, controllato, votato alla causa, autoelettosi a elite
etico-politica. Il "martire" come uomo-macchina richiamerebbe, in breve,
l'idea non di un disperato, ma di un neocavaliere il cui gesto catalizza
l'egemonia sulla comunita' di appartenenza e cosi' la fonda. Quanto piu'
controllo si da' nell'atto di martirio, tanto piu' si azzera la possibilita'
dello scontro politico interno.
La storia di Mohamad Atta e' da questo punto di vista esemplare. Mohammad
Atta, 33 anni, leader del gruppo dei piloti suicidi che mettono in
esecuzione il piano dell'11 settembre stende un primo documento volto alla
propria autoeducazione al martirio almeno cinque anni prima dell'11
settembre 2001. Una dichiarazione che egli consegna in un manuale per
l'azione terroristica che ha i canoni della fisionomia del guerriero
(http://abclocal.go.com/ktrk/news/100401_news_will.html). Nello stesso testo
sono descritte tutte le pratiche con cui si sarebbe dovuta accompagnare
l'inumazione del suo corpo.
*
Cio' detto, tuttavia, rimangono ancora alcune questioni generali. Dentro la
morte eroica, si definisce una dimensione nominale e di dominazione del
territorio. La prima guerra mondiale definisce questo tipo di morire e le
Resistenze lo incrementano. La figura dell'eroe al di la' del meccanismo
della solitudine o della eccezionalita', definisce il luogo patrio perche'
la morte dell'eroe lo "nazionalizza" (laddove io muoio, la' e' la patria).
Proviamo allora a considerare per contrasto la retorica del partigiano e
della scrittura del condannato a morte resistenziale.
Nei testi del condannato a morte delle Resistenze c'e' il rimpianto per la
propria morte ventura, il saluto agli amici, il bilancio della propria vita.
Anche nella scelta resistenziale c'era la messa in conto della morte, come
ha sottolineato di recente Claudio Pavone ma essa era una possibilita'
iscritta nelle dure leggi del confronto impari. I partigiani, a differenza
delle forze di Salo', non avevano luoghi dove tornare la sera a dormire,
dove rifocillarsi. I partigiani dovevano arrangiarsi per dormire e per
mangiare e sapevano che - se catturati - sarebbero stati fucilati.
Ora nella scelta dell'uomo-bomba non si mette in conto questa quotidianita',
ma solo la possibilita' di condurre in porto la propria missione senza
ritorno.
*
In questa scelta c'e' molta disperazione, indubbiamente; forse c'e' anche un
vissuto che si fonda sull'abolizione di una qualsiasi idea di futuro (anche
se l'idea del martirio redentivo testimonia di una visione fondata, anche se
solo mitogenicamente, sul futuro in forza di una negazione del presente). Ma
quest'immagine e questo costrutto politico e identificativo non dice ancora
molte cose. Per di piu' rischia di comunicare solo la dimensione eroizzata
del gesto autodistruttivo. E' proprio vero che uccidersi trascinando con se'
molti nemici e' un gesto eroico? Ci sono regole che lo definiscono in quanto
tale oppure no?
Si possono considerare i gesti dell'uso politico del corpo, anzi meglio la
trasformazione del corpo in arma politica come la dimensione piu'
occidentalizzata e desacralizzata della convinzione teologica e della
pratica di fede. C'e' un uso del corpo come segno della passione e della
fede (e' il caso del digiuno), oppure l'afflizione del proprio corpo come
comunicazione della rinuncia, della sfida al benessere o agli standard. Ma
la distruzione del corpo proprio come strumento non di afflizione o di
redenzione, ma come arma letale, include l'abbandono di questo terreno.
Trasformare il proprio corpo in una bomba implica considerare irreformabili
le proprie vittime e ridurle a un puro atto simbolico. Non il corpo degli
altri e' il luogo della politica, ma il proprio corpo produce politica.
Molte cose stanno in quel gesto. Sicuramente, al fondo, un'istanza
nichilista. Ma e' tutto da dimostrare che si dia legame diretto e
consequenziale tra nichilismo e disperazione sociale. Al centro della
dimensione nichilista legata al martirio presiede l'istanza di onnipotenza,
di dominio del corpo degli altri, e di totale amministrazione del proprio.
In breve al di la' della retorica, il "martirio" non e' un gesto fondato sul
tremore di Dio. Ma sulla convinzione di essere Dio. L'uomo-bomba e' la
dichiarazione di qualcuno che si candida a superuomo. Di qualcuno che
interpreta quel gesto come obliterazione di ingresso nella sfera del potere
e delle figure che lo rappresentano. Non ci parla di un mondo di riscatto,
ma solo di una redenzione fondata su una gerarchia di cui noi spettatori
siamo dei miseri Venerdi' chiamati ad ammirare i nuovi guerrieri. Qualcosa
che appartiene alla famiglia della terza notte di Valpurga piu' che narrarci
l'incerta e disperata lotta di emancipazione dei dannati della terra.

8. INCONTRI. A VERONA LA CASA PER LA NONVIOLENZA COMPIE QUINDICI ANNI
[Dagli amici del Movimento Nonviolento (per contatti:
azionenonviolenta@sis.it) riceviamo e diffondiamo]
Sabato 4 ottobre, San Francesco, il Movimento Nonviolento organizza a Verona
una festa per i 15 anni di apertura della Casa per la nonviolenza.
Davanti alla sede di via Spagna 8 (vicino alla Basilica di San Zeno), dalle
ore 16 in poi, ci saranno tavoli e panche con cibo, vino, torte, musica,
giochi per bambini e interventi di amici della nonviolenza.
La festa e' organizzata con l'aiuto degli abitanti del quartiere Orti di
Spagna.
La Casa per la nonviolenza (sede nazionale del Movimento Nonviolento e della
redazione di "Azione nonviolenta") e' stata inaugurata nell'ottobre del
1988. Da allora la Casa e' cresciuta grazie al contributo di tanti
sostenitori e al lavoro di volontari e obiettori di coscienza. La
biblioteca, l'emeroteca, l'archivio ed il centro di documentazione si sono
arricchiti di molto materiale, catalogato e consultabile.
*
Il programma della giornata prevede:
- ore 16: apertura della festa con Mao Valpiana, (direttore di "Azione
nonviolenta"), giochi per tutti, commercio equo, libri, pesca, fiori, ecc.;
- ore 17: rinfresco con torte dolci e salate, tartine,  vino, bevande;
- ore 18: aperitivo in musica, concerto diretto dal maestro di violino
Cweslaw Garyga;
- ore 19: riflessioni e pensieri sulla nonviolenza in Francesco d'Assisi,
con Paola Forasacco (Associazione studi di antroposofia); e in Aldo
Capitini, con Daniele Lugli, (segretario del Movimento Nonviolento);
- ore 20: cena libera (eventuale prenotazione);
- ore 21: suoniamo, cantiamo e balliamo con Paolo Predieri;
- ore 22: buonanotte!
*
Motivi per fare festa ce ne sono tanti; tutti gli amici sono invitati (in
caso di pioggia la festa si fara' all'interno della Casa).
Per ulteriori informazioni: Movimento Nonviolento, via Spagna 8, 37123
Verona, tel. 0458009803, fax 0458009212, e-mail: azionenonviolenta@sis.it,
sito: www.nonviolenti.org

9. RILETTURE. NICOLE CHEVILLARD, SEBASTIEN LECONTE (A CURA DI): LAVORO DELLE
DONNE. POTERE DEGLI UOMINI
Nicole Chevillard, Sebastien Leconte (a cura di), Lavoro delle donne. Potere
degli uomini. Alle origini dell'oppressione femminile, Erre Emme, Pomezia
(Roma) 1996, pp. 256, lire 17.000. Una riflessione collettiva sulle origini
dell'oppressione delle donne con saggi di Nicole Chevillard, Sebastien
Leconte, Stephanie Coontz, Peta Henderson, Monique Saliou, Lila Leibowitz.

10. RILETTURE. MARIELLA LORIGA: L'IDENTITA' E LA DIFFERENZA
Mariella Loriga, L'identita' e la differenza. Conversazioni a Radiotre su
donne e psicoanalisi, Bompiani, Milano 1980, pp. 162. Trascrizione di un
ciclo di conversazioni e interviste radiofoniche del 1979 sul tema "Donne e
psicoanalisi"; con l'autrice partecipano Licia Conte, Chiara Dal Canto,
Fulvia Selingheri Pes, Bianca Napolitani, Teresa Corsi Piacentini, Mara
Selvini Palazzoli, Pier Maria Furlan, Annamaria Fabbrichesi, Lella Ravasi
Bellocchio, Sisa Arrighi, Chiara Saraceno, Marina Spreafico, Cecilia
Morosini, ed altre donne ancora.

11. RILETTURE. MASSIMO TEODORI: STORIA DELLE NUOVE SINISTRE IN EUROPA
(1956-1976)
Massimo Teodori, Storia delle nuove sinistre in Europa (1956-1976), Il
Mulino, Bologna 1976, pp. 696. Un libro che meriterebbe una ristampa.

12. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

13. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta@sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben@libero.it;
angelaebeppe@libero.it; mir@peacelink.it, sudest@iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info@peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it

Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac@tin.it

Numero 689 del 30 settembre 2003