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Report 51 da Baghdad
Ecco il report 51 con due corrispondenze che mi arrivano dal mio contatto
giordano:
is http://italy.indymedia.org/news/2003/04/248878.php
Testo:
La jeep Hammer sporca di polvere e fango con le insegne “UsArmy”
avanza lentamente proprio dietro l’Università. Dietro di lei un convoglio
di almeno 15 altri mezzi militari “leggeri”. Su ciascuna è montata una
mitragliatrice pesante, quelle con il nastro dei proiettili grandi come un
dito che esce dai due lati del caricatore. Tre uomini, tre soldati
americani con elmetto con un copri-elmo mimetico, una giubba di cotone
pesante beige dalla quale escono piccoli fili e cavi arrotolati che
rimandano agli auricolari ed ai sistemi di comunicazione. Il soldato che ha
per le mani l’impugnatura della mitragliatrice sembra immobile, concentrato
sul mirino elettronico dell’arma.
La colonna avanza in un silenzio irreale di tanto in tanto interrotto dai
tonfi cupi e secchi che provengono dalle granate lanciate poche strade più
in là dai carri armati dell’esercito invasore.
Improvvisamente e senza nessun motivo la mitragliatrice gira la canna
verso un’abitazione chiusa al primo piano di un piccolo edificio bianco e
parte una raffica di colpi. Decine, centinaia di proiettili che vanno a
sfondare le deboli protezioni in legno e lamiera di ferro delle finestre,
facendo rimbalzare dappertutto schegge di intonaco e di legno. Frantumando
i vasi di terracotta pieni di fiori che ancora ornavano in modo ordinato il
piccolo balcone. La ringhiera di ferro che proteggeva la porta della casa
piomba a terra e viene calpestata dalle ruote dei grandi fuoristrada che
continuano la loro avanzata.
Sdraiato a terra dietro le finestre chiuse ed oscurate con carta di
giornale, a soli cinquanta metri dalla pattuglia degli occupanti un
reporter indipendente è testimone diretto dell’azione che mi descrive con
grande emozione.
Attualmente si trova in un frequentato albergo della capitale, decisamente
più al sicuro, ma quello di cui è stato testimone oggi difficilmente lo
potrà dimenticare.
Fin dal mattino i colpi, le bombe, i missili hanno colpito le aree sud,
nord ed ovest di Baghdad. Dalle 11.00 tutti sono stati informati
attrraverso i megafoni dei soldati e della polizia del coprifuoco che
sarebbe scattato alle 18.00 e proseguirà almeno fino all’alba.
Il problema quindi per il mio contatto è spostarsi rapidamente, con
prudenza, fino ad arrivare proprio nella zona dell’Università, la più
martoriata della capitale dove è l’appuntamento con altri due colleghi.
Il centro della città è completamente in mano dell’esercito iracheno e dei
numerosi “feddayn” in borghese ed armati che camminano nervosamente su e
giù per le strade. Il traffico è pari a zero, la circolazione delle auto
ridotta al minimo. Solo un pizzico di fortuna fa incrociare le strade del
reporter con un vecchio autobus diretto verso sud. Lo prende al volo, molto
attento alla strada percorsa dal bus per evitare di trovarsi in zone
sconosciute della città.
All’altezza del Ministero dell’Informazione, si rende conto che
praticamente tutta l’area residenziale attorno alla piazza è stata
bombardata, e sono ancora visibili a terra alcune vittime coperte di
pietre. Come fosse una pietosa sepoltura.
Pochi metri ancora poi decide di scendere dal bus. Meglio cercare di
proseguire a piedi.
Poco oltre il centro televisivo della IraqiTv, un capannello di persone
smbra discutere animatamente. Un giovane alto e magro con una “kefiah”
bianca e rossa arrotolata intorno al collo si esprime in inglese e mette in
guardia il reporter dal proseguire oltre quella piccola aiuola che delimita
un incrocio. Non meno di dieci o dodici automobili sono completamente
carbonizzate. Alzando lo sguardo, l’intera facciata di un palazzo di 6
piani è sventrata in ogni sua parte. Finestre divelte, mobili ed infissi
sparsi ovunque. Il ragazzo iracheno con espressioni sincopate riesce a
descrivere ciò che è accaduto neanche un’ora prima.
Siamo nell’area immediatamente adiacente alla periferia sud di Baghdad.
Oltre questi palazzi nessuno si avventura.
Una colonna di blindati e jeep americane sono arrivate fino alla piazza,
travolgendo le aiuole che la delimitavano e sparando sulle vecchie auto
parcheggiate. Dopo un mezzo giro della rotonda si sono come schierate di
fronte a quell’unico palazzo ed hanno aperto il fuoco. Con durezza, mirando
a tutto ed a niente, sventrando muri e penetrando negli appartamenti. Dopo
pochi minuti almeno un gruppo di inquilini si sono precipitati fuori
gridando e piangendo. I soldati sembrava come li aspettassero: inseguiti,
strattonati e gettati a terra. Con dei lacci di plastica bianca venivano
serrati i polsi dietro la schiena. Quindi presi per i capelli le teste
ficcate di forza in cappucci neri. Poi i calci, gli sputi, i manici dei
fucili usati come clave. Trascinati a terra per decine di metri e butatti
dentro degli autoblindo.
Questo trattamento è stato riservato ad almeno cinquanta civili disarmati,
in gran parte donne, vecchi e bambini che abitavano nel palazzo senza più
luce, acqua, medicine. Prigionieri della loro stessa casa da più di sei
giorni. Sei giorni di paura e di angoscia. Terminati questa mattina con un
autentico sequestro di persona multiplo a danni, mi ripete il mio contatto,
di civili disarmati.
Finita l’”operazione militare”, la colonna di mezzi americani ha completato
il giro della piazza ed è scomparsa nelle strade polverose che portano
verso l’aeroporto.
Il ragazzo iracheno capisce il disagio del reporter europeo. Uno straniero
ma non un nemico, e lo invita ad andare poco più in là, fino ad un garage,
quasi nascosto dalle rovine di un bombardamento dei giorni scorsi.
Questa è la guerra? Chiede senza ottenere risposta, Questi sono gli
americani che ci devono liberare? Gli uomini che dovremmo rispettare perché
sono venuti a tutelare i nostri diritti umani?
Tu cosa faresti se fossero i membri della tua famiglia quelli presi a
calci, incappucciati e portati via da soldati stranieri?
Il reporter non sa cosa rispondere, pensa all’appuntamento che deve
rispettare, al coprifuoco che si avvicina, a cosa troverà andando oltre
quei palazzi. Ma il ragazzo iracheno lo incalza: dimmi tu che sei europeo
cosa pensano i cittadini dell’Unione Europea di questa guerra?
Vieni a vedere la mia casa, è proprio qui sopra. I due salgono in fretta le
scale ed arrivano di fronte ad una porta di legno dove Feisal, così si
chiama il rgazzo, con due colpi dei piedi si fa aprire. Il reporter entra e
trova almeno dieci persone, la famiglia di Feisal, a terra, chi sdraiato
chi seduto. Gli fanno cenno di non parlare, di sedersi, di non far rumore.
Il terrore è stampato su quelle facce con la barba lunga, su quei visi
femminili circondati da un velo.
Poi di colpo, di nuovo, il rumore dei mezzi militari. Feisal sbircia dietro
i giornali che coprono i vetri delle finestre. Gli americani, gli americani
quasi grida, e tutti si abbassano a terra. Feisal porta il reporter nella
sola altra stanza della casa e lo invitaa guardare fuori.
La colonna di 15 jeep Hammer. Con le scritte “UsArmy”. Quelli che hanno
fatto fuoco contro quel balconcino del primo piano dove ancora c’erano i
vasi di terracotta peini di fiori.
Questa è la guerra? Chiede ancora Feisal.
Già, questa è la guerra?
Dopo circa mezzora Feisal, venuto a sapere il luogo dell’appuntamento del
reporter con i suoi colleghi si offre di accompagnarlo lui. In auto. Ma non
fino all’hotel, sarebbe troppo pericoloso per Feisal tornare indietro.
Scendono di nuovo in strada e dopo aver parlato fitto fitto in arabo con
altri due ragazzi, Feisal viene raggiunto da una vecchia Renault con altri
ragazzi a bordo. Il reporter entra, zaino sulle ginocchia. Gli occupanti
per fargli posto sono costretti a spostare due mitra e due fucili e si
tirano la “kefiah” sul viso.
Dieci minuti di corsa per strade impensabili, fossi e prati, entrare ed
uscire da magazzini abbandonati, poi l’auto si ferma. Il reporter scende,
fa un cenno di saluto a Feisal ed agli altri. Vedi, gli dice Feisal, noi
siamo “Feddayn”, può darsi che tra un’ora, domani o tra qualche giorno
saremo morti combattendo. Cosa diranno i giornali del tuo paese? Che siamo
dei “kamikaze”, che abbiamo ucciso a sangue freddo dei ragazzi del
Colorado o della California che erano venuti a portarci la libertà, a
difendere i nostri diritti?
Tra quei civili incappucciati e brutalizzati che non sappiamo neppure dove
siano finiti, e perché gli è stata distrutta la casa e loro fatti
progionieri c’erano i genitori si Saul. Ed indica il ragazzo con i capelli
neri lunghi alla guida dell’auto.
Questa è la guerra? Chiede un’ultima volta Feisal prima di rimontare in
macchina ed allontanarsi in una nuvola di pietre che schizzano lanciate
dalle ruote della macchina.
Che la notte sia leggera.
r.
Ecco le corrispondenze che mi arrivano da Amman, di Rosarita Catani, che ha
seguito i notiziari delle 19.00 e delle 23.30 (ora giordana)del canale
satellitare “Al Jazeera” e della televisione giordana.
di Rosarita Catani
da Shafa Badran
(Amman)
Giordania
6.4.2003 h. 19.00.
Il cielo di Bagdad è nero. Non c’è un cielo a Bagdad. E’ pieno giorno ma
sembra notte inoltrata.
Fa caldo! L’aria è ancora più irrespirabile per il fumo e per il caldo.
Sento i rombi degli aerei. I missili cadono come pioggia.
Eccolo! Lo vedo. Ecco un altro colpire una casa. Si vedono i pezzi saltare
in area.
Il giornalista di Al Jazeera commenta le immagini.
Mentre commenta si guarda intorno. Sussulta ad ogni scoppio.
Guardo le immagini ed avverto la paura. Una paura che si trasmette oltre il
video.
Me la sento addosso.
Il giornalista volta la testa appena sente il rombo di un aereo. Lo fa
vedere. Il suo sguardo è cupo.
Sento lo scoppio delle bombe. Sembra d’averle qui in casa. Ho paura anche
io adesso.
La città è deserta.
Si vede solo questa cortina di fumo nero ed il fuoco.
Oggi i bombardamenti sono ancora più forti, più accaniti. Bombardano
ovunque oramai. Non mirano più ad obiettivi precisi.
Le immagini si spostano su Bassora.
Ci sono stati violenti combattimenti fra le milizie irachene ed i soldati
britannici.
Una carovana di carri armati britannici si dirige verso Bassora. Sono
arrivati alle porte della città.
Sparano colpi di cannone. Colpite abitazioni civili.
Entrano nella città con i loro dhabbah (carri armati).
La città è già martoriata.
La televisione araba comunica che molto probabilmente i feddayn scenderanno
in azione questa notte per colpire i soldati britannici.
6.4.03 Sono le 23.20 ora locale.
Continuano i bombardamenti. Non si ha respiro.
Gli ospedali sono pieni. Non c’è più posto.
Non si conosce né l’entità dei danni ancora né l’entità delle vittime.
Guardo il sangue scorrere negli ospedali. Sento l’odore della morte. Si
sente l’odore della morte.
Bambini. I bambini che pena.
Portano un bambino ferito, che piccolo, avrà si o no due anni. E’ colpito
alla testa.
Non c’è posto. Li mettono per terra i feriti.
Vedo i medici correre da una parte all’altra.
Una signora piange: “Bush non vuole la pace. Noi chiediamo la pace, lui non
sa neanche cosa significa la Pace. Uno dei miei figli non so neanche dove
sia e l’altro è in ospedale con una gamba rotta”. Urla! E’ l’urlo disperato
di una madre.
Si asciuga le lacrime con il suo ishar e va via.
Un’altra madre grida tutto il suo dolore e dice: Lasciate crescere i nostri
figli. Lasciateli vivere e diventare grandi.
Questa notte non c’è tregua. Le bombe continuano a cadere.
Non so se riuscirò a dormire questa notte.
Davanti a miei occhi vi è solo distruzione e morte.
(fine.)
[NOTA: L'archivio di questi report e' disponibile su
<<http://italy.indymedia.org/news/2003/03/222502.php>http://italy.indymedia.org/news/2003/03/222502.php>http://italy.indymedia.org/news/2003/03/222502.php
Queste corrispondenze
sono inserite da *Robdinz* che e' in contatto dall'Italia , attraverso le
linee telefoniche internazionali, con varie persone che sono a Baghdad e
che fanno riferimento per i contatti ai telefoni di due alberghi della
capitale, dove è ospitata la stampa internazionale. Si tratta di operatori
dell'informazione indipendente, free-lance, 6 o 7 human shields, e qualche
cittadino di Baghdad che lavora con loro. *Robdinz* non è a Baghdad ma
funziona come una sorta di "ponte" per far arrivare notizie ed informazioni
in tempo reale raccolte con grande onestà intellettuale e capacità
professionale nella attuale realtà (drammatica) della città.]