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La nonviolenza e' in cammino. 502
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO
Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Numero 502 del 9 febbraio 2003
Sommario di questo numero:
1. Judith Butler, modello Guantanamo
2. Marinella Correggia, un rapporto di "Medact" sulle conseguenze della
guerra in Iraq
3. Cristina Papa, aggiornamento de "Il paese delle donne"
4. "Testarda", un aggiornamento sull'Afghanistan
5. La "Carta" del Movimento Nonviolento
6. Per saperne di piu'
1. RIFLESSIONE. JUDITH BUTLER: MODELLO GUANTANAMO
[Da "La rivista del manifesto", numero 35, gennaio 2003. "Judith Butler e'
una delle figure di maggiore spicco nel panorama internazionale della teoria
femminista, e se non la piu' importante e' certo la piu' discussa filosofa
femminista statunitense. Docente all'universita' di Berkeley in California e
frequentatrice di Women's Studies europei, ha pubblicato nell'87 il suo
primo libro (Subjects of Desire) e nel '90 il secondo, Gender Trouble, testo
cruciale per la messa a fuoco delle categorie del sesso, del genere e
dell'identita', accolto come un manifesto del lesbismo e della queer theory
e tuttora testo cult nei campus americani. Del '93 e' Bodies that Matter,
tradotto da Feltrinelli nel '95 col titolo Corpi che contano e con una
introduzione di Adriana Cavarero, del '97 The Psychic Life of Power.
Filosofa di talento e di solida formazione classica, Butler appartiene a
quella stagione post-strutturalista che si caratterizza non solo per il suo
debito nei confronti dei pensatori della crisi del soggetto (Nietzsche,
Freud, Foucault, Lacan, Derrida, Deleuze), ma anche per uno stile del
pensiero che intreccia e interroga la filosofia con la psicoanalisi, la
linguistica, la critica testuale. Femminista dichiarata, Butler appartiene a
quella generazione del femminismo americano costitutivamente attraversata e
tormentata dalle differenze sociali, etniche e sessuali fra donne e dalla
frammentazione dell'identita' che ne consegue. Decostruzione della categoria
dell'identita', analisi della costituzione del corpo sul confine fra
materialita' e linguaggio, critica del paradigma normativo eterosessuale e
dei dispositivi di inclusione/esclusione, accettazione/abiezione che esso
comporta, critica del potere e del biopotere sono gli assi principali del
suo lavoro, che sul piano politico sfocia in una strategia di radicalita'
democratica basata sulla destabilizzazione e lo shifting delle identita'.
Sia pure latenti, questi assi sono riconoscibili anche fra le righe del
testo che qui proponiamo, un atto d'accusa feroce del passaggio di
sovranita' che negli Stati Uniti si va producendo all'ombra dell'emergenza
antiterrorista: fine della divisione dei poteri, progressivo svincolamento
del potere politico dalla soggezione alla legge, crollo dello Stato di
diritto con le relative conseguenze sul piano del diritto penale
(demolizione delle garanzie processuali) e del diritto internazionale
(violazione di trattati e convenzioni). Non a caso infatti il ragionamento
di Butler si sviluppa a partire dal caso dei detenuti di Guantanamo, che non
e' solo emblematico del rapporto fra detenzione indefinita e guerra
infinita, ma e' anche paradigmatico di quel dispositivo simbolico di
abiezione dei "corpi che non contano", che nelle societa' occidentali ordina
gerarchicamente le differenze etniche e sociali, penetrando le esistenze
individuali, le identita' collettive nonche' le categorie politiche
apparentemente piu' garanti dell'universalismo dei valori e dei diritti.
Fino alla generalissima categoria dell'umano, fondativa dei diritti
fondamentali, dalla quale 'gli animali' in gabbia di Guantanamo risultano di
fatto esclusi, anzi, per l'appunto, abietti. Il testo e' stato pronunciato
da Judith Butler l'estate scorsa in una conferenza presso l'Universita' di
Utrecht; ringrazio Rosi Braidotti per avermelo segnalato" Cosi' Ida
Dominijanni presenta l'autrice e il testo della Butler su "La rivista del
manifesto". La traduzione e' di Maria Caterina Dominijanni]
Il 21 marzo di quest'anno il Dipartimento della Difesa, d'intesa col
Dipartimento della Giustizia, ha emanato nuove direttive per i tribunali
militari dinanzi ai quali sarebbero stati processati dagli Stati Uniti
alcuni dei presunti terroristi detenuti e dei prigionieri catturati, nel
paese e a Guantanamo Bay. Cio' che sin dall'inizio e' stato sorprendente in
questi arresti, e continua a essere motivo di allarme, e' che alla maggior
parte dei detenuti non sono stati garantiti l'assistenza legale e nemmeno il
diritto a un processo. I nuovi tribunali militari sono in effetti una cosa
diversa dalle corti di giustizia alle quali i detenuti hanno diritto. Alcuni
di loro verranno processati, altri no, e nessuno lo e' stato ancora al
momento in cui scrivo. Il diritto all'assistenza legale, all'appello e al
rimpatrio, sancito dalla Convenzione di Ginevra, non e' stato garantito a
nessuno dei detenuti di Guantanamo, e sebbene gli Stati Uniti abbiano
dichiarato di considerare i Talebani 'coperti' dall'accordo di Ginevra, e'
ormai chiaro che anche i Talebani non godono dello status di prigionieri di
guerra; anzi, nessuno dei prigionieri di Guantanamo ne usufruisce.
In nome di un allarme dettato da ragioni di sicurezza e dall'emergenza
nazionale, siamo davanti ad una vera sospensione del diritto nelle sue forme
nazionali e internazionali. E insieme con la sospensione del diritto emerge
un nuovo modo di esercitare la sovranita' dello Stato, che si realizza al di
fuori della legge e attraverso una elaborazione delle burocrazie
amministrative, per cui i funzionari ora non solo decidono chi verra'
processato e chi verra' detenuto, ma si arrogano il potere definitivo di
decidere sulla possibilita' di detenere qualcuno a tempo indeterminato.
E' estremamente importante porsi alcuni interrogativi: in quali condizioni
gli uomini cessano di essere titolari dei diritti umani fondamentali, se non
universali? Come interpreta il governo degli Stati Uniti queste condizioni?
E in quale misura siamo in presenza di una lente razziale ed etnica
attraverso la quale si guardano e si giudicano queste vite imprigionate, in
maniera tale che le si considera meno che umane o comunque deviate rispetto
alla comunita' umana riconosciuta?
Affermando che alcuni prigionieri saranno detenuti indefinitamente, lo Stato
si arroga il potere, prolungato all'infinito, di esprimere un giudizio su
chi e' pericoloso e non e' titolare dei diritti fondamentali riconosciuti
dalla legge. Tenendo indefinitamente in stato di detenzione alcuni
prigionieri, lo Stato si attribuisce un potere sovrano definibile solo oltre
e contro gli ambiti esistenti: civile, militare e internazionale.
I tribunali militari possono prosciogliere qualcuno da un reato; tuttavia
non solo il proscioglimento e' soggetto a riesame amministrativo
obbligatorio, ma il Dipartimento della Difesa ha anche chiarito che esso non
necessariamente mette fine alla detenzione. Inoltre, secondo le disposizioni
del nuovo tribunale, chi rientra sotto la sua competenza non puo' avvalersi
del diritto di appello presso le corti civili degli Stati Uniti.
E' evidente, dunque, che la legge stessa e' o sospesa o considerata uno
strumento che lo Stato puo' usare allo scopo di tenere sotto controllo e
sorveglianza una certa parte di popolazione. Lo Stato non e' soggetto alla
norma giuridica, e la legge puo' essere sospesa o usata in modo strumentale
e non imparziale per rispondere alle esigenze di uno Stato sovrano, che
agisce nel nome dell'autoconservazione e, in nome dello stesso principio,
estende il proprio potere.
*
Emergenza indefinita
Lo Stato accresce il proprio potere in almeno due modi.
Nel contesto dei tribunali militari, i processi sono in realta' strutture
consultive per l'esecutivo, poiche' e' proprio l'esecutivo che non solo
decide se un 'detenuto' deve subire o no un processo, ma designa il
tribunale, sottopone a revisione il processo e ha l'ultima parola in materia
di colpevolezza e innocenza e della pena da comminare, se dovuta. Non esiste
alcuna parvenza di separazione dei poteri in simili circostanze, perche'
questi processi non sono un diritto per i detenuti, che viceversa sono
esposti alla volonta' (ad libitum) del potere esecutivo. I casi che
riguardano i detenuti a tempo indeterminato sono riesaminati periodicamente
da funzionari, non dalle corti. Questi atti non hanno fondamento nella
legge, ma in un'altra forma di provvedimento. In questo senso sono gia'
fuori dalla sfera giuridica, dato che la decisione, ad esempio, sul quando e
sul dove si po' fare a meno di un processo e considerare infinita una
detenzione non ha luogo all'interno di una procedura legale; non e' una
decisione presa da un giudice, per ottenere la quale bisogna esibire prove,
ne' una tesi che si dimostra rispettando procedure definite o attenendosi a
protocolli precisi di prove e argomentazioni. Si tratta invece di
provvedimenti unilaterali emanati da funzionari, funzionari di governo, che
suppongono, puramente e semplicemente, che un certo individuo o, per meglio
dire, un gruppo costituisca un pericolo per lo Stato. Questa 'supposizione'
si verifica nel contesto di una situazione di emergenza che, si sottintende,
giustifica la sospensione della legge, incluso il processo dovuto a questi
individui.
Ma se la detenzione puo' essere infinita, e tali detenzioni si giustificano
presumibilmente sulla base di una situazione di emergenza, allora il governo
immagina una situazione di emergenza protratta nel tempo, se non indefinita.
La detenzione 'indefinita' del prigioniero non sottoposto a processo - o del
prigioniero processato dal tribunale militare e detenuto, a prescindere
dall'esito - e' una pratica che presuppone il prolungamento indefinito della
guerra al terrorismo.
E se questa 'guerra' diventa una parte permanente dell'apparato statale, una
condizione che giustifica ed estende l'uso dei tribunali militari, allora
l'esecutivo configura una propria funzione giudiziaria, tale da calpestare
la separazione dei poteri, il principio dell'habeas corpus (per i
prigionieri di Guantanamo Bay) e il diritto a un giusto processo.
Questi prigionieri sono detenuti, a tempo indeterminato; essi pero' non
vengono chiamati 'prigionieri', perche' se cosi' fosse, entrerebbero in
gioco i diritti propri dei prigionieri. Sono "detainees", detenuti in attesa
di incerti giudizi, e per loro l'attesa puo' non aver mai fine. Fino a
quando lo Stato decide che questa situazione pre-legale sia 'indefinita',
afferma che ci sono individui trattenuti dal governo per i quali la legge
non si applica, non solo nel presente, ma anche per un futuro indefinito.
In altre parole, ci sono individui per i quali la tutela della legge e'
indefinitamente rimandata.
Lo Stato, in nome del suo diritto di proteggere se stesso e, dunque, in nome
della sua sovranita', estende il proprio potere al di la' della legge;
perche', se la detenzione e' indefinita, allora lo e' anche l'esercizio
illegittimo della sovranita' dello Stato. In questo senso, la detenzione
indefinita fornisce la condizione per l'esercizio indefinito del potere
statale extra-legale.
Anche se la giustificazione della mancata celebrazione dei processi, e della
concomitante assenza del diritto a un giusto processo, all'assistenza
legale, al diritto di appello e cosi' via, e' che siamo in una situazione di
emergenza nazionale, una situazione che si considera fuori dall'ordinario,
tuttavia dalla pratica della detenzione indefinita discende che anche questo
potere extra-legale dello Stato si prolunghera' a tempo illimitato. Si
tratta dunque non gia' di una circostanza eccezionale, ma di uno strumento
attraverso il quale l'esercizio extra-legale del potere dello Stato
giustifica se stesso piu' o meno indefinitamente, ponendosi come fattore
piu' o meno permanente della vita politica degli Stati Uniti.
*
Prove e processi
I tribunali militari si usano non solo per coloro i quali sono stati
arrestati all'interno degli Stati Uniti, ma anche per gli alti gradi
dell'organizzazione attualmente detenuti a Guantanamo Bay. Il "Washington
Post" ha riferito che "c'e' poco spazio per l'utilizzazione dei tribunali
perche' la grande maggioranza dei 300 prigionieri trattenuti presso la base
navale americana di Guantanamo Bay, a Cuba, e' costituita da manovalanza. I
funzionari dell'amministrazione hanno altri progetti per molti dei
prigionieri subalterni attualmente a Guantanamo Bay: detenzione indefinita
senza processo. I funzionari americani intraprenderebbero questo tipo di
azione nei confronti dei prigionieri che a loro avviso potrebbero
rappresentare un pericolo di terrorismo anche se non hanno prove di reati
compiuti in passato".
"Potrebbero rappresentare un rischio di terrorismo". Questo significa che
alla base di una detenzione indefinita senza processo c'e' una congettura.
Si potrebbe semplicemente rispondere a questi fatti dicendo che qualunque
detenuto merita un processo, e credo che questa sia la cosa giusta da dire,
e la dico. Ma non sarebbe sufficiente: dobbiamo considerare quale senso
avrebbe un processo nei casi in cui un fermato fosse processato presso
questi nuovi tribunali militari.
A quale genere di processo ha diritto un qualunque individuo? In questi
nuovi tribunali i criteri probatori sono molto vaghi. Di fatto notizie
indirette o un semplice 'sentito dire' avranno il valore di prove rilevanti,
mentre sarebbero respinti nei processi regolari, tanto nel sistema delle
corti civili quanto in quello delle corti militari regolarmente costituite.
E se e' vero che i processi sono generalmente la sede in cui possiamo
verificare se un 'sentito dire' risponde o no a verita', in cui le notizie
indirette devono essere documentate da prove persuasive oppure respinte,
allora il piu' profondo significato del processo e' stato stravolto
dall'idea di una procedura che ammette esplicitamente affermazioni non
comprovate, e in cui le affermazioni che sono ammissibili non possono essere
valutate in termini di equanimita' e con i metodi non coercitivi usati negli
interrogatori per raccogliere le informazioni.
Il Dipartimento della Difesa dice esplicitamente che questi processi vengono
predisposti "solo per individui che operano a livelli relativamente alti tra
i Talebani o in Al Qaeda, contro i quali esistono prove convincenti di
terrorismo o di crimini di guerra" (21 marzo 2002).
Se i processi sono riservati ai capi contro i quali esistono prove
convincenti, questo vuol dire o che i fermati di livello relativamente basso
sono coloro a carico dei quali non esistono prove convincenti o che, anche
se ci sono prove contro di loro, non hanno diritto di conoscere il capo di
imputazione, di preparare una tesi difensiva o di ottenere il rilascio o la
sentenza attraverso le normali procedure di un tribunale. Dato che la
nozione di 'prova convincente' e' stata di fatto riscritta fino a includere
prove ritenute convenzionalmente non convincenti, come il 'sentito dire' e
le notizie indirette, e dato che esiste una possibilita' che gli Stati Uniti
ritengano che un tribunale militare nuovo non troverebbe alcuna prova
convincente contro i membri di quell'organizzazione, gli Stati Uniti
ammettono in effetti che ne' il 'sentito dire' ne' le informazioni indirette
avrebbero valore di prova per condannare i militanti di basso grado. Dato
inoltre che si pensa che sia stata l'Alleanza del Nord a cedere i fermati
Talebani e di Al Qaeda alle autorita' degli Stati Uniti, sarebbe importante
sapere se quell'organizzazione ha avuto fondati motivi per identificare gli
individui detenuti, prima che gli Stati Uniti decidessero di fermarli a
tempo indeterminato. Se manca questa prova, allora ci si potrebbe chiedere
addirittura perche' siano detenuti. E se c'e' la prova, ma a questi
individui non si permette di andare al processo, ci si potrebbe a buona
ragione chiedere quale valore venga attribuito a queste vite, visto che si
opera come se fossero escluse da quel paniere di garanzie previsto dalle
leggi vigenti negli Stati Uniti e dalla legge internazionale sui diritti
umani.
*
Un equivoco dell'umano
Il Dipartimento della Difesa ha diffuso foto di prigionieri incatenati e in
ginocchio, con le manette ai polsi, la bocca coperta da maschere chirurgiche
e gli occhi nascosti da occhialoni scuri. Stando a quanto si dice, a ognuno
sono stati somministrati sedativi ed e' stata rasata la testa; le celle in
cui sono detenuti misurano circa m. 2,44 per 2,44 per m. 2,16 di altezza,
sono piu' ampie delle loro coperture e, come riferisce Amnesty International
nell'aprile 2002, notevolmente piu' piccole di quanto consenta la legge
internazionale. C'e' da chiedersi se la lamiera chiamata 'tetto' riesca ad
assolvere a una qualche funzione di protezione contro il vento e la pioggia.
Le fotografie hanno suscitato una protesta internazionale perche' quella
degradazione - e la pubblicizzazione della degradazione - contravviene alla
Convenzione di Ginevra, come ha osservato la Croce Rossa, e perche' questi
individui sono raffigurati senza volto e in una situazione di completa
abiezione, come se fossero animali in gabbia. Lo stesso linguaggio usato dal
segretario Rumsfeld durante le conferenze stampa sembra confermare l'idea
che i detenuti non sono come gli altri esseri umani che entrano in guerra,
ma sono, per questo aspetto, non 'punibili' dalla legge, ma meritevoli di
un'incarcerazione eseguita con la forza, immediata e prolungata.
Quando gli chiesero perche' quegli uomini venissero imprigionati con la
forza e trattenuti senza processo, il segretario Rumsfeld spiego' che, se
non fossero stati imprigionati, avrebbero ucciso ancora. Insinuava che la
detenzione e' la sola cosa che impedisce loro di uccidere, che si tratta di
esseri la cui sola inclinazione e' uccidere: lo fanno come una cosa
naturale. Sono pure e semplici macchine assassine? Se e' cosi', non sono
esseri umani, che devono essere imprigionati, che hanno diritto a un
processo, alle dovute procedure, a conoscere e a comprendere i capi di
imputazione. Sono meno che creature umane. Rappresentano, per cosi' dire, un
equivoco dell'umano, che fornisce la base allo scetticismo
sull'applicabilita' della tutela e delle garanzie legali.
Nella conferenza stampa del 21 marzo, il consulente generale del
Dipartimento della Difesa, Haynes, risponde alla domanda di un giornalista
in un modo che conferma come questo equivoco sia ben vivo e operante nella
loro mente. Il pericolo che questi prigionieri rappresenterebbero sarebbe
diverso dai pericoli che si potrebbero provare in una corte di giustizia e
risarcire attraverso una pena. Un giornalista, preoccupato per il tribunale
militare, chiede se un individuo che venisse assolto da questo tribunale
sarebbe rilasciato. Haynes risponde: "Se si tenesse un processo proprio in
questo momento, si puo' pensare che qualcuno potrebbe uscirne assolto, ma
non potrebbe essere rilasciato automaticamente. Le persone che sono detenute
a Guantanamo Bay, a Cuba, sono combattenti nemici che abbiamo catturato sul
campo di battaglia mentre cercavano di nuocere ai soldati americani o
alleati, e sono persone pericolose. Per il momento, non abbiamo intenzione
di rilasciarne nessuno, a meno che non scopriamo che non rispondono a quei
criteri. Una volta o l'altra in futuro...". Il giornalista a questo punto
interrompe, dicendo: "Ma se non potete condannarli, se non riuscite a
provarne la colpevolezza, perche' continuate con il ritornello 'pensiamo che
siate pericolosi anche se non possiamo imprigionarvi', perche' continuate a
metterli in carcere?" E dopo qualche scambio di battute, Haynes va al
microfono e spiega che "le persone che tratteniamo a Guantanamo sono
trattenute per un motivo preciso che non e' legato a nessun crimine
particolare. Essi non sono trattenuti sulla base del fatto che sono
necessariamente criminali". Non saranno rilasciati, a meno che gli Stati
Uniti scoprano che "non rispondono a quei criteri", ma non e' chiaro di
quali criteri Haynes stia parlando.
D'altra parte, se e' il nuovo tribunale militare che stabilisce i criteri,
quel tribunale non garantisce il rilascio del prigioniero, anche qualora lo
assolva. La ragione di questo sta nel fatto che del prigioniero si puo'
supporre che sia pericoloso, ma non ci vengono forniti i criteri in base ai
quali quel convincimento si forma. Stabilire la pericolosita' non e' come
stabilire la colpevolezza e, a modo di vedere di Haynes, in seguito
confermato dai portavoce dell'amministrazione, il potere dell'esecutivo di
giudicare pericoloso un detenuto vanifica qualsiasi decisione di
colpevolezza o innocenza presa da un tribunale militare.
Sulla scia di questo approccio altamente qualificato ai nuovi tribunali
militari, noi pensiamo che questi sono tribunali le cui norme probatorie si
allontanano in modo radicale sia dalle norme procedurali delle corti civili
sia dai protocolli delle corti militari, che esse vengono usate contro
alcuni detenuti, che l'Ufficio del Presidente decide chi ha i requisiti
necessari per questi tribunali militari secondari, e che in materia di
colpevolezza o innocenza l'esecutivo ha l'ultima parola. Se un tribunale
militare assolve una persona, la persona puo' ancora essere considerata
pericolosa, il che vuol dire che la decisione del tribunale puo' essere
vanificata da un giudizio extra-legale di pericolosita'. Dato che il
tribunale militare e' esso stesso extra-legale, ci troviamo di fronte, a
quanto pare, alla replica del principio della prerogativa dello Stato
sovrano che non conosce confini.
A ogni passo del percorso, l'esecutivo decide la composizione del tribunale,
designa i suoi membri, stabilisce se chi deve essere processato ne ha
diritto, si assume il potere sul verdetto finale; ad alcuni impone il
processo e ad altri no; fa a meno della procedura probatoria convenzionale.
E giustifica tutto cio' ricorrendo a una decisione di 'pericolosita'' che
esso solo e' in condizione di prendere. Un certo livello di pericolosita'
porta un essere umano fuori dai confini della legge, e persino fuori dai
confini dello stesso tribunale militare, riduce quell'essere umano a una
proprieta' dello Stato, lo mette in una condizione per cui puo' essere
trattenuto all'infinito. Cio' che vale come 'pericoloso' e' cio' che e'
considerato pericoloso dallo Stato, cosicche', ancora una volta, lo Stato
postula che cosa e' pericoloso, e nel farlo stabilisce le condizioni per
vanificare e usurpare la legge, idea di legge che e' gia' stata usurpata da
un tragico facsimile di processo.
Se gli individui sono puramente e semplicemente considerati pericolosi,
allora non si tratta piu' di decidere se siano stati commessi atti
criminosi. In effetti 'supporre' qualcuno pericoloso e' un giudizio campato
in aria che, in questi casi, opera per vanificare quelle decisioni per le
quali sono richieste prove.
La licenza di stigmatizzare e categorizzare e di trattenere sulla base del
semplice sospetto, che si esprime in questa operazione del 'supporre', e'
potenzialmente enorme. Abbiamo gia' visto come opera nelle questioni
razziali, nella detenzione di centinaia di arabi residenti o di cittadini
arabo-americani, talvolta sulla sola base del cognome; si verificano
attacchi a individui del Medio Oriente per le strade degli Stati Uniti, e si
designano come bersagli i professori nelle universita'.
In realta', quando Rumsfeld ha gettato nel panico periodicamente o ha
'allertato' gli Stati Uniti, non ha detto alla popolazione cosa cercare, ma
solo di aumentare il livello di sorveglianza rispetto ad attivita' sospette.
Questo panico privo di un oggetto si trasforma troppo rapidamente in
sospetto nei confronti di tutte le persone con la pelle scura, specialmente
quelle che sono arabe o sembrano tali a una popolazione non sempre abituata
a distinguere, per esempio, tra sikh e musulmani o sefarditi o ebrei arabi e
pakistani-americani.
Una popolazione di persone islamiche, o ritenute islamiche, viene designata
come bersaglio da questo mandato del governo di stare su alti livelli di
allerta, con il risultato che la popolazione araba degli Stati Uniti viene
visivamente accerchiata, fissata, sorvegliata, braccata e controllata da un
gruppo di cittadini che si vedono nel ruolo di soldati di fanteria nella
guerra contro il terrorismo.
Quale genere di cultura pubblica stiamo creando se fuori dalle prigioni,
sulla metropolitana, negli aerei, per strada, sul posto di lavoro si attua
un certo 'contenimento indefinito'?
*
Animali fuori controllo
Se una persona o una popolazione vengono ritenute pericolose, e non e'
necessario mostrare o provare alcun atto pericoloso per stabilire che questo
e' vero, lo Stato stabilisce unilateralmente la popolazione detenuta,
sottraendola alla giurisdizione della legge, privandola delle tutele legali
a cui i soggetti sottoposti alla legge nazionale e internazionale hanno
diritto. Sono popolazioni che non sono soggetti, esseri umani che non
vengono concepiti come tali all'interno di un quadro di cultura politica, in
cui la vita umana e' sostenuta da diritti legali, leggi, e dunque esseri
umani che non sono umani.
Abbiamo visto la prova di questa assenza di riconoscimento dell'essere umano
nelle foto diffuse dal Dipartimento della Difesa che ritraggono i corpi
incatenati di Guantanamo.
Il Dipartimento della Difesa non le ha tenute nascoste, anzi le ha rese di
pubblico dominio senza problemi. La mia ipotesi e' che abbiano interpretato
queste fotografie come l'espressione di una vittoria, il ribaltamento
dell'umiliazione nazionale, il segno di una difesa ben riuscita della
propria reputazione.
La reazione internazionale e' stata imbarazzata: invece di una sorta di
trionfo morale, molti, tra i quali vari parlamentari inglesi e attivisti
europei dei diritti umani, vi hanno visto un fallimento morale. Invece di
un'operazione di difesa, molti hanno visto vendetta, crudelta' e un
disprezzo nazionalista e compiaciuto delle convenzioni internazionali. E
parecchi paesi hanno chiesto che i loro cittadini venissero rimandati in
patria per essere processati.
Ma c'e' qualcos'altro in questa degradazione che richiede un'attenta
lettura. C'e' una riduzione di esseri umani allo stato animale, quello in
cui ci si rappresenta l'animale fuori controllo, ed e' percio' necessario
privarlo totalmente della liberta'. Il linguaggio che gli Stati Uniti usano
per descriverli indica che queste persone sono eccezionali, che non possono
minimamente essere individui, che bisogna imprigionarle perche' non
uccidano, che sono realmente riducibili a una brama di uccidere e che i
normali codici penali e internazionali non sono applicabili a esseri simili.
Il modo di trattare questi prigionieri e' considerato un'estensione della
guerra stessa, non un problema post-bellico che attiene a processi e pene
appropriati. La detenzione mette fine ai loro crimini. Se non fossero
detenuti, e con la forza quando e' necessario, certamente comincerebbero a
uccidere; sono esseri in guerra permanente e perpetua. Ora e' possibile che
esponenti di spicco di Al Qaeda parlino in questo modo - Moussaui lo fa -,
ma questo non vuol dire che ogni detenuto incarni quella posizione o che
abbia l'obiettivo esclusivo di proseguire la guerra. Notizie provenienti
anche dalla squadra investigativa di Guantanamo rivelano che alcuni detenuti
erano coinvolti nello sforzo bellico solo marginalmente e transitoriamente.
Ma lo stesso generale Dunlavey, che fa queste ammissioni, sostiene che il
rischio e' ancora troppo alto per pensare di rilasciarli. E Rumsfeld cita a
supporto della detenzione forzata le ribellioni nelle prigioni afghane,
durante le quali i prigionieri hanno cercato di impadronirsi delle armi e di
dare vita a una battaglia all'interno del carcere. In questo senso, la
guerra non e', e non puo' essere, finita; esiste la possibilita' di guerra
nelle prigioni, e c'e' una giustificazione per la costrizione fisica,
cosicche' la prigione post-bellica diventa la prosecuzione del luogo
medesimo della guerra.
Sembrerebbero in campo le norme che regolano i combattimenti, non le norme
che regolano il modo piu' appropriato di trattare i prigionieri separati
dalla guerra stessa.
In realta', se si tratta di una guerra contro il terrorismo, come puo'
finire?
Quando al consulente generale Haynes fu chiesto: "Potete davvero tenere
prigionieri questi uomini per anni senza formulare un'accusa, solo per
tenerli lontani dalla strada, anche se non li accusate di niente?", rispose:
"E' nostro pieno diritto, e non credo che qualcuno metta in discussione la
nostra facolta' di tenere prigionieri dei combattenti nemici per tutta la
durata del conflitto. E il conflitto e' ancora in corso e per adesso non ne
vediamo la fine".
*
Potere extra-legale
L'esercizio del potere sovrano e' legato alla situazione extra-legale di
questi discorsi ufficiali. Essi diventano lo strumento attraverso il quale
il potere sovrano estende se stesso; piu' riesce a produrre ambiguita', piu'
aumenta di fatto il proprio potere apparentemente al servizio della
giustizia. Queste dichiarazioni ufficiali sono anche rappresentazioni
mediatiche, un modello di discorso di Stato, che delimita una sfera propria
del modo di parlare ufficiale e distinta dal discorso giuridico.
Quando molte organizzazioni e Paesi chiesero se gli Stati Uniti stessero
rispettando i protocolli della Convenzione di Ginevra relativi al
trattamento dei prigionieri di guerra, l'amministrazione cincischio':
sostenne che i prigionieri di Guantanamo venivano trattati in un modo
"compatibile con" la Convenzione di Ginevra, non dissero di ritenere che gli
Stati Uniti erano obbligati a onorare quella legge o che quella legge aveva
valore vincolante per gli Stati Uniti.
In realta', nell'ultimo mese sono stati parecchi i casi in cui gli Stati
Uniti hanno considerato la Convenzione di Ginevra non vincolante. Il primo
esempio fu quell'affermazione che apparentemente onora la Convenzione, cioe'
che gli Stati Uniti stanno agendo in un modo compatibile con la convenzione
o, in alternativa, che gli Stati Uniti stanno agendo nello spirito degli
accordi di Ginevra. Dire che gli Stati Uniti agiscono compatibilmente con
gli accordi e' come dire che agiscono in modo da non contraddire gli
accordi, ma non vuol dire che, in quanto firmatari degli accordi, si
considerano vincolati ad essi. Riconoscere quest'ultima proposizione
significherebbe riconoscere i limiti che gli accordi internazionali pongono
alle rivendicazioni di sovranita'. Agire compatibilmente con l'accordo
significa definire la propria azione e giudicare quell'azione, sia pure in
termini generali, compatibile con gli accordi.
Le cose peggiorano, comunque, quando vediamo che certi diritti contemplati
negli accordi di Ginevra all'articolo 3, come il diritto alla consulenza
legale, l'informazione sul capo di imputazione, l'esame da parte di una
corte regolarmente costituita, il diritto di appello e il rimpatrio
tempestivo, non vengono garantiti e non sono in programma.
La vicenda si complica ulteriormente, ma forse diventa finalmente piu'
chiara, quando ascoltiamo, come in realta' e' avvenuto, che, ebbene, nessuno
dei detenuti di Guantanamo deve essere considerato prigioniero di guerra
secondo la Convenzione di Ginevra, perche' nessuno di loro appartiene a
"eserciti regolari". Sotto pressione, l'amministrazione Bush ha riconosciuto
che i Talebani sono coperti dalla Convenzione di Ginevra, in quanto
rappresentanti del governo afgano, ma non hanno diritto a essere considerati
prigionieri di guerra in nome di quell'accordo. In realta' l'amministrazione
ha finalmente detto con grande chiarezza che l'accordo di Ginevra non e'
stato pensato per questo genere di guerra, e dunque sono anacronistiche le
clausole concernenti chi e' o non e' considerato prigioniero di guerra, chi
ha o non ha titolo a godere dei diritti che tale condizione garantisce.
L'amministrazione percio' respinge l'accordo in quanto anacronistico, ma
afferma di agire in coerenza con esso.
Quando si manifesto' un'indignazione diffusa, in risposta alla pubblicazione
dei corpi incatenati di Guantanamo, gli Stati Uniti asserirono che stavano
trattando con umanita' questi prigionieri.
L'espressione 'con umanita'' fu usata assai di frequente, insieme con
l'affermazione che gli Stati Uniti stavano agendo in modo compatibile con la
Convenzione di Ginevra. E' importante ricordare che uno dei compiti della
convenzione di Ginevra era stabilire che cosa qualifica o no come umano il
trattamento dei prigionieri di guerra. In altre parole, si trattava di
cercare di stabilire un significato universale dell'espressione "trattamento
umano" e di accordarsi su quali dovessero essere le condizioni da soddisfare
prima di affermare che veniva offerto un trattamento umano.
L'espressione "trattamento umano" ha ricevuto cosi' considerazione
giuridica, e il risultato e' stato un insieme di condizioni, formulate
esplicitamente, che, se soddisfatte, configurano un trattamento umano.
Quando dunque gli Stati Uniti dichiarano di trattare i prigionieri con
umanita' usano l'espressione a modo loro e per i loro scopi, ma non
accettano che l'accordo di Ginevra stabilisca come si dovrebbe
legittimamente usare. In realta', riprendono l'espressione dall'accordo
proprio nel momento in cui proclamano di agire compatibilmente con
l'accordo. Ma, nello stesso momento, sostengono in realta' che l'accordo non
ha potere su di loro. Analogamente, se gli Stati Uniti dicono di riconoscere
che i Talebani devono essere considerati coperti dalla Convenzione di
Ginevra, ma poi dicono che nemmeno i soldati talebani hanno titolo allo
status di prigionieri di guerra, in realta' mettono in discussione il valore
vincolante dell'accordo. Dato che l'accordo afferma che deve essere
costituito un tribunale competente per decretare la condizione di
prigioniero di guerra, e che tutti i prigionieri devono essere trattati come
prigionieri di guerra fino a diversa decisione del tribunale competente, e
dato che gli Stati Uniti non hanno provveduto a nessuno di siffatti
tribunali e hanno preso unilateralmente le proprie decisioni, gli Stati
Uniti disattendono ancora una volta i termini dell'accordo: il risultato e'
che il 'riconoscimento' che i Talebani sono coperti da un accordo che gli
Stati Uniti considerano non-vincolante e' di fatto privo di valore,
specialmente quando continuano a negare lo status di prigionieri di guerra
agli stessi individui che apparentemente riconoscono.
Gli Stati Uniti mostrano tracotanza, se non disprezzo, sia rispetto alla
propria Costituzione che ai meccanismi del diritto internazionale, riducendo
il diritto a strumento dello Stato o sospendendo la legge nell'interesse
dello Stato. Quando un giornalista chiese ai rappresentanti del Dipartimento
della Difesa perche' si volesse un sistema di tribunali militari, dato che
esistono gia' un sistema di corti civili e uno di corti militari, risposero
che avevano bisogno di un altro 'strumento', viste le nuove circostanze.
La legge non e' cio' a cui lo Stato e' soggetto, non e' cio' che distingue
tra azione statale legittima o illegittima, ma viene ora espressamente
intesa come strumento, strumento di potere, che si puo' applicare o
sospendere a piacere. La sovranita' consiste ora nell'applicazione
incostante, nel contorcimento e nella sospensione del diritto; e', nella sua
forma corrente, un rapporto col diritto: di sfruttamento, strumentale,
sprezzante, vanificante, arbitrario.
Partecipando a un programma della rete C-Span nel febbraio scorso, Rumsfeld
apparve esasperato dai problemi legali sul caso Guantanamo, che in quel
momento riguardavano soprattutto il trattamento umanitario e la condizione
di prigionieri di guerra. Egli invece fece piu' volte riferimento a un
concreto obiettivo militare e pubblico per giustificare il trattamento dei
prigionieri a Cuba. Si chino' sul microfono ed esclamo' che cercava solo di
tenere questi individui lontani dalle strade e dalle centrali nucleari, in
modo che non potessero uccidere. Dunque, bisogna che le persone siano messe
in carcere perche' non uccidano. Rispondendo a chi gli chiedeva se esse
potessero aspettarsi dei processi, disse di ritenerlo ragionevole, senza
tuttavia assumere alcun impegno in tal senso. Ma ancora una volta non capiva
che il Dipartimento della Difesa e' comunque tenuto ad agire tempestivamente
in quella direzione dopo la conclusione di un conflitto o, per meglio dire,
a impegnarsi a seguire la legge internazionale che ne fa un preciso obbligo
e un diritto non subordinato ad alcuna condizione. Era "perfettamente
ragionevole" tenerli lontani dalle strade, disse, in modo che non potessero
uccidere. E dunque quel che sembra perfettamente ragionevole e' la base di
quel che lui e il governo stanno facendo, e la 'legge' e' la' certamente per
essere consultata, e le convenzioni internazionali sono la' come una sorta
di modello, ma non come schema d'azione obbligatorio. L'azione e' autonoma,
al di fuori della legge: guarda alla legge, la prende in considerazione, la
consulta, forse in qualche occasione opera persino in modo compatibile con
essa. Ma l'azione e' di per se' extra-legale, e si considera giustificata in
quanto tale. In realta' la legge sembrava infastidire Rumsfeld.
Rispondendo a tutte queste domande sui diritti e sulle responsabilita'
legali, sottolineo' che intendeva lasciare questi problemi ad altri, a
persone che, al contrario di lui, non avevano abbandonato gli studi
giuridici. E poi rise, come se avesse inaspettatamente offerto una qualche
lodevole prova della sua virilita' americana. L'ostentazione della forza
indifferente alla legge si condensava gia' prima nello slogan di Bush "vivo
o morto", riferito a Osama bin Laden, e Rumsfeld sembra continuare nella
situazione attuale questa tradizione senza scrupoli di una giustizia da
vigilantes.
Non si preoccupa delle lamiere usate come tetti sulle celle in cui si
trovano i prigionieri. Dopo tutto, dice convinto, sono stato a Cuba, e la'
c'e' bel tempo. E poi, come se questi problemi fossero zanzare intorno alle
sue caviglie in un giorno di gran caldo a Cuba, dichiara: "Non sono un
avvocato. Non mi interesso di quell'aspetto del problema".
*
Terrorismo
Potreste dedurre che io voglio solo che venga rispettata la legge. E in un
certo senso questo e', almeno in parte, cio' che voglio. Ma ho anche un
problema rispetto alla legge. E credo che dovrebbe essere sottoposta a
critica e a revisione. Ho scritto su questo tema su "The Nation" del primo
aprile 2002, e non voglio riprendere qui tutte le argomentazioni di allora.
Ma in breve, sono preoccupata, ragionevolmente preoccupata, del fatto che la
Convenzione di Ginevra e', in parte, un discorso di civilta', e non sancisce
in nessun luogo un diritto alla tutela dalla degradazione e dalla violenza e
i diritti a un giusto processo in quanto diritti universali. Altre
convenzioni internazionali lo fanno, e molte organizzazioni per i diritti
umani sostengono che si puo' e si deve interpretare la Convenzione di
Ginevra come valida per tutti. Il Comitato internazionale della Croce Rossa
ha sostenuto questa tesi pubblicamente (8 febbraio 2002). Kenneth Roth,
direttore dello Human Rights Watch, ha argomentato con forza che ai
prigionieri di Guantanamo devono essere garantiti quei diritti (28 gennaio
2002), e il Memorandum di Amnesty International al governo degli Stati Uniti
(15 aprile 2002) chiarisce che cinquant'anni di diritto internazionale hanno
costruito una presunzione di universalita', codificata chiaramente
nell'articolo 9 (4) dell'International Covenant on Civil and Political
Rights, ratificato dagli Stati Uniti nel 1992. Posizioni analoghe sono state
prese dalla International Commission on Jurists (7 febbraio 2002); e il
gruppo di esperti dei diritti umani della Organization for American States
ha fatto la stessa affermazione (13 marzo 2002), appoggiato dal Center for
Constitutional Rights.
Di conseguenza il ricorso alla Convenzione di Ginevra, redatta nel 1949,
intesa come unico documento regolativo di questa tematica, e' in se stesso
problematico. Bisogna assolutamente stabilire e applicare un criterio
selettivo per il problema che attiene a chi abbia o non abbia diritto alla
protezione in base alle clausole in essa contenute. In un certo senso, la
Convenzione di Ginevra da' per scontato che certi prigionieri non possano
essere protetti dal suo statuto, e privilegia chiaramente quei prigionieri
che provengono da guerre tra Stati ben individuabili. In effetti, nella
misura in cui la Convenzione di Ginevra da' appiglio a una distinzione tra
combattenti legali e illegali, opera una distinzione tra violenza legittima
e illegittima. La violenza legittima e' quella operata da Stati o 'Paesi'
riconoscibili, come dice Rumsfeld, e la violenza illegittima e' precisamente
quella commessa da chi e' senza terra, senza Stato.
Nel clima attuale questa formulazione accresce la sua forza visto che varie
forme di violenza politica vengono chiamate 'terrorismo', non perche' ci
siano tipi di violenza distinguibili gli uni dagli altri, ma perche' cosi'
si caratterizza la violenza commessa da, o in nome di, autorita' considerate
illegittime dagli Stati riconosciuti.
Il risultato e' che Ariel Sharon liquida radicalmente e totalmente
l'Intifada palestinese come 'terrorismo', proprio lui che usa senza scrupoli
la violenza di Stato per distruggere cose e persone. L'uso del termine
'terrorismo' serve dunque per delegittimare certe forme di violenza attuate
da entita' politiche non statuali, nel momento stesso in cui sancisce una
risposta violenta da parte degli Stati riconosciuti.
Ovviamente questa e' una tattica usata da molto tempo, perche' gli Stati
coloniali devono vedersela con i palestinesi o con i cattolici irlandesi, e
fu anche una tesi sostenuta contro l'Anc in Sudafrica.
Ma la nuova forma che queste argomentazioni stanno assumendo e la
naturalezza di cui si rivestono non fanno che accrescere le conseguenze
estremamente dannose che esse proiettano sulla lotta per
l'autodeterminazione palestinese. Israele trae vantaggio da questa
formulazione non ritenendosi responsabile verso alcuno Stato di diritto
proprio nel momento in cui si sente impegnato in una autodifesa legittima,
in virtu' del fatto che si tratta di violenza di Stato. Nell'ambito della
concettualizzazione della violenza mondiale, 'terrorismo' diventa il nome
per descrivere la violenza della guerra illegittima, mentre quella legittima
diventa prerogativa di chi puo' fare affidamento su un riconoscimento
internazionale in quanto Stato legittimo.
Il fatto che questi prigionieri siano visti come semplici contenitori di
violenza, come sostiene Rumsfeld, indica che essi non diventano violenti per
lo stesso ordine di ragioni degli altri esseri politicizzati, che la loro
violenza e' in qualche modo costitutiva, senza ragioni e infinita, se non
innata. Se questo e' terrorismo piuttosto che violenza, e' azione che non ha
alcuno scopo politico, o che non si puo' leggere politicamente. Nasce, come
si dice, dai fanatici, dagli estremisti, che non sposano un punto di vista,
esistono al di fuori della 'ragione', e non hanno posto nella comunita'
umana. Che sia terrorismo o estremismo islamico vuol dire solo che la
de-umanizzazione che l'orientalismo gia' provoca e' elevata all'ennesima
potenza, cosi' che l'unicita' e l'eccezionalita' di questo tipo di guerra la
rende esente dalle presunzioni e dalle protezioni dell'universalita' e della
civilta'.
Quando ad essere chiamata in causa e' la stessa condizione umana dei
prigionieri, e' segno che abbiamo usato uno schema troppo angusto per
comprendere l'umano e abbiamo mancato di espandere la nostra concezione dei
diritti umani, fino a potervi includere anche coloro i cui valori possono
mettere alla prova i limiti dei nostri.
L'immagine dell'estremismo islamico e' molto riduttiva in questo momento,
data l'estrema ignoranza sulle varie forme politiche e sociali che l'Islam
assume, le tensioni, per esempio, tra i musulmani sunniti e sciiti, e
l'ampia gamma di pratiche religiose che hanno poche implicazioni politiche,
se pure ne hanno, o le cui implicazioni politiche sono pacifiste.
Se presumiamo che ogni essere umano va alla guerra come noi, o che la
violenza che usiamo e' violenza che ricade nell'ambito della natura umana
riconoscibile, facciamo uso di una cornice culturale limitata e limitante
per comprendere quello che si deve intendere per umano. Essere umani implica
molte cose, una delle quali e' che siamo esseri che devono vivere in un
mondo in cui ci sono e ci saranno scontri di valori, e che questi scontri
sono un segno di quel che e' una comunita' umana.
Una prova della nostra reale umanita' e' verificare se continuiamo a far
valere una concezione universale dei diritti umani nei momenti di
risentimento e di incomprensione, proprio quando pensiamo che gli altri si
siano messi al di fuori della comunita' umana quale noi la conosciamo.
Sbagliamo, percio', se pensiamo che una sola definizione, o un solo modello
di razionalita', possa essere l'unico elemento distintivo dell'umano, e poi
procediamo per deduzioni da quella visione precostituita dell'umano fino a
tutte le sue varie forme culturali. Quella strada ci porterebbe a chiederci
se alcuni esseri umani che non incarnano la ragione e la violenza nel modo
stabilito dalle nostre definizioni sono ancora umani o se sono "eccezionali"
(Haynes) o "unici" (Hastert) o "davvero cattivi" (Cheney), visto che ci
presentano un caso limite dell'umano, che, sfortunatamente, non abbiamo
finora accolto.
*
Ripensare l'umano
Affrontare quello che per qualcuno e' un caso limite dell'umano e' una sfida
per ripensare l'umano. E il compito di ripensare l'umano fa parte del
percorso democratico di una dottrina dei diritti umani in evoluzione. Non
dovrebbe essere sorprendente trovare che esistono schemi razziali ed etnici
attraverso i quali generalmente si forma cio' che e' riconoscibile come
umano.
Un'operazione critica di ogni cultura democratica e' contestare questi
schemi, permettere a un insieme di strutture dissonanti e sovrapponentesi di
diventare visibili, accettare le sfide della traduzione delle culture,
specialmente quelle che emergono quando ci troviamo a vivere in prossimita'
di coloro i cui valori e convincimenti sfidano i nostri a livelli davvero
fondamentali.
Cosa ancora piu' importante, non si tratta del fatto che 'noi' abbiamo
un'idea comune di quello che e' umano, perche' gli americani sono formati da
molte tradizioni, incluso l'Islam in varie forme, dunque ogni valutazione di
se' radicalmente democratica dovra' venire a patti con l'eterogeneita' dei
valori umani. Questo non e' un relativismo che indebolisce le rivendicazioni
universali; e' la condizione per cui si potra' articolare una concezione
concreta e aperta dell'umano, il modo in cui le concezioni dell'umano
anguste e implicitamente limitate dal punto di vista razziale e religioso
dovranno lasciare il posto a una concezione piu' aperta di come ci pensiamo
in quanto comunita' globale.
Non comprendiamo ancora i modi, e in questo senso la legge dei diritti umani
deve ancora imparare a conoscere il significato pieno dell'umano. E',
potremmo dire, un compito continuo dei diritti umani rielaborare l'umano
quando la loro presunta universalita' non ha campo d'azione universale.
Il problema di chi viene trattato umanamente presuppone che risolviamo prima
il problema di chi conta o no come essere umano. Ed e' questo il punto in
cui il dibattito sulla civilta' occidentale e l'Islam non e' solo un
dibattito accademico, una strampalata caccia all'orientalismo da parte di
Bernard Lewis, Samuel Huntington e simili, che con regolarita' producono
resoconti monolitici dell''Est', combattendo i valori dell'Islam con i
valori della 'civilta'' occidentale. In questo senso, 'civilta'' e' un
termine che lavora contro una concezione aperta dell'umano, un termine che
non trova posto in un internazionalismo che prende seriamente
l'universalita' dei diritti. Il termine 'civilta'', e cio' che ne consegue
nella pratica, determina una produzione dell'umano differenziata e offre uno
standard culturalmente limitato di quello che si presume essere l'umano. Non
e' solo che alcuni esseri umani sono trattati come esseri umani e altri
vengono de-umanizzati; e' che la de-umanizzazione diventa la condizione per
produrre l'umano fino al punto che una civilta' 'occidentale' definisce se
stessa al di sopra e contro una popolazione considerata illegittima per
definizione, e umana con qualche dubbio.
Il problema e', piuttosto, come una nozione falsa di civilta' fornisca la
misura in base alla quale si definisce l'umano nello stesso momento in cui
una distesa di cosiddetti esseri umani, spettralmente umani, decostituiti,
vengono mantenuti e detenuti, fatti vivere e morire all'interno di una sfera
di vita extra-umana ed extra-giuridica. Non e' solo il trattamento disumano
dei prigionieri di Guantanamo, che attesta che questi esseri incatenati
sono, politicamente, indegni dei diritti umani fondamentali. Vediamo
all'opera un capriccioso proceduralismo estraneo alla legge, e la
trasformazione del carcere nel luogo in cui diventano piu' forti certi
metodi operativi non vincolati alla legge, senza relazione col processo, con
la pena e con i diritti dei prigionieri. Vediamo, in effetti, lo sforzo di
mettere in piedi un sistema giudiziario secondario e una sfera di detenzione
non-legale, che di fatto fa della prigione stessa una sfera extra-legale
mantenuta dal potere extra-giudiziario dello Stato.
*
Legge e sovranita'
Potrebbe sembrare che il sottinteso normativo della mia analisi sia l'idea
che lo Stato deve essere vincolato alla legge e non considerare la legge
come qualcosa di meramente strumentale o superfluo. E' vero. Ma non mi
interessa il principio della legge di per se', bensi' il posto che la legge
occupa nell'articolazione di una concezione internazionale dei diritti e
degli obblighi che limitano e condizionano le pretese della sovranita' dello
Stato. Sono ben consapevole che i modelli internazionali possono essere
sfruttati a proprio vantaggio da coloro i quali esercitano il potere, ma
penso che un nuovo internazionalismo debba nondimeno battersi per i diritti
delle persone senza Stato e per le forme di autodeterminazione, che non si
risolvano in forme capricciose e ciniche di sovranita' dello Stato.
Autodeterminazione per un dato popolo, a prescindere dalla situazione
attuale dello Stato, non e' la stessa cosa dell'esercizio extra-legale della
sovranita' allo scopo di sospendere i diritti alla cieca. Ne consegue che
non puo' esserci esercizio legittimo di autodeterminazione che non sia
condizionato e limitato da una concezione internazionale dei diritti umani,
che fornisca una cornice vincolante per l'azione dello Stato. Sono
favorevole, per esempio, all'autodeterminazione palestinese, e anche alla
creazione dello Stato palestinese, ma quel processo dovrebbe attuarsi con il
supporto e i vincoli dei diritti umani internazionali. Analogamente, sono
ancora piu' appassionata alla rinuncia di Israele alla religione come
prerequisito per i diritti di cittadinanza, e credo che nessuna democrazia
contemporanea possa e debba basarsi su condizioni di partecipazione
escludenti, come la religione.
L'amministrazione Bush ha rotto negli ultimi due anni numerosi trattati
internazionali, molti dei quali avevano a che fare con il controllo e il
traffico delle armi, e molti di questi annullamenti sono stati decisi prima
degli eventi dell'11 settembre. Anche la richiesta degli Stati Uniti di una
coalizione internazionale dopo quegli eventi era tale da lasciar presumere
che gli Stati Uniti avrebbero stabilito i termini, preso l'iniziativa,
determinato il criterio per l'adesione e capeggiato gli alleati. Questa e'
una forma di sovranita' che cerca di assorbire e strumentalizzare la
coalizione internazionale, piu' che sottoporla a una prassi di
autolimitazione, in virtu' dei suoi obblighi internazionali. Analogamente
l'autodeterminazione palestinese verra' assicurata in quanto diritto solo se
esiste consenso internazionale sul fatto che di fronte a un esercizio
violento e smisurato delle prerogative sovrane da parte di Israele bisogna
far valere questi diritti. Il mio timore e' che la detenzione indefinita dei
prigionieri di Guantanamo, dove non sono possibili diritti di appello presso
le corti federali, diventera' un modello per marchiare e gestire i
cosiddetti terroristi nelle varie parti del mondo in cui non sono
immaginabili appelli ai diritti e alle corti internazionali, e che vedremo
risorgere una sovranita' dello Stato violenta e autoesaltantesi, a scapito
di ogni impegno alla cooperazione mondiale, che possa appoggiare e
ridistribuire in modo totalmente nuovo i diritti di riconoscimento dovuti a
qualsiasi essere umano.
Dobbiamo ancora diventare umani, a quanto sembra, e per il momento questa
prospettiva sembra ancor piu' radicalmente in pericolo, se non preclusa per
un tempo imprecisato.
2. PREVISIONI. MARINELLA CORREGGIA: UN RAPPORTO DI "MEDACT" SULLE
CONSEGUENZE DELLA GUERRA IN IRAQ
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 7 febbraio 2003]
Decine di migliaia di civili iracheni morirono sotto i bombardamenti degli
Usa e dei loro alleati nella guerra del 1991. Quanto ai militari, le stime
indicavano fra i 50.000 e i 120.000 morti; in tanti finirono sepolti vivi
nelle trincee o uccisi da bombe al fosforo mentre si ritiravano in massa dal
Kuwait.
La nuova guerra portera' un numero assai maggiore di morti e feriti, civili
e militari: "Un disastro nel breve, medio e lungo periodo", secondo i
calcoli del rapporto Collateral Damages the Health and Environmental Costs
of War on Iraq redatto da Medact, un'organizzazione di medici britannici che
fa parte dell'Ippnw, Associazione internazionale medici per la prevenzione
della guerra nucleare, con affiliati in 80 paesi.
E il rapporto e' stato compilato prima delle ultime "rivelazioni" circa
l'ipotesi di colpire Baghdad con 800 missili al giorno. Le stime che Medact
ha portato alla distratta attenzione dell'Onu sono basate sullo studio di
precedenti conflitti: la guerra del Golfo del 1991, la guerra cecena e
quella jugoslava, le "operazioni" a Panama, in Somalia e in Libano. Lo
scenario prevede una campagna articolata in quattro fasi: gli immancabili e
massicci bombardamenti delle principali citta', quindi la presa dei campi
petroliferi intorno a Bassora nel sud e nella regione curda a nord, infine
l'attacco di terra a Baghdad. Il generale Peter Gration (non sappiamo se in
pensione; la sua lettera e' riportata sul sito di Medact) scrive: "Lo
scenario e' militarmente sensato, le stime dei relativi morti e feriti sono
credibili; poiche' la posta in gioco stavolta e' il cambio del regime,
occorrera' piu' tempo rispetto alla Desert Storm del 1991; nel frattempo,
inoltre, sono state sviluppate armi nuove che saranno usate. Un nuovo
conflitto sara' quindi piu' intenso e distruttivo".
Scenario che diventa semplicemente allucinante in caso di ricorso al
nucleare. Fatta cadere su Baghdad, una bomba nucleare di taglia "Hiroshima"
ucciderebbe fra sessantaseimila e trecentosessantamila persone, mentre una
moderna bomba termonucleare sterminerebbe un numero di persone variabile fra
alcune centinaia di migliaia e tre milioni: Medact si basa sullo studio
indiano Ramana che nel 1999 cerco' di valutare l'impatto di un ipotetico
attacco nucleare pakistano su Bombay.
Se invece l'annunciato conflitto fosse esclusivamente convenzionale i morti
varierebbero fra cinquantamila e oltre duecentosessantamila, per la maggior
parte civili di Baghdad ("grazie" al combinato disposto di bombardamenti e
di scontri di terra). La stima comprende anche fra cento e cinquemila morti
fra gli attaccanti. I feriti totali sarebbero centinaia di migliaia. Nel
caso di uso di armi chimiche e biologiche occorrerebbe aggiungere fino a
dodicimila vittime. Inoltre, l'attacco da parte Usa di installazioni che - a
loro dire - contenessero sostanze chimiche, biologiche e nucleari
provocherebbe rilasci dagli effetti sanitari e ambientali devastanti. Grande
pericolo per l'ambiente anche il possibile sabotaggio dei pozzi petroliferi
nel sud e nel nord. La guerra civile eventuale aggiungerebbe altri ventimila
morti. Ma la distruzione rinnovata delle infrastrutture civili e le
difficolta' di soccorrere le popolazioni provocherebbero nel dopoguerra
immediato altri duecentomila morti, per epidemie e fame.
Precisa Medact: lo stato di salute degli iracheni e delle infrastrutture
civili era migliore nel 1991 (la guerra e poi l'embargo hanno provocato un
grave deterioramento), quindi le capacita' di resistere a una nuova
emergenza sono fortemente indebolite.
Del resto, stime basate su studi dell'Organizzazione mondiale della sanita'
(Who) e dell'Unicef indicano che almeno cinquecentomila persone avrebbero
bisogno di cure durante e dopo il conflitto, e che lo stato nutrizionale di
almeno 3 milioni di iracheni precipiterebbe. Sarebbero inoltre novecentomila
i rifugiati da assistere.
La conclusione - per Medact e Ippnw - e' che "il mondo ha bisogno urgente di
una leadership saggia e umana, che riconosca che la sicurezza nazionale e'
impossibile senza quella internazionale" e che "faccia del XXI secolo un'era
di pace per il pianeta". Cominciando a risolvere pacificamente la crisi
irachena.
3. INFORMAZIONE. CRISTINA PAPA: AGGIORNAMENTO DE "IL PAESE DELLE DONNE"
[Da Cristina Papa (per contatti: womenews@www.womenews.net) riceviamo questo
sommario dell'aggiornamento dell'utilissimo sito femminista e pacifista de
"Il paese delle donne" (www.womenews.net)]
In questo numero parliamo di:
* Pace e guerra: Mille azioni di pace; Il mestiere delle armi; For peace &
justice; Parlate della nostra resistenza.
* Femminismi: Senso di marcia; Il viaggio metapatriarcale di rabbia e
speranza di Mary Daly; ''Donne. Vite da salvare'' una campagna congiunta di
Udi e Aidos; La patente.
* Mass media: Protagoniste della nostra informazione.
* Formazione: L'autonomia tradita; Spunti per un'azione didattica.
* Culture: Con occhi, mente e corpo; IV edizione Premio di scrittura; Corti
per un teatro civile; Diritti riproduttivi nel mondo.
* Notizie in breve.
4. INFORMAZIONE. "TESTARDA": UN AGGIORNAMENTO SULL'AFGHANISTAN
[Dalla newsletter femminista e pacifista "Testarda" (per contatti:
testarda@dada.it) riceviamo e diffondiamo]
"Testarda" vi informa che e' in rete un aggiornamento speciale del sito
"Women for Women, donne contro i fondamentalismi", dedicato all'Afghanistan.
In evidenza, troverete una selezione di foto, i testi e le informazioni
relative alla mostra fotografica e documentaria "Afghanistan conteso" a cura
di Pia Ranzato (foto di Pia Ranzato, Mario Ginestri, Giuliana Sgrena, Anna
Bacci; testi a cura di Elena Laurenzi e Mario Ginestri).
Questo mese, la nostra "rosa dei venti" segna un'unica direzione, e punta
dritto all'Afghanistan. Non perche' venti tempestosi di fondamentalismo e
fanatismo abbiano smesso di soffiare da ogni direzione, al contrario. Ma,
alla vigilia di una nuova guerra, ci sembra fondamentale tirare le fila di
quella ancora in corso in Afghanistan, e degli effetti sulla vita delle
donne di quella "liberta' duratura" tristemente annunciata.
Vi proponiamo allora l'ultimo rapporto pubblicato dallo Human Right Watch a
dicembre 2002, "Vogliamo vivere come esseri umani. Repressione contro donne
e ragazze nell' Afghanistan occidentale" - che trovate in sintesi con
finestre di traduzione nella sezione Materiali e in versione originale nella
sezione Documenti. Il rapporto, di 52 pagine, insiste sulle misure
repressive sempre piu' pesanti imposte alle donne e alle bambine da Ismail
Khan, il governatore locale di Herat che beneficia dell'assistenza militare
e finanziaria degli Stati Uniti. Human Rights Watch documenta anche come la
situazione di Herat sia sintomatica di un peggioramento delle condizioni di
vita di donne e bambine in tutto il paese.
Pubblichiamo anche il precedente rapporto diffuso da Human Right Watch a
novembre 2002, "Tutte le nostre speranze sono distrutte. violenza e
repressione nell'Afghanistan occidentale" (novembre 2002); e il comunicato
di Rawa in occasione della giornata mondiale dei diritti umani (10 dicembre
2002), "Senza il rifiuto dei fondamentalisti, il rispetto dei diritti umani
non e' altro che sogno e illusione". Questi documenti sono stati gia'
tradotti e pubblicati nel sito di Iemanja', che offre puntualmente ogni mese
un aggiornamento sulle notizie e i documenti sull'Afghanistan, e ospita la
pagina del Coordinamento Italiano per Rawa:
www.ecn.org/reds/donne/donne.html
Sempre nella sezione Materiali troverete i testi della mostra fotografica e
documentaria "Afghanistan Conteso" che offrono informazioni, dati, notizie
sull'Afghanistan, sulla sua cultura, sulla sua storia, sui Talebani e sui
fondamentalisti dell'Alleanza del Nord, sugli effetti della guerra, sulla
situazione attuale, sul lavoro di Rawa e Hawca dentro il paese e tra gli
esuli. I testi sono stati pensati anche come dispensa didattica, e sono
seguiti da una bibliografia dettagliata con i riferimenti dei documenti da
cui sono stati tratte le informazioni.
5. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.
6. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta@sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben@libero.it;
angelaebeppe@libero.it; mir@peacelink.it, sudest@iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info@peacelink.it
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO
Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac@tin.it
Numero 502 del 9 febbraio 2003