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articolo su movimenti e poteri globali
Articolo per Linus, marzo 2002
Il cambio delle regole
di Mario Pianta
Che cos’hanno in comune pomodori, yen, mais transgenico e farmaci
anti-Aids? Che dipendono da regole internazionali, oggi al centro
di profonde controversie. Sono le regole del commercio, dei mercati dei
cambi, della sicurezza alimentare e della protezione della proprietà
intellettuale. Finora le hanno scritte i paesi più ricchi, Stati Uniti in
testa, con non pochi litigi (e colpi bassi) con Europa e Giappone.
Secondo queste regole, l’Italia può vendere pomodori in Marocco, che non
può esportarli da noi, che in compenso importiamo i marocchini che li
raccolgono. Secondo queste regole, il mercato dei cambi può scambiare
euro, dollari e ogni altra moneta per un volume che in un anno è tredici
volte superiore al Prodotto lordo del mondo, travolgendo per strada le
monete di Thailandia, Argentina, Turchia. Secondo queste regole, le nuove
sementi transgeniche si stanno diffondendo dall’America latina all’Asia,
con l’effetto di produrre profitti senza fine per le multinazionali che
le vendono, come la Monsanto, e di lasciare tutti nell’incertezza se dopo
la “mucca pazza” avremo impazzimenti anche di soia, mais e riso. Secondo
queste regole, le case farmaceutiche fanno pagare per i farmaci anti-Aids
un prezzo pari a oltre dieci volte il costo di produzione, col risultato
che pochissimi tra i milioni di malati africani possono curarsi.
Sono regole che fanno sempre vincere l’economia e perdere la società, che
rafforzano i profitti di pochissimi e indeboliscono la vita di tutti gli
altri. Formalmente, sono regole decise dai governi e dalle istituzioni
inter-governative che gli stati hanno messo in piedi perché si occupino
di questo o quel problema. La realtà è molto più asimmetrica. L’ordine
internazionale disegnato negli ultimi vent’anni dal modello neo-liberista
è costruito intorno ai centri di potere economico, politico e militare,
che sono tutti nel nord del mondo e quasi tutti negli Stati Uniti. Le
regole che hanno dettato la liberalizzazione dei flussi di merci,
capitali e tecnologie hanno avuto una direzione a senso unico,
concentrando i vantaggi e decentrando gli svantaggi. Forse mai nella
storia i privilegi di così pochi sono stati pagati da sofferenze di così
tanti.
C’è un rimedio? Certo che c’è, vecchio di 2400 anni. Ricordate come
funzionavano le cose ad Atene (almeno per gli ateniesi, uomini e non
schiavi)? Si chiama democrazia. Cioè tutti decidono insieme le
regole che tutti devono rispettare; tutti quelli coinvolti da una
decisione contribuiscono a prenderla. Come? In mancanza di meglio, con
votazioni in cui c’è un voto a testa, delegando rappresentanti revocabili
a realizzare quanto si decide. Il problema è che i passi fatti dalla
democrazia si fermano di solito dentro i confini degli stati, e finora
parlamenti e governi si occupano più di faccende nazionali che di regole
globali. Salvo poi accorgersi che sono quelle regole a provocare la
svalutazione della moneta, la chiusura dell’industria dell’acciaio, un
cioccolato che si può fare senza cacao. Cioè a colpire più direttamente
la vita, il lavoro, i consumi e i risparmi di tutti i cittadini. A questo
punto di solito capita di vedere i politici alzare le mani al cielo e
annunciare fatalmente: “è la globalizzazione, ragazzi”.
Finora i governi
“democratici” europei, ma anche le forze politiche nazionali, non hanno
messo in discussione questa “costituzione materiale” dell’ordine
internazionale. Non sobbalzano sulla sedia quando al Fondo monetario si
vota contando i pacchetti azionari e non i paesi, e non si accorgono
nemmeno che in questo modo hanno già la maggioranza. Non hanno scrupoli a
imporre, da veri liberisti a senso unico, il protezionismo europeo
nell’agricoltura e nel tessile ai paesi del sud del mondo. Non hanno
vergogna a scrivere regole su misura per le grandi imprese su finanza,
lavoro, ambiente, consumi, con un intreccio di interessi messo a nudo
negli Stati Uniti dallo scandalo della Enron. Il fatto è che, finora,
hanno (abbiamo!) ottenuto i vantaggi di essere nel gruppo dei
privilegiati del pianeta.
E i paesi che ci rimettono, invece? I
governi, spesso meno “democratici”, del sud del mondo, da parte loro,
sono così privi di potere nella maggior parte delle sedi internazionali,
che possono al massimo mettersi al riparo dalle conseguenze peggiori
delle decisioni prese dal nord. Alle conferenze internazionali si
racconta di come i governi africani sono stati costretti nell’ultima
notte del vertice di Doha dell’Organizzazione mondiale per il commercio
(Omc) ad accettare l’apertura del nuovo negoziato sulla liberalizzazione
che l’occidente voleva a tutti i costi e loro non volevano in nessun
modo. Ed è ben noto che paesi in via di sviluppo che chiedono
finanziamenti internazionali devono allinearsi alle ricette del Fondo
monetario su tasso di cambio, privatizzazioni, tagli alla spesa pubblica
e sociale, i tristemente famosi “programmi di aggiustamento
strutturale”.
E poi ci sono le istituzioni internazionali, che una volta in piedi,
acquistano una vita propria, una logica burocratica di espansione del
proprio potere che si incrocia con quella degli stati più potenti. Così
molte agenzie dell’Onu sopravvivono a se stesse, il 60 per cento del
bilancio della Fao serve a mantenere la struttura e non a combattere la
fame, il Fondo monetario ha ora ruolo e obiettivi opposti a quelli
definiti alla sua nascita nel 1944.
A turbare la sazietà dei prepotenti e il silenzio degli impotenti sono
stati i movimenti globali, che il mese scorso hanno portato 50
mila persone da tutto il mondo a Porto Alegre, in Brasile, al secondo
Forum Sociale Mondiale. Nel documento comune dei movimenti sociali
“Resistenza al neo-liberismo, alla guerra e al militarismo: per la pace e
la giustizia sociale” (la lettura è fortemente consigliata, si trova sul
sito di Carta:
www.carta.org)
si sono definiti come un “movimento globale per la giustizia
sociale e la solidarietà” e hanno messo al primo punto dei propri
obiettivi la lotta “per la democrazia: i popoli hanno il diritto
di conoscere e criticare le decisioni dei loro governi, specialmente
quando riguardano istituzioni internazionali. I governi devono essere
responsabili di fronte ai loro popoli. Mentre sosteniamo la diffusione
della democrazia elettorale e partecipativa in tutto il mondo,
sottolineiamo la necessità di una democratizzazione degli stati e delle
società, e la lotta contro le dittature”. E’ questa la premessa da cui
partono i movimenti quando chiedono di cambiare le regole
globali sopra elencate, e molte altre ancora. Ma chi li
ascolta?
All’appuntamento globale di questi giorni, la conferenza “Finanza per lo
sviluppo” di Monterrey, in Messico, Nazioni Unite e Banca mondiale hanno
deciso di non ascoltarli. Le organizzazioni non governative e i movimenti
si riuniscono in un controvertice per denunciare il fallimento della
conferenza nell’ affrontare i problemi del debito, dei flussi di
capitali, delle esigenze di cooperazione allo sviluppo. Un modesto
coinvolgimento della società civile nelle fasi preparatorie della
conferenza non ha portato ad alcun risultato: l’agenda ufficiale non ha
posto per la Tobin tax, la riduzione del debito, nuove risorse per la
cooperazione. Alla stretta finale, le pressioni degli Stati Uniti, a cui
è accodata l’Unione Europea, hanno trasformato la conferenza in una
innocua passerella di governi (si trova tutto sul sito della Campagna
per la riforma della Banca mondiale:
www.crbm.org).
Ma già a Porto Alegre l’assenza
delle Nazioni Unite era clamorosa. A parte un debole messaggio di Kofi
Annan, la presenza maggiore era quella di Juan Somavia, capo
dell’Organizzazione internazionale del lavoro, a cui si aggiungevano
alcuni seminari organizzati dall’Unesco (l’agenzia Onu per la cultura
abbandonata dagli Usa nel 1984) e dall’Unrisd, un centro di ricerca sullo
sviluppo sociale che non ha risparmiato critiche alle organizzazioni
internazionali fuori dal sistema delle Nazioni Unite, documentate nei
suoi rapporti di ricerca (sul sito:
www.unrisd.org).
La prossima verifica sarà al vertice Fao
del giugno prossimo a Roma che discuterà di alimentazione e organismi
geneticamente modificati (rinviato l’anno scorso dopo le proteste al G8
di Genova), il primo grande appuntamento italiano sui temi globali di
quest’anno, da cui ancora una volta è difficile aspettarsi un’apertura
alle richieste dei movimenti.
Eppure buona parte di queste richieste sono puntuali, ragionevoli e
realizzabili. A Porto Alegre, dove si è fatto l’inventario delle analisi
e delle idee dei movimenti globali, emergeva un importante equilibrio tra
protesta contro l’ordine esistente e proposta per nuove
regole globali. Non si è discusso molto delle strategie per
realizzarle, di come si possano spingere governi e organismi
sovranazionali a cambiare strada. Ma dalle esperienze presentate
emergevano soprattutto tre percorsi, non necessariamente
alternativi tra di loro.
Il primo è quello di definire richieste semplici, largamente condivise,
su cui costruire ampie convergenze tra movimenti, forze sociali e
politiche, e governi di alcuni paesi “illuminati”, come quelle che hanno
permesso di fermare a Seattle il Millenium Round sul commercio e prima
ancora il Mai, l’accordo multilaterale sugli investimenti. E’ una strada
che può portare lontano, se le forze politiche e sindacali decidessero di
“scendere in campo” e ascoltare i movimenti. Un più largo fronte sociale
e politico, ad esempio in Europa, che chieda la Tobin tax, il bando ai
cibi transgenici e nuove norme sui brevetti farmaceutici potrebbe
ragionevolmente riuscire a cambiare queste regole globali. Ma quali sono
i governi “illuminati”? Forse quello francese, presente con sei ministri
a Porto Alegre, se il socialista Jospin vincerà le elezioni
presidenziali di primavera, magari la Svezia. Ma il resto della
socialdemocrazia europea ha preso la strada neo-liberista di Blair e
Schroeder o ha perso le elezioni (e forse le ha perse proprio per questa
ragione).
Che succede allora se l’Europa si chiude nella fortezza dell’Euro, se il
sindacato e la sinistra restano chiusi in casa? Il secondo percorso
visibile a Poro Alegre non si fa illusioni sulle possibilità di
convergenza, si rassegna a una distanza incolmabile tra movimenti e
politica istituzionale, e punta a una radicalizzazione delle richieste e
a lotte di resistenza. E’ già successo sul debito, con Jubilee
South, forte soprattutto in Africa, che dichiara l’illegittimità del
debito e ne chiede la cancellazione totale, senza aspettare
condizionalità e arbitrati, mentre la precedente campagna, Jubilee
2000, basata a Londra, aveva posto il problema del debito in modo più
morbido, convincendo quasi tutti, il papa, le rockstar e perfino il
parlamento italiano che ha votato una legge relativamente avanzata. Ma i
creditori del nord del mondo non si sono fatti commuovere, e per molti
paesi indebitati non è cambiato quasi nulla.
La stessa radicalizzazione riguarda ora la discussione sul futuro degli
organismi sovranazionali. A Porto Alegre c’erano seminari su “Fare a
pezzi le istituzioni internazionali”, si parla di sostituire il Fondo
monetario con Fondi regionali, di trasformare la Banca mondiale in un
centro studi, di “shrink or sink” (ridimensionare o affondare)
l’Omc. E, naturalmente, tutti considerano il G8 un morto che cammina,
costretto a nascondersi quest’anno sulle montagne canadesi.
Sulla strada della radicalizzazione potrebbero aprirsi divisioni e
strategie divergenti in un movimento che a Porto Alegre ha saputo invece
lavorare insieme accettando le proprie differenze. C’è qui un po’ di
nostalgia (alla francese) per un più forte ruolo degli stati nazionali e
c’è un po’ di romanticismo (all’americana) sull’autogoverno delle
comunità locali. C’è un po’ di sottovalutazione della complessità dei
problemi globali (se avessimo la Tobin tax, dovremmo comunque avere un
organismo sovranazionale che la amministrasse), e c’è soprattutto
l’esperienza di un modello in cui tra lo strapotere dei pesci grossi e i
cittadini non ci sono mediazioni. Quindi non restano che strategie di
resistenza, e la più importante in piedi dall’Alaska alla Terra del
Fuoco è l’opposizione all’Alca, l’area di libero commercio delle Americhe
voluta dagli Usa, oppure strategie di testimonianza, basate
su comportamenti individuali, boicottaggi di prodotti, manifestazioni di
dissenso.
Quello che manca in questo percorso - l’assenza della politica - è
proprio quello che a Porto Alegre trasmetteva più ottimismo: sentire il
forte legame (anche se tutt’altro che pacifico) tra movimenti, un
sindacato come la Cut, il Partito dei lavoratori (Pt) e il resto della
sinistra brasiliana, i governi dello stato e della città amministrati dal
Pt. E sentire i cori da stadio che accoglievano ovunque Lula, il
candidato del Pt alle elezioni presidenziali dell’autunno prossimo in
Brasile.
Il terzo percorso avviato a Porto Alegre è il rafforzamento
dell’organizzazione dei movimenti globali. Il consiglio internazionale
del Forum Sociale Mondiale ha retto la preparazione dell’appuntamento
brasiliano e ha ora un ruolo essenziale per il coordinamento dei Forum
continentali quello europeo sarà in Italia, probabilmente a Firenze
nel novembre prossimo e per gestire un’agenda fittissima di
appuntamenti e iniziative internazionali. Le occasioni di incontro della
società civile globale si moltiplicano. Una “Rete europea per la pace e i
diritti umani” si è incontrata a Nottingham alla Bertrand Russell Peace
Foundation negli stessi giorni di Porto Alegre. Il 6 aprile prossimo si
incontra a Sarajevo la rete “L’Europa dal basso”, promossa dal Consorzio
italiano di solidarietà con una folta presenza di tutta l’Europa
centro-orientale (si veda:
www.ics.org).
Per il 2004 si prepara a Barcellona il Forum mondiale delle reti di
società civile (si veda:
www.ubuntu.upc.es).
I movimenti globali sono entrati insomma in una fase costituente, non per
trasformarsi in partiti, ma certo per trasformare la politica. Ripartendo
dalla democrazia, disegnata questa volta a scala del pianeta. Ma, come
diceva Walden Bello a Porto Alegre, “la democrazia mondiale è pericolosa:
se ci fosse, la prima cosa che si farebbe è tassare i ricchi per
trasferire risorse ai poveri”. Forse è per questo che dalle capitali
occidentali arrivano risposte così preoccupanti. Da Washington si
annuncia il rifiuto sistematico di accettare e rispettare gli accordi e i
trattati internazionali: da quello di Kyoto sulle emissioni inquinanti,
ai trattati di disarmo, dal tribunale penale internazionale ai paradisi
fiscali: in tutto sono una ventina i casi in cui il governo Bush si
comporta da fuorilegge. Da Roma si annuncia, nientemeno, che la polizia
ha l’ordine di sparare su chi protesta.
Mario Pianta
Universita' di Urbino e
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