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Dossier Savoia su "Diario"
A volte ritornano (da Diario)
Tornerà a casa Vittorio Emanuele (Alberto Carlo Teodoro Umberto Bonifacio
Amedeo Damiano Bernardino Gennaro Maria, Duca di Savoia, Principe di Napoli,
Grande Maestro Supremo dell'Ordine dell'Annunziata, Grande Maestro degli
Ordini di San Maurizio e Lazzaro e qualche pagina di altri titoli). Ma negli
affari (sotterranei) del paese è già entrato, anzi non ne è mai uscito.
Profilo di un ex playboy diventato faccendiere internazionale «per
ricostruire il patrimonio di famiglia».
di Gianni Barbacetto
MILANO. È stato erede bambino di una casata senza regno, poi playboy non
brillantissimo e amante di fuoriserie (con attitudine a uscire di strada),
poi ancora imputato d'omicidio con ai polsi le manette della Gendarmerie.
Ora è pretendente, se non proprio al trono, almeno a un passaporto italiano.
Con coro di consensi, a destra e a sinistra.
Si chiama Vittorio Emanuele Savoia, ma lui preferisce di Savoia. Il suo
rientro in Italia è un tormentone, un problema che periodicamente ritorna
d'attualità - come se il Paese non avesse altri problemi. Ogni volta si
torna a parlare (anche se sempre più flebilmente) degli impedimenti a questo
ritorno: della norma transitoria della Costituzione; o della non brillante
storia di una dinastia che ha consegnato l'Italia al fascismo, che ha
accettato le infami leggi razziali, che dopo l'8 settembre ha tagliato la
corda lasciando il Paese al suo destino...
I pochi oppositori rimasti continuano a ricordare il passato remoto di una
brutta storia. A questo, vorremmo aggiungere il sempre meno ricordato
passato prossimo, molto prossimo, del signor Vittorio Emanuele Savoia, uomo
d'affari. In questa veste - che poi è l'unica che ha davvero rivestito -
Vittorio Emanuele in Italia è già rientrato. Anzi, non ne è mai uscito. Fa
parte a pieno titolo della storia recente del Paese: non quella alta, quella
dei suoi avi, ma quella invisibile e sotterranea che ha a che fare con lobby
riservate, logge segrete, aristocrazie occulte impegnate in affari
internazionali sul crinale dell'illegalità.
«Questa grande dinastia, che per secoli ha regnato su Chambery e
dintorni...», ironizzava Carlo Emilio Gadda, ha trovato seppur tardivamente
un uomo capace di compiere grandi imprese (finanziarie), di andare oltre i
confini, di aggirarli anzi, con l'aiuto di qualche società off-shore. Da
giovane, ebbe una carriera scolastica un po' difficile. Ma si preparò con
scrupolo a divenire cultore dello champagne e dei vini pregiati. Allora gli
amici lo chiamavano «Toto la Manivelle» (potremmo tradurlo «Vittorino il
Volantino») per via della sua eccezionale capacità a perdere il controllo
del volante e a uscire di strada, con gran danno per le carrozzerie delle
sue belle auto.
Divenne presto cittadino del mondo. Prese dunque a collezionare conchiglie.
Ma, poiché le fuoriserie non gli bastavano, prese anche il brevetto di
pilota e acquistò un biplano con una testa di tigre disegnata sulla
fusoliera. Infine divenne uomo d'affari: «per ricostruire il patrimonio di
famiglia». Il suo lavoro può essere definito in molti modi aulici. Ma per
capirsi meglio basterà la definizione di mediatore d'affari, piazzista di
lusso, ponte nobile tra grandi imprese occidentali e satrapie orientali,
sempre all'ombra di qualche strana consorteria politico-affaristica. I
quarti di nobiltà di Vittorio Emanuele costituiscono il valore aggiunto,
sono la griffe che garantisce, se non una particolare abilità manageriale,
almeno l'accesso ai personaggi utili, alle lobby giuste.
Così negli anni Settanta il signor Savoia fu preso sotto l'ala dal conte
Corrado Agusta, l'ex marito di Francesca Vacca, allora padrone di una
fabbrica d'elicotteri e mercante internazionale d'armi. Agusta, in verità,
era conte per modo di dire: non per lignaggio, ma per decreto di Mussolini.
Gli era utile avere attorno un nobile vero, un principe di casa reale, amico
o parente o comunque ben introdotto nelle dinastie grandi acquirenti dei
suoi prodotti. Lo Scià di Persia, per esempio: Vittorio Emanuele era suo
amico di famiglia, e in più all'epoca lo Scià Reza Pahlevi corteggiava
Gabriella di Savoia. Insomma, il signor Savoia riuscì a piazzare allo Scià
una quantità di elicotteri e armi, guadagnandosi, come ogni piazzista, le
sue brave provvigioni.
Non tutto però è alla luce del sole, quando si tratta di armi. Il giudice di
Venezia Carlo Mastelloni, per esempio, in una sua indagine sui traffici
internazionali di armi raccolse documenti da cui risultava che Vittorio
Emanuele, insieme al conte Corrado, non si occupava soltanto di merce
regolare da piazzare alla Persia, ma anche di triangolazioni proibite
dall'embargo: centinaia di elicotteri Agusta 205 e Agusta 206, sistemi
d'arma e pezzi di ricambio partivano dall'Italia ufficialmente destinati
all'Iran dello Scià, ma finivano in Giordania o all'Olp; indirizzati alla
Malesia e a Singapore, arrivavano invece a Taiwan o nella Sudafrica
dell'apartaid. Il tutto non senza il beneplacito dei servizi segreti dei
Paesi coinvolti. L'inchiesta del giudice Mastelloni aveva messo sotto
osservazione generali, politici, agenti segreti. Poi approdò alla Procura di
Roma e lì, come consuetudine in quegli anni, si insabbiò.
Traffici internazionali d'armi
Nel giro d'affari era coinvolta, oltre l'Agusta, anche la statunitense Bell,
quella degli elicotteri d'assalto Cobra. Le armi giravano il mondo, Somalia,
Congo, Zaire... A vederci chiaro provò anche un giovane giudice di Trento,
Carlo Palermo, che aveva messo gli occhi su un doppio traffico: armi
dall'Occidente verso Oriente, droga in direzione opposta. Anche Palermo fu
bloccato, e in malo modo, probabilmente proprio perché questi traffici non
si possono fare senza il consenso di poteri molto forti, che per certi
lavori sporchi usano i servizi segreti e che comunque non gradiscono che si
metta il naso nei loro affari e che si portino alla luce i loro traffici,
dove ragioni di Stato si mischiano spesso a ragioni di soldi...
Comunque Vittorio Emanuele era attorniato e ben sostenuto da una compagnia
di personaggi eccellenti, come si conviene nei commerci internazionali
d'armi: faccendieri, politici, militari, uomini dell'intelligence. Tra gli
altri, c'erano il colonnello Massimo Pugliese, fedelissimo di casa Savoia,
già responsabile del centro di controspionaggio di Cagliari; il generale
Giuseppe Santovito detto Bourbon per via dei suoi gusti alcolici, direttore
nientemeno che del Sismi, il servizio segreto militare; l'ex attore Rossano
Brazzi, massone, approdato dal cinema all'entourage di un altro attore che
aveva cambiato mestiere, Ronald Reagan. Una bella compagnia di giro,
variopinta ma potente. I servizi segreti vegliavano sugli affari. Barbe
finte italiane, ma anche i loro padrini della Cia e dalla Nsa, le due
massime agenzie spionistiche americane. Del resto l'amministratore dei beni
di Casa Savoia, l'avvocato Carlo D'Amelio, era presidente del Cmc, una
filiazione della Permindex, che secondo il giudice Palermo era una «creatura
della Cia, istituita per coprire i finanziamenti dei servizi segreti
americani Cia-Fbi in Italia per attività anticomuniste».
Molti dei soci di questa bella compagnia avevano, come si conviene, una
comune appartenenza a un club: la loggia P2 di Licio Gelli, il circolo degli
oltranzisti atlantici italiani. Alla lettera S dell'elenco sequestrato nel
marzo 1981 dai magistrati milanesi Giuliano Turone e Gherardo Colombo nella
ditta di Gelli a Castiglion Fibocchi, si legge: «Savoia Vittorio Emanuele,
casella postale 842, Ginevra». La tessera era la numero 1621. In una delle
cartellette allegate agli elenchi, sempre alla lettera S, accanto a «Sindona
Michele, banchiere», «Stammati Gaetano, ministro», «Santovito Giuseppe» e
tanti altri (Berlusconi Silvio no, era in un altro documento), compare il
nome «Savoia Vittorio, numero 516».
Il principe, si seppe poi, aveva raggiunto il terzo grado della gerarchia
massonica, quello di Maestro, e oltre alla loggia P2 aveva frequentato un
altro esclusivo club massonico: la superloggia di Montecarlo. Almeno secondo
quanto testimonia nell'ottobre 1987 Nara Lazzerini, amica molto intima di
Gelli: «Licio mi disse che della loggia facevano parte anche Vittorio
Emanuele di Savoia e il principe Ranieri». Chissà se è vero. Un rapporto del
Sisde (il servizio segreto civile) del 1982 informa comunque che ai vertici
della Loggia di Montecarlo, insieme a Gelli, vi era Enrico Frittoli,
ragioniere, titolare di una società di import-export con sede nel Principato
e «uomo di fiducia del trafficante internazionale d'armi Samuel Cummings,
presidente della Inter Arms di Londra». Il solito cocktail forte di
politica, affari e nobiltà.
Con le logge massoniche internazionali Vittorio Emanuele ebbe a che fare
anche qualche anno dopo, alla fine degli anni Ottanta, quando cadde il Muro
di Berlino e alcuni circoli massonici pensarono bene di progettare il
ritorno sul trono di alcuni monarchi europei. I Paesi su cui puntavano erano
la Romania e l'Ungheria, Paesi da cui il re era stato scacciato dai perfidi
comunisti e in cui, collassato il blocco sovietico, si poteva dunque
approfittare della situazione per tentare un ritorno alla grande. Ma era
stata presa in considerazione anche la possibilità di un ritorno delle
famiglie reali in Italia e in Grecia. I progetti, come al solito,
mischiavano politica e affari: alla fine furono realizzati soltanto questi
ultimi, nelle fragili democrazie dei Paesi ex comunisti.
Ma un rapporto riservato del ministero dell'Interno del 1993 riporta le
dichiarazioni informali di un collaboratore di giustizia il quale racconta
di una riunione avvenuta a Barcellona, con la partecipazione di emissari
delle famiglie Villaverde, Orleans, Leida d'Aragona e Savoia. Anche in
Italia, in fondo, tra il 1992 e il '93 era caduto un Muro: Mani Pulite aveva
fatto crollare il sistema dei partiti di Tangentopoli e per molti mesi
alcune «menti raffinatissime» (come le chiamava Giovanni Falcone) avevano
pensato a come approfittare della situazione. Nel calderone c'era anche
qualcuno che aveva pensato di giocare la carta reale: per esempio il
principe Giovanni Alliata di Montereale, siciliano, massone, piduista,
legato a Cosa Nostra ma anche agli ambienti dell'intelligence Usa e
dell'eversione di destra italiana, che dopo essere passato per più di un
tentato golpe era stato uno dei registi della riunione di Barcellona con le
famiglie reali.
Non se ne fece niente. La storia italiana prese un'altra strada, passando
attraverso i momenti drammatici delle stragi del 1992 di Falcone e
Borsellino e del 1993 a Firenze, Roma e Milano. Vittorio Emanuele di Savoia
si limitò a chiedere, di tanto in tanto, il rientro dei Savoia in Italia:
lui vivo in qualche villa di Napoli o chissà dove, i suoi parenti morti nel
Pantheon di Roma. Finora non se n'è fatto niente. Domani, si vedrà: se
Silvio Berlusconi dovesse vincere le elezioni, forse la comune appartenenza
al club P2 potrà aiutare.
Craxi, Berlusconi, la politica
Già in passato Vittorio Emanuele si era avvicinato a un politico italiano:
Bettino Craxi. Era la fine degli anni Settanta, e lo scenario era quello
dell'isola di Cavallo, in Corsica. Lì passava una parte delle sue lunghe
vacanze Silvano Larini, l'uomo che aveva fatto conoscere Craxi e Berlusconi
e che all'epoca era uno dei cassieri dei conti segreti del segretario
socialista. A Cavallo, anzi Cavallò, territorio francese, andava in vacanza
anche Vittorio Emanuele. Isola esclusiva, lembo di paradiso, pochi gli
ospiti ammessi. Naturale incontrarsi, parlarsi. Larini, bon vivant,
all'inizio frequentava per lo più Marina Doria, la consorte del principe, ma
da cosa nasce cosa. Silvano e Vittorio Emanuele si conoscono e decidono di
fare business insieme: lanciare l'isola come luogo esclusivo di vacanze.
Ancora una volta, Vittorio Emanuele e il suo blasone funzionano come spot
pubblicitario per attirare una selezionata folla di nuovi ricchi e consumati
tangentomani a caccia di patenti per entrare nel jet set.
Peccato che un colpo di fucile, nell'agosto 1987, rovini tutto: durante un
litigio ad alto tasso alcolico con il playboy Nicky Pende, a Vittorio
Emanuele scappa uno sparo nella notte e a farne le spese è un giovane
velista tedesco, Dick Hammer, che dormiva tranquillo nella sua barca. Il
processo in Francia mandò libero il principe (sola condanna: sei mesi con la
condizionale per porto abusivo d'arma), con qualche protesta dell'opinione
pubblica e l'indignazione dei parenti del ragazzo morto.
L'affare di Cavallo ne risentì, ma intanto Vittorio Emanuele era entrato,
grazie a Larini, nel nuovo giro. Affari e politica, sempre, ma questa volta
all'ombra di Craxi. L'industria italiana delle armi, del resto, era finita
nell'orbita socialista; l'Agusta, per esempio, era passata dal conte Corrado
alle Partecipazioni statali, sotto la guida di un manager craxiano doc,
Roberto D'Alessandro. Quante intermediazioni, quanti miliardi sono arrivati
sui conti riservati all'estero di Corrado Agusto e del signor Savoia! Su
Craxi, Vittorio Emanuele rilasciò ai giornali italiani dichiarazioni
entusiastiche, che potrebbero sembrare stupefacenti in bocca a un monarchico
per obbligo di nascita. Poi, passata l'epoca del craxismo, l'ammirazione la
trasferì direttamente a Silvio Berlusconi: «È un buon manager, può rimettere
ordine nell'economia italiana», disse ai cronisti nel 1994. Come? Per
esempio cancellando quel «disastro» che è «lo Statuto dei lavoratori, con il
divieto di licenziamento». Apprezzamenti naturali, tra compagni di loggia.
Ma con un finale obbligato per il principe: «Io? Non faccio politica».
A Ginevra c'è ancora chi favoleggia di una cena a tre al Richmond Hotel, con
Vittorio Emanuele, Silvano Larini e il banchiere Chicchi Pacini Battaglia,
altro cassiere delle tengenti socialiste. Era l'inizio della lunga latitanza
di Larini, che prima di sparire per molti mesi lontano dai magistrati di
Mani Pulite - racconta la leggenda - volle vedere i due amici per salutarli
e forse, chissà, per chiarire qualche delicata procedura d'affari e di
conti. Il principe, comunque, nel maggio 1992 dichiarò al Giornale: «Peccato
che ci sia tanta corruzione, la storia delle tangenti, delle bustarelle... è
disonorevole». Il manager Vittorio Emanuele di Savoia tentò parecchi affari.
E proprio per conto di aziende di quello Stato in cui non può entrare. Fece
intermediazioni per Italimpianti e Condotte, entrambe aziende Iri. Il metodo
di quegli affari, in piena Tangentopoli, è conosciuto: un fiume di miliardi
esce dalle casse dello Stato, va a finanziare opere e imprese spesso
inutili, e infine torna in parte nelle casse dei partiti e nei conti
all'estero dei loro leader, attraverso l'intermediazione di personaggi
compiacenti. Questo in generale, s'intende; sui comportamenti finanziari del
principe in particolare, niente d'irregolare è emerso. Del resto, il signor
Savoia è un italiano speciale, è l'unico italiano off-shore.
Dunque questo manager particolare operò all'estero, all'ombra della
Partecipazioni statali. Ebbe un ruolo, per esempio, negli affari realizzati
a Bandar Abbas, in Iran: lì gli italiani buttarono parecchi soldi (pubblici)
per costruire un'acciaieria (Italimpianti) e un porto (Condotte). Fu un
disastro industriale. Ma fece girare molti miliardi. Tanto che alla fine
scoppiò un litigio durissimo (per questioni di soldi) tra l'erede Savoia e
un armatore genovese, Enrico De Franceschini. Qualche giornalista andò a
curiosare nel fiume di dollari e tangenti che scorgò da quella campagna
d'Iran e alle Bahamas scoprì una strana società coinvolta, la Financial. Non
si riuscì a saperne molto, ma circolò l'indiscrezione che fosse controllata
dal Savoia.
Vero? Falso? Il principe non si abbassa a parlare di questi particolari
materiali. Quanto ai banchieri, in genere sono riservati, quelli delle
Bahamas poi sono blindati. In Iran il principe tentò anche un altro
business, più soft: un'impresa editoriale, in società con altri amici del
suo club, Angelo Rizzoli e Bruno Tassan Din, compagni di lista P2. La
Rizzoli, allora, era nelle mani del banchiere Roberto Calvi (altro socio di
loggia), che finì male: rovinato dalla bancarotta, inseguito da creditori
molto molto esigenti, infine appeso sotto un ponte di Londra. Così anche
quel lavoro iniziato in Iran andò buttato. Del resto, l'amico Scià fu
cacciato da Komeini e le porte del Paese furono sbarrate.
Ma Vittorio Emanuele non è tipo da scoraggiarsi per qualche fallimento.
Primo, perché dai fallimenti all'italiana un po' di soldi restano comunque
attaccati. Secondo, perché, chiusa l'avventura persiana, la sua compagnia si
ricicla in altri Paese del Vicino Oriente, Egitto, Giurdania, Israele. Re
Hussein di Giordania è suo amico, naturalmente; ma il principe considera
suoi amici anche l'ex presidente egiziano Sadat, poi ucciso, e il dittatore
iracheno Saddam Hussein, e anche il presidente palestinese Yasser Arafat.
Nel 1995 si recò in Iraq dicendo di rappresentare aziende italiane: «Ma no,
niente elicotteri, niente armi», rassicurò in un'intervista, «tecnologia
agricola, invece, trattori, strumentazione. Superato l'embargo, l'Iraq di
Saddam tornerà benestante e competitivo». La missione terminò con una
salmonellosi e la febbre a quaranta. Ad Arafat e «agli amici israeliani» nel
1997 propose la costruzione di un ponte autostradale e ferroviario tra
Gerico e Gaza, con la speranza di attirare investimenti del Fondo monetario
e della Banca mondiale. Per ora non se n'è fatto niente.
Non andò bene neppure il progetto di sfruttamento turistico di Manoel
Island, un'isoletta davanti a Malta. Narra la leggenda che alla fine degli
anni Ottanta, durante le vacanze invernali passate a Gstaad, il principe,
attorniato come sempre da qualche faccendiere a caccia d'affari, mise a
punto un piano per realizzare nell'isoletta un porto turistico, 400 ville
extralusso, due alberghi, un campo da golf, un casinò. Investimenti per 200
miliardi dell'epoca. Anche stavolta non se ne fece nulla. Anzi, tutto finì
con una causa davanti ai giudici maltesi, perché il socio locale del
principe, il giovane avvocato Mark Micalleff, gli chiese un ricco
risarcimento per una complicatissima vicenda di patti non rispettati.
L'unico ricordo regale che restò a Micalleff, alla fine della vicenda, fu
una monarchica, sobria, sintetica scritta sul frigorifero di casa, vergata
con un pennarello dalla mano di Vittorio Emanuele, durante una cena in cui
cucinò agnello al vino rosso e uova strapazzate: «Viva Io».
Degli affari in Italia del principe, invece, si sa poco. Alla fine degli
anni Settanta comprò il 30 per cento di un'azienda laziale, la Industrial
Habitat, che produceva villette prefabbricate e godeva degli aiuti della
Cassa per il Mezzogiorno. Niente di più. Trasparenza zero: degli affari
Savoia si riesce a sapere qualcosa soltanto quando qualche socio si sente
fregato o dai rari documenti giudiziari di qualche magistrato coraggioso.
Tornerà in Italia, il principe-manager? Anche a sinistra qualcuno ha
cominciato da tempo ad allargargli le braccia. In passato Vittorio Emanuele
è riuscito a piazzare dichiarazioni vergognose, come quella sulle leggi
razziali firmate da suo nonno nel 1938: «No, io per quelle leggi non devo
chiedere scusa, e poi non sono così terribili», disse al Tg2 il 1 maggio
1997. Tra le mille gaffes del suo inesauribile repertorio, il signor Savoia
è riuscito ultimamente a pronunciare anche qualche frase non
controproducente, come quelle della lettera a Carlo Azeglio Ciampi,
«presidente di tutti noi italiani», dopo i funerali di Maria José, la regina
antifascista. Basterà? Qualcuno continuerà forse a chiedergli conto degli
errori storici della dinastia. Nessuno gli ha mai chiesto nulla sulla sua
poco edificante storia personale.