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il mappamondo delle società civili




Articolo per Linus, 17 novembre 2001


Il mappamondo delle società civili

di Mario Pianta


Nel giro di un mese dagli attacchi terroristici dell'11 settembre, prima 
ancora che la guerra americana in Afghanistan si scatenasse, ci sono state 
nel mondo oltre 500 manifestazioni pacifiste, con oltre un milione di 
persone che vi hanno partecipato. O meglio, queste sono quelle segnalate, 
soprattutto nei paesi occidentali, da uno dei siti americani contro la 
guerra (http://lists.riseup.net/www/info/peacenowar). Ad esempio, il 21 
settembre c'è stato un migliaio di manifestanti ad Adelaide (Australia), 
Barcellona, Berlino, Budapest, Denver, Glasgow e un piccolo gruppo a Tel 
Aviv. Il 10 ottobre 2000 manifestanti a Bandung (Java, Indonesia), 3000 a 
Berlino, 20 mila al Cairo, 300 a Bahia (Brasile).
L'elenco è infinito come la varietà delle forme di protesta, cresciute di 
continuo fino al ridimensionarsi del conflitto dopo la fuga dei talebani da 
Kabul. E' un insieme eterogeneo, con scarso coordinamento internazionale, 
se non gli scambi di materiali, analisi e proposte, facilitati da internet, 
senza un impegno formale di grandi associazioni internazionali capaci di 
rilanciare mobilitazioni da un paese all'altro. E' una fioritura spontanea, 
radicata nelle culture politiche nazionali (con tutte le ambiguità che a 
volte possono esprimere), ma è anche il terreno su cui si sono riversate 
molte energie dei nuovi movimenti globali che chiedono democrazia e 
giustizia. Non è stato facile, all'inizio, soprattutto negli Usa, nel 
trovare una risposta politica all'impossibile alternativa "o con Bush o con 
i terroristi" dettata dai governi e amplificata ossessivamente dal coro di 
tutti i grandi media. Ma è maturata poi una consapevolezza di quanto sia 
inaccettabile la strada della guerra, di un ordine mondiale fondato sui 
bombardamenti, in cui drammatiche disuguaglianze sono perpetuate dalla 
potenza militare occidentale. E, a casa nostra, abbiamo visto il prezzo che 
la militarizzazione fa pagare alla società (più spese militari, meno spesa 
sociale), ai diritti civili (internamenti senza ragione negli Stati Uniti), 
alla democrazia (parlamenti blindati in Italia e Germania).
Si sono moltiplicate e riempite così le piazze della protesta in tutto il 
mondo,  perfino i sondaggi mostravano in Europa la ritrosia a scivolare sul 
piano inclinato della guerra, e questa resistenza ha aperto brecce anche 
nelle posizioni politiche ufficiali, con la richiesta di una cessazione dei 
bombardamenti per il ramadan, e il sollievo generale per la rapida fine del 
regime talebano (che non è la stessa cosa della fine della guerra, e 
tantomeno dell'arrivo della pace a Kabul). Non appena l'Alleanza del nord 
ha preso il potere a Kabul, si sono aperte invece le crepe nell'"alleanza 
mondiale contro il terrorismo": Usa, Russia, Pakistan, Iran e paesi arabi 
sono tornati a danzare i minuetti della realpolitik e a pensare a come 
imporre i propri interessi a un Afghanistan in ginocchio.
Perché il pacifismo, perfino negli Stati Uniti, non è stato schiacchiato 
dalla terribile macchina della guerra? Il Financial Times, in un'importante 
inchiesta sui movimenti "anticapitalistici" che si concludeva il 10 ottobre 
scorso, preannunciava che la guerra avrebbe indebolito, diviso e disperso 
la protesta. Invece la saldatura tra movimenti globali e pacifismo c'è 
stata. Come è sucesso?
Una delle risposte la troviamo in un volume fresco di stampa, Global Civil 
Society 2001, la prima edizione di un annuario che fotografa le azioni dei 
movimenti e le caratteristiche della societaà civile che attraversano i 
confini degli stati. Il lavoro, a cura di Helmut Anheier, Marlies Glasius e 
Mary Kaldor, della London School of Economics (pubbblicato dalla Oxford 
University Press e interamente disponibile all'indirizzo: 
www.lse.ac.uk/Depts/global/Yearbook/outline.htm) fa il punto sui concetti 
di società civile, sulle posizioni che esprime sui problemi della 
globalizzazione e dei controvertici, delle biotecnologie e di internet, 
degli interventi umanitari e delle forme di autofinanziamento.
Le parole sono importanti, e parlare di società civile globale è qualcosa 
che fa balzare sulla sedia politologi e politici, e può far arricciare il 
naso anche alle associazioni. E poi cos'è la società civile? Noi diremmo 
l'insieme delle forme di auto-organizzazione collettiva al di fuori delle 
reti familiari che sono autonome dallo stato e fuori dalle logiche del 
mercato. Ispirati in qualche modo dal lavoro di Antonio Gramsci, gli 
affibiamo in genere una connotazione progressiva, quasi un sinonimo di 
movimenti sociali di trasformazione: la società civile buona contro la 
politica (o l'economia) cattiva.
Per gli anglosassoni il concetto è un po' diverso, spesso prevale la 
contrapposizione tra stato e società civile, che finisce per accogliere nel 
suo seno anche imprese e mercati, conducendo alla scomoda convivenza delle 
multinazionali e dei loro boicottatori nella stessa categoria teorica. Ma 
anche nella pratica, in quesi paesi pesano molto le iniziative sociali che 
costruiscono il consenso più che alimentare il dissenso, e la connotazione 
progressiva di società civile è assai meno marcata.
Quando ci si concentra poi sulle attività internazionali, la discussione si 
fa ancora più aperta (e interessante): esiste una dimensione globale di 
queste relazioni sociali? Dalla metà del 1800, data di nascita della 
Società contro la Schiavitù e della Croce Rossa internazionale, esistono 
Organizzazioni internazionali non governative (Oing). Dalla Conferenza per 
la pace dell'Aia del 1899 ci sono controvertici con centinaia o migliaia di 
rappresentanti della società civile di diversi paesi che affiancano gli 
incontri dei governi. Ci sono state le Internazionali del movimento 
operaio, socialista e comunista, le associazioni internazionali dei 
sindacati. C'è stata nel dopoguerra la crescita di associazioni e movimenti 
di solidarietà internazionale, per l'ambiente e le varie ondate del 
pacifismo. Dagli anni '90 il moltiplicarsi delle conferenze delle Nazioni 
Unite - sull'ambiente, le donne, lo sviluppo sociale - ha prodotto 
l'incontro di migliaia di organizzazioni che hanno lasciato il segno sui 
contenuti e le forme del dibattito sui problemi globali. E due anni fa 
esatti c'è stato Seattle, e da allora la società civile globale è ogni 
giorno sui giornali. Fino alla resistenza alla guerra delle settimane 
scorse, appunto.
E' proprio l'affermarsi della società civile globale che può spiegare la 
tenace ed estesa risposta pacifista alla guerra in Afghanistan. Senza 
sottovalutare le differenze e le divisioni che segnano la società civile 
globale, ci sono elementi comuni di qualità e quantità che vanno 
sottolineati. I primi sono legati alla maggior densità delle relazioni 
sociali attraverso le frontiere. Sono più intense le comunicazioni tra 
gruppi locali, senza la necessaria mediazioni di grandi organizzazioni 
politiche o sociali. Allo stesso tempo associazioni e movimenti ai quattro 
angoli del pianeta si ritrovano in misura crescente intorno a valori 
condivisi - la pace, i diritti umani, l'ambiente, la giustizia economica e 
sociale, la democrazia - che vengono praticati "dal basso" spesso senza le 
mediazioni della politica nazionale. Queste pratiche hanno via via svuotato 
l'idea di una sovranità esclusiva degli stati e hanno affermato invece il 
diritto-dovere della comunità internazionale di assicurarare la tutela dei 
diritti umani ovunque siano violati.
Alla questione degli "interventi umanitari" è dedicato il capitolo del 
Global Civil Society 2001 scritto da Mary Kaldor (di cui è tradotto in 
italiano il libro Le nuove guerre, Carocci, 1999). Di fronte ai conflitti 
in corso è sempre più condivisa l'esigenza di inviare forze di 
interposizione, di peacekeeping e, a volte, di polizia internazionale. Ma 
le divisioni restano profonde, anche dentro la società civile, su chi debba 
controllare e svolgere questi compiti: le Nazioni Unite e la comunità 
internazionale oppure gli stati più potenti, Usa e Nato in testa, 
confondendo gli obettivi umanitari con le logiche di potenza occidentale?
Mary Kaldor ricostruisce l'emergere, ai tempi delle guerre dei Balcani e 
dell'intervento Nato e italiano in Kosovo, di un modello di "imposizione 
dei diritti umani" con gli strumenti militari degli stati, ma la guerra in 
Afghanistan (e prima ancora gli occhi chiusi dell'occidente sulla 
repressione russa in Cecenia) sembra aver fatto passare in secondo piano le 
giustificazioni umanitarie. In parallelo si è sviluppata invece l'azione di 
un "pacifismo umanitario" che va nei luoghi di conflitto e porta - il 
Consorzio italiano di solidarietà nei Balcani, Emergency in Afghanistam - 
aiuti alle vittime e la possibilità di ricostruire relazioni sociali e di 
tutelare i diritti.
La discussione oggi riguarda soprattutto le forme di questa tutela. Servono 
strumenti nuovi, separati dal potere degli stati, come il progetto di Corte 
penale internazionale (avversata dagli Stati Uniti) che permetterebbe ad 
esempio di processare i Pinochet di tutto il mondo e i responsabili degli 
attentati dell'11 settembre negli Usa.
Quanto agli aspetti quantitativi, uno dei pregi del Global Civil Society 
2001è la mole di tabelle che accompagna il testo, descrivendo crescita e 
attività delle società civili.
Considerando solo le Organizzazioni internazionali non governative (Oing) - 
quelle più solide e istituzionalizzate - troviamo che il loro numero nel 
mondo è passato dalle 10 mila del 1990, alle 13 mila del 2000 (in Italia 
hanno sede 420 organizzazioni, contro le 310 di dieci anni fa) mentre le 
associazioni o i gruppi che vi aderiscono nei diversi paesi sono balzati da 
148 mila nel 1990 a 255 mila nel 2000.
Sono presentati poi i risultati di un'indagine, la World values survey, che 
analizza valori e partecipazione sociale in una sessantina di paesi (per lo 
più  a medio o alto sviluppo). La percentuale di persone che aderiscono ad 
associazioni nel 2000 è cresciuta ovunque rispetto al 1990-93. Nel 
complesso, il il 5,5% dei rispondenti è membro di associazioni 
ambientaliste, il 3,5% di gruppi di azione locali, il 3,2% di gruppi per i 
diritti umani o di solidarietà con il Terzo  mondo, l'1,1% di gruppi 
pacifisti. Tutti (pacifisti esclusi) sono in netto aumento rispetto a dieci 
anni prima. Grosso modo la metà di queste percentuali nel 2000 fa 
volontariato nelle stesse associazioni, anche qui con aumenti generali 
rispetto all'impegno di dieci anni prima.
Pensate all'Italia come la patria dei pacifisti e agli Stati Uniti come 
baluardo dei marines? I numeri raccontano una storia diversa. Gli americani 
aderiscono ad associazioni per la pace quattro volte più della media 
internazionale, mentre l'Italia è poco oltre la media, ed è abbondamente 
sotto negli altri settori. Quando guardiamo all'impegno nel volontariato, 
l'Italia è vicina ai valori internazionali, ma gli Stati Uniti hanno ancora 
una volta una percentuale doppia di attivisti in tutti i settori.
Qual è la disponibilità a fare politica? Nell'insieme dei paesi, nel 2000, 
il 37% dei rispondenti è disposta a firmare una petizione, il 18% a 
partecipare a una manifestazione (legale), il 9% a unirsi a un 
boicottaggio, il 5,4% a scioperare. Resta vero che in Italia si manifesta 
il doppio che negli altri paesi (il 35% è disposto a parteciparvi), il 55% 
firmerebbe petizioni e il 10% farebbe boicottaggi, tutti dati simili a 
quelli europei. Chi pensava invece all'Italia come al paese degli scioperi 
si deve ricredere: sia il nostro paese che gli Stati Uniti hanno risultati 
uguali alla media internazionale (in lieve calo sul passato).
I valori complessivi sono in lieve calo, ma nascondono alcune sorprese, i 
primi segni delle fiammate di nuovo attivismo. Tra il 1990-93 e il 2000 in 
Francia tutti i valori hanno un balzo, gli Stati Uniti hanno l'80% pronti a 
firmare petizioni e uno su quattro pronto a boicottaggio (ma solo uno su 
cinque pronto a manifestare) con salti fortissimi rispetto a dieci anni 
prima. E bisogna ancora contare gli ultimi dodici frenetici mesi deei 
movimenti globali.

Mario Pianta
Universita' di Urbino e
ISRDS-CNR, Via De Lollis 12, 00185 Roma, Italy
tel. (39) 06 44879207, fax 06 4463836, e-mail pianta@isrds.rm.cnr.it