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PC: METTERE LE MANI SULLA LIBERTA' (Intervista a MassimoCacciari) - L'avversario di Ignacio Ramonet - INTERVISTA AD ALAIN DEBENOIST
- To: pck-pcknews@peacelink.it
- Subject: PC: METTERE LE MANI SULLA LIBERTA' (Intervista a MassimoCacciari) - L'avversario di Ignacio Ramonet - INTERVISTA AD ALAIN DEBENOIST
- From: "Arianna Editrice" <arianed@tin.it>
- Date: Mon, 29 Oct 2001 18:15:50 +0100
METTERE LE MANI SULLA LIBERTA'
(Intervista a Massimo Cacciari)
Duemilauno. Politica e futuro (Feltrinelli, 2001) è un libro nel
quale Massimo Cacciari, a colloquio con Gianfranco Bettin, ragiona sulla
crisi del nostro tempo e sui grandi problemi d'identità e di azione
politica che sfidano oggi la ricollocazione dell'"homo democraticus". La
globalizzazione, la sicurezza, il multiculturalismo, l'innovazione
tecnologica, il lavoro, i partiti, la Rete, diventano occasione per una
riflessione disincantata ma non pessimista.
Professor Cacciari, la drammatizzazione della realtà in questi giorni
pare segnare davvero una sconfitta della politica, forse anche l'annuncio
di una sua fine.
No, certamente non la fine. Piuttosto, la detronizzazione della politica.
Ma nelle società democratiche la "detronizzazione" comporta il
rischio di un'asfissia della democrazia.
Sì, ma questo processo mi pare che vada definito come un declino del
Politico verso una prepotente supremazia del Tecnico e dell'Economico. Però
starei ben attento a credere che la depoliticizzazione della società e
delle sue norme sia un prodotto dell'avvento digitale e di Internet. La
visione di un tramonto della politica - o della sua "inutilità - è
essenzialmente politica, e fa comunque parte di una corrente del pensiero
europeo che si esprime compiutamente già all'inizio dell'Ottocento,
nell'ambito della elaborazione del pensiero liberale.
Però quel processo avviene ora in un contesto che ne modifica,
inevitabilmente, la natura e soprattutto l'identità ideologica.
L'ipotesi della depoliticizzazione è sorretta da una precisa volontà
politica. Vorrei dire che far passare l'immagine dello Stato come macchina
organizzativo-burocratica, declassando la politica al ruolo di una
amministrazione ("efficienza, nell'interesse del cittadino"), è il
messaggio più forte che viene comunicato da questa volontà.
Quindi non più conflitti, ma l'armonizzazione efficientista
all'interno di un "pensiero unico".
Parlavo, infatti, della nuova supremazia del Tecnico e
dell'Economico. Scientificizzazione e burocratizzazione riducono. fino ad
annullarlo, lo spazio della politica. E se i grandi drammi del secolo
scorso avevano ridato spazio e qualità al confronto, al conflitto
ideologico, alla contrapposizione schmittiana amico/nemico, dopo l'89
questo spazio si chiude. Non è che la storia finisca, come dice invece
Fukuyama; la storia piuttosto celebra un vinto e un vincitore.
E in questo spazio ridotto, prevale una nuova identità dello Stato.
Prevale una concezione che subordina la politica, spoliticizzandola,
alle infinite meraviglie che offre la tecnologia. La depoliticizzazione è
immanente all'idea stessa dello Stato contemporaneo, il cui fine è la
costituzione di una struttura tecno-burocratico-razionale dove i cittadini
siano isolati - chiusi ciascuno nel proprio "particolare" - e tutti i corpi
intermedi siano soltanto organizzazioni sindacali d'interesse o strutture
che non disturbino l'efficienza produttiva dello Stato.
Siamo già avanti, su questo percorso?
Si insedia una forma di capitalismo autopropulsivo che trova la
propria legittimazione nell'aderenza alla "scientificità" della tecnica, e
che, però, si manifesta refrattario a qualsiasi sorta di governo, o di
controllo. Ma questo non vuol dire affatto che la politica abbia esaurito
le proprie possibilità, occorre saper esprimere una dialettica nuova, una
nuova cultura.
Quale?
Un'idea della politica nella quale, come dice Machiavelli, "il popolo
torni a metter le mani sulla sua libertà". C'è una crisi evidente del
modello liberista puro, per quanto oggi sia il vincitore; bisogna lavorare
a creare uno spazio nuovo, corretto, del federalismo, recuperando la
tradizione di Montesquieu, Tommasea, Cattaneo.
Ma federalismo e globalizzazione, come combinarli?
Le grandi culture, le grandi civiltà, non possono essere
antiglobaliste, sono globaliste per vocazione. Una battaglia antiglobalista
è stupida, perdente. Ma una globalità senza polarità al proprio interno non
è un globo, è un piatto deserto.
I poli. Ritorna dunque il concetto del confronto, del conflitto.
Questo non è un problema astratto, la demonizzazione del confronto è
patrimonio soltanto dei pasdaran del liberismo. Sono evidenti - anche nei
fatti tragici della realtà d'oggi - le reazioni che vengono da tutte le
culture, che si oppongono al linguaggio unico segnato dal dominio di una
visione autoreferenziale dello Stato, come se questo fosse un'entità
astratta, asettica, e non l'espressione di valori, idee, scelte.Quello che
prevale oggi non è la globalizzazione, è l'omologazione.
Eppure la Rete sembra poter affermare la cultura della diversità,
della differenziazione.
La Rete esprime simbolicamente le contraddizioni della
globalizzazione. Da una parte, è strumento per la comunicazione
d'informazioni (e questa è la sua valenza orizzontale, quantitativa), ma
dall'altra manifesta le più ampie potenzialità di liberazione individuale.
Potenzialità che, però, sembrano ancora tutte da sviluppare.
In questa prima fase, la Rete sta globalizzando la subordinazione di
massa, risucchia l'interiorità all'interno del lavoro. Lo specchio del
mondo e la fabbrica virtuale sono le due facce di una identità da definire,
occorrerebbe davvero creare un "Manifesto della Rete". Mi pare comunque che
gli effetti di spiazzamento delle nuove tecnologie non siano non si siano
ancora manifestati che in minima parte.
E questo diventa particolarmente pericoloso in un contesto storico
nel quale la forma dello Stato pare fissarsi nel modello di una "democrazia
procedurale".
Per questo, parlo di forme nuove della politica, perfino di un nuovo
lessico. Altrimenti diventa consensuale la forma di una "democrazia senza
cittadini".
Quali sono le forme nuove della politica?
Mi chiederei anzitutto quali possano essere i soggetti di una
politica nuova. E allora io penso, per esempio, all'Europa, ma certo non
nella sua forma attuale di area di sviluppo economico-commerciale. Solo che
dal punto di vista politico, mi pare che la scelta fatta fin'ora sia quella
di un modello che ricalca la storia della formazione degli Stati nazionali:
temo che una simile proposizione non ci porti da nessuna parte. La
democratizzazione come parlamentarizzazione non ha futuro.
Qual'è il modello alternativo?
Esiste, certamente, una cultura europea, ma l'idea di un unico popolo
europeo è fantapolitica. Proporre il progetto di un Parlamento eletto da
tutti i popoli europei mi pare una cosa che non funzioni. L'uscita credo
che si possa trovare soltanto con una rielaborazione del progetto
federalista, da Cattaneo a Spinelli. L'obiettivo dev'essere una vera
Confederazione, come quella elvetica, come la nordamericana.
Crisi della democrazia, del parlamentarismo, ma anche della sinistra.
La sinistra paga drammaticamente la propria incapacità a seguire le
trasformazioni della società, resta tuttora ancorata a forme ed egemonie
che oggi non esprimono più contenuti significativi di realtà. Ci sono nuove
figure sociali che prescindono dal vecchio catalogo e che però non vengono
usate, non sono tutelate (penso ai "Netslaves"), né promosse. Nell'inerzia
della politica, bloccata ancora nelle forme tradizionali e nelle ideologie,
il ritardo della sinistra, che non ha saputo riparare l'erosione della
propria base sociale, è evidente. Non è affatto vero che siamo diventati
tutti capitalisti e grassi borghesi.
E la destra?
Beh, ci sono due destre. C'è quella che ha stravinto, d'impronta
neoliberista, e poi c'è l'altra - sociale, leghista, localista - che però è
stata battuta, sconfitta, perduta nei suoi riferimenti culturali, che non
contano più niente.
Ma, almeno nella politica italiana, manca comunque un terreno comune
di confronto.
Questo è il paese che dalla consociazione è passato alla
dissociazione, che non è capace di elaborare una forma di associazione, un
ethos comune. Soltanto la definizione di un patto comune può consentire lo
sviluppo di una reale competizione. una competizione a tutto campo, come
quella tra patrizi e plebei che fece grande Roma.
Intanto, la destra ha vinto.
Ma è una vittoria di Pirro. La destra cavalca l'onda forte del
neoliberismo, ma si ritrova con tutti i problemi di prospettiva irrisolti.
La crisi della sinistra appare, anch'essa, lontana da una soluzione. Questo
problema, però, non è solo italiano. E non è, poi, che tutti passiamo il
nostro tempo davanti alla tv.
(L'Indice n° 10 - ottobre 2001)
L'avversario
di Ignacio Ramonet
Era l'11 settembre. Distolti dalla loro missione ordinaria da piloti
pronti a tutto, gli aerei si scagliano verso il cuore della grande città
per abbattere i simboli di un sistema politico inviso. Tutto accade in un
lampo: deflagrazioni, facciate che saltano in aria, crolli di edifici in un
fracasso infernale. I superstiti atterriti fuggono coperti di calcinacci e
di polvere.
I media trasmettono la tragedia in diretta…
New York, 2001? No, Santiago del Cile, 11 settembre 1973. Colpo di
stato del generale Pinochet, con la complicità degli Stati Uniti, contro il
socialista Salvator Allende, e bombardamento a tappeto del palazzo
presidenziale, che provoca decine di morti e instaura per quindici anni un
regime di terrore…
Al di là dei legittimi sentimenti di compassione per le vittime
innocenti degli odiosi attentati di New York, come non convenire che gli
Stati Uniti non sono - non più di qualunque altro - un paese innocente? Non
hanno forse partecipato ad azioni politiche violente e spesso clandestine
in America latina, in Africa, in Medioriente, in Asia? Portandosi dietro
una tragica scia di morti, di "desaparecidos", di torturati, incarcerati,
esiliati…
L'atteggiamento dei dirigenti e dei media occidentali, che fanno a
gara nel mostrarsi filoamericani, non può farci dimenticare una crudele
realtà: in tutto il mondo, e in particolare nei paesi del Sud, il
sentimento che più spesso si è sentito esprimere dall'opinione pubblica in
occasione di questi condannabili attentati si può riassumere nella frase:
"E' un fatto tristissimo, certo, ma non è un caso che sia capitato a
loro!"
Per comprendere una reazione del genere forse non è inutile ricordare
che già durante tutto il periodo della "guerra fredda" (1948-1989) gli
Stati Uniti avevano portato avanti una "crociata" contro il comunismo. La
quale ha assunto talora le dimensioni di una guerra di sterminio : migliaia
di comunisti liquidati in Iran, duecentomila oppositori di sinistra
soppressi in Guatemala, quasi un milione di comunisti uccisi in
Indonesia…Le pagine più atroci del libro nero dell'imperialismo americano
sono state scritte nel corso di questi anni, segnati per di più dagli
orrori della guerra del Vietnam (1962-1975).Era, già allora, "il Bene" in
lotta contro "il Male". Ma all'epoca, secondo Washington, sostenere i
terroristi non era necessariamente immorale. Tramite la Cia, gli Stati
Uniti predisposero attentati in luoghi pubblici, dirottamenti di aerei,
sabotaggi e assassini. A Cuba contro il regime di Fidel Castro, in
Nicaragua contro i Sandinisti, in Afghanistan contro i sovietici. Proprio
qui, in Afghanistan, con il sostegno di due stati tutt'altro che
democratici - l'Arabia Saudita e il Pakistan - negli anni '70 Washington
incoraggiò la creazione di brigate islamiste reclutate nel mondo arabo -
musulmano e composte da quelli che i media chiamavano "freedom fighters",
combattenti per la libertà. Come è noto fu in quelle circostanze che la Cia
ingaggiò e formò l'ormai celebre Osama bin Laden.
Dal 1991 gli Stati Uniti si sono insediati nella posizione di unica
iperpotenza, emarginando di fatto le Nazioni Unite. Avevano promesso di
instaurare un "nuovo ordine internazionale" più giusto, nel cui nome hanno
condotto la guerra del Golfo contro l'Iraq. Ma non per questo hanno
receduto da una posizione di scandalosa parzialità a favore d'Israele, a
discapito dei diritti dei palestinesi (si legga Alain Gresh "Israel,
Palestine. Vérités sur conflit" Fayard, Paris 2001).
E per di più, nonostante le proteste internazionali, hanno mantenuto
contro l'Iraq un embargo implacabile che non ha scalfito il regime ma
provoca la morte di migliaia di innocenti. Tutto questo ha lasciato il
segno sull'opinione pubblica del mondo arabo - musulmano, facilitandola
formazione di un terreno di cultura sul quale ha potuto espandersi
l'islamismo antiamericano.
Come il dottor Frankenstein, gli Stati Uniti vedono ora la loro
creatura di un tempo - Osama bin Laden - rivolgerglisi contro con
demenziale violenza. E si apprestano a combatterlo con l'appoggio
dell'Arabia Saudita e del Pakistan, i due stati che in questi ultimi
trent'anni hanno dato il maggior contributo alla diffusione delle reti
islamiste nel mondo inter, talora anche con metodi terroristici!
Gli uomini che circondano il presidente George W. Bush, da veterani
della guerra fredda, non sono certo scontenti di questi sviluppi. Come per
miracolo, grazie agli attentati dell'11 settembre hanno infatti recuperato
un fattore strategico di importanza primaria, del quale il tracollo
dell'Unione sovietica li aveva privati per un decennio: un avversario.
Finalmente! Sotto il nome di terrorismo, questo avversario designato, come
ognuno avrà compreso, è ormai l'islamismo.
A questo punto sono possibili tutti i più temuti sbandamenti.
Compresa una moderna versione del maccartismo, con gli avversari della
globalizzazione come bersaglio. L'anticomunismo vi era piaciuto?
L'anti-islamismo vi entusiasmerà!
(Le Monde diplomatique" n.10 anno VIII ottobre 2001 allegato al
"Manifesto" )
INTERVISTA AD ALAIN DE BENOIST
di Maurizio Cabona
Se l'architettura e l'urbanistica sono francesi nello stile di fine
Ottocento, gli abitanti dell'XI arrondissement sono per lo più asiatici e
africani arrivati a fine Novecento. La fermata della metropolitana
Charonne, a metà di boulevard Voltaire, è entrata nella storia perché
davanti alle sue porte sbarrate, una quarantina d'anni fa, alcuni
manifestanti comunisti anti-Oas, caricati dalla polizia, restarono
soffocati nella calca. E' lì vicino, in questo quartiere popolare, che
lavora uno dei maggiori intellettuali francesi, Alain de Benoist,
collaboratore del "Giornale" e di "Area", autore di una trentina di saggi,
quasi tutti usciti anche in Italia a cominciare dal 1979, quando è
diventato celebre. Allora si definiva "a destra, non di destra". Cioè le
sue idee in quel momento erano a destra, ma non lo erano in passato e forse
non lo sarebbero state in futuro. Attardata sulla trincea coloniale,
travolta dall'ondata sessantottarda, "la droite la plus be^te du monde"
lasciava de Benoist freddo quanto l'estrema destra della nostalgia
vichyssoise. Confondendolo col "nuovo filosofo" Jean-Marie Benoist, c'era
però chi in lui vedeva un ideologo del giscardismo per il suo ruolo nel
settimanale di successo del momento, "Le Figaro Magazine". Pur di dargli
un'etichetta, i giornali rivali scrivevano di lui che, se proprio si
ostinava a non essere un "nuovo filosofo", allora era la Nuova destra. In
persona.
Un quarto di secolo dopo, de Benoist si sente caso mai Nuova
sinistra, adesione relativamente accettata da qualche famiglia di pensiero,
come il Movimento anti-utilitarista nelle scienze sociali (Mauss), non dai
partiti tradizionali. Meno ancora dalla grande stampa, che l'ha
semplicemente epurato. Perché negazionista, come Faurisson? No. Perché
revisionista, come Furet? Nemmeno: più che di storia, de Benoist si occupa
di idee. Che ne abbia qualcuna, razzista, in comune con Le Pen? Figurarsi,
si detestano. Insomma, de Benoist è inclassificabile; dunque è
squalificato. Attonito, l'ammette perfino Jean-François Kahn, direttore del
settimanale di sinistra (ma non radical chic) "Marianne", senza però avere
il coraggio di offrirgli almeno lui una tribuna.
Facendo di necessità virtù, de Benoist ha ridotto l'attività
giornalistica e incrementato quella saggistica. Per gli articoli gli
restano pur sempre le belle riviste che ha fondato: "Nouvelle école" nel
1968, "Eléménts" nel 1973 e "Krisis" nel 1988. E proprio la testata cadetta
è quella che ama di più, perché vi ospita i dibattiti fra esponenti di
varie culture. Accanto a de Benoist, capita di trovare Jean Baudrillard,
Pascal Bruckner, Massimo Cacciari, Jean Clair, Stéphane Courtois, Régis
Debray, Jean-Marie Domenach, Bruno Etienne, Edward Goldsmith, Jean-Joseph
Goux, Gisèle Halimi, Michel Jobert, Jacques Julliard, Alain Lipietz, Michel
Maffesoli, Serge Latouche, Jean-Jacques Pauvert, Clément Rosset e Jacques
Vergès.
De Benoist, vent'anni fa lei ha scritto con Giorgio Locchi "Il male
americano", ma oggi quasi tutti dicono di sentirsi americani. Si sente
solo? "No. La mia posizione coincide con quella di gran parte degli
abitanti del pianeta: non soltanto con quella del mondo musulmano (oltre un
miliardo di persone), ma anche di latinoamericani, asiatici ed europei".
Rudolph Giuliani dice: o con l'America o coi terroristi. Come la
mettiamo? "E' ovvio condannare certi attentati e non occorre sentirsi
americani per avere compassione delle vittime di New York e Washington, che
del resto erano di settantasette nazionalità differenti. Però compassione e
condanna non possono essere a senso unico. La vita dei civili non vale
diversamente negli Stati Uniti, in Iraq, in Serbia, in Palestina o in
Afghanistan".
Dai tg dell'ultimo mese pare di capire che ci sono morti e morti.
"Non per me. Gli Stati Uniti hanno assunto il ruolo di poliziotto
planetario, di 'globocop'. Hanno bombardato i Paesi che ho appena detto,
provocando la morte di molti civili innocenti. In Iraq si valuta che il 5
per cento della popolazione, compresi centinaia di migliaia di bambini,
siano morti per le bombe o per l'embargo. Per gli Stati Uniti, il 5 per
cento della popolazione corrisponderebbe a quattordici milioni di persone".
Che cosa dovrebbe fare l'Europa? "Sentirsi europea. Avere una
politica indipendente. Accordarsi con gli americani quando necessario, non
mettersi però ai loro ordini o agire come ascari. L'errore peggiore sarebbe
andare a un conflitto frontale fra civiltà intese come fossero omogenee,
mentre non lo sono. Politicamente e geopoliticamente l'Islam non esiste più
di quanto esista l'Occidente. Fra gli avversari più decisi, gli islamisti
hanno regimi musulmani e musulmano era Massud, il primo nemico dei
talebani. Allo steso modo, interessi americani ed europei convergono solo
in parte".
Le idee vanno applicate. Chi applica le sue? "Aznar ha detto che la
Spagna non farà la guerra per conto di altri. Anche la Francia è stata
relativamente prudente. E i presidenti dei gruppi del Parlamento europeo
hanno respinto l'ipotesi di una crociata contro l'Islam".
Si è paragonato l'attacco alle Twin Towers del 2001 a quello a Pearl
Harbor del 1941. "Roosevelt sapeva e non ha fatto nulla per impedire
l'attacco giapponese, perché ne aveva bisogno per trascinare l'America in
guerra. Spero che per Bush il parallelo sia ingiustificato. In secondo
luogo, Pearl Harbor (duemilaquattrocento morti americani) è stata vendicata
con le atomiche su Hiroshima e Nagasaki, cioè su centinaia di migliaia di
civili innocenti. Ma il paragone non mi sembra portare lontano. Gli aerei
che hanno attaccato Pearl Harbor venivano da un Paese identificato. Oggi si
tratta di sapere chi ha la parte che allora avevano i giapponesi. Il nemico
non è più chiaramente identificabile. Questa novità segna il passaggio dal
moderno al postmoderno, dall'era degli Stati-nazione al mondo della
comunità e delle reti".
Continui. "Il terrorismo è a immagine delle nuove epidemie (Aids,
mucca pazza), delle reti finanziarie, dei circuiti della droga, dei virus
informatici: si sviluppa sul modello che Baudrillard chiama virale. Non può
essere assegnato a un Paese, un uomo, un'organizzazione. Gli Stati Uniti
possono colpire l'Afghanistan e abbattere l'orribile regime dei talebani,
ma non faranno scomparire il terrorismo, che risorgerà immediatamente
altrove. Certo, possono uccidere Osama Bin Laden: ma ne faranno un martire
che alimenterà la vocazione di centinaia di nuovi kamikaze".
Che fare allora? "La modernità tardiva aveva già visto l'abolizione
di tutte le categorie tradizionali tipiche della guerra classica: il civile
e il militare, il combattente e il non combattente, il fronte e le
retrovie, ecc. Oggi la Figura del Partigiano si rivela nella sua ampiezza.
Le guerre non vengono più dichiarate e, quando tacciono le armi, la pace
diventa un modo di continuare la guerra. (blocco dell'Iraq, processo di
Milosevic all'Aia). Per le rappresaglie, gli Stati Uniti devono poter
colpire in qualsiasi angolo del mondo, azzerando gli ultimi resti di
sovranità nazionale. L'intero pianeta diventa così campo di battaglia.
Perciò non vanno trascurate le conseguenze a lungo termine del dramma
dell'11 settembre. Forse è stato in quel giorno che siamo davvero entrati
nel XXI secolo".
(Da Il Foglio)