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caccia all'arabo negli Usa; spunti per un'educazione all'intercultura nella scuola



"Trattate con rispetto gli arabi di origine americana e i musulmani. Non 
sfogate su di loro la vostra rabbia", aveva detto qualche giorno fa il 
presidente George Bush.
Parole preoccupate, già consapevoli della nuova emergenza. In molti erano 
stati facili profeti, ieri il dramma. Ora ha un nome e un volto anche la 
prima vittima della caccia all'arabo, di quell'insensata corsa alla 
giustizia sommaria che ricorda tanto gli episodi più brutti dell'epopea del 
Far West. E così un altro morto si aggiunge ai tanti, troppi cadaveri di 
quel terrificante martedì. Anche lui è un innocente, anche lui non 
c'entrava nulla. Balbir Singh Sodhi aveva 49 anni, era proprietario di una 
pompa di benzina a Phoenix in Arizona e per tutta la settimana era stato 
minacciato da qualcuno che parlava di vendetta, di giustizia.
Balbir era di religione sikh. Nulla a che vedere con i musulmani, con gli 
arabi, con gli attentatori delle Torri gemelle. A condannarlo a morte il 
turbante e la barba. "Molti non comprendono - spiega il fratello - che i 
sikh portano la barba e il turbante e quindi assomigliano a Osama Bin 
Laden, ma non solo non hanno nulla a che vedere con il miliardario saudita, 
non sono nemmeno musulmani". Non lo sapeva chi è entrato in macchina a 
tutta velocità nella piccola stazione di servizio e ha sparato contro di 
lui aggiungendo morte a morte, dolore a dolore. Ora la polizia interroga un 
uomo, gravemente indiziato e indaga su altri episodi successi nei dintorni. 
Pochi minuti dopo, infatti, sembra che il presunto assassino abbia sparato, 
questa volta fortunatamente senza conseguenze, contro altre due stazioni di 
servizio, una delle quali gestita da un cittadino americano di origine 
libanese.
Un episodio terribile come quello capitato sempre ieri nel New Jersey dove 
un imam è stato aggredito da un invasato che urlava frasi senza senso. Il 
religioso è stato salvato da una donna incinta che passava di lì. Una donna 
come la pakistana inseguita nel parcheggio di un centro commerciale da un 
ubriaco che la voleva investire e il quale si è così giustificato: "Sta 
distruggendo il mio paese".
Tratti somatici, barbe, capelli e vestiti che ricordino i presunti kamikaze 
di New York e Wahington sono diventati, quindi, terribili marchi d'infamia. 
Le scuole coraniche sono vuote, nelle tante moschee poche voci recitano le 
preghiere. Inevitabile, dopo gli attacchi ai luoghi di culto islamici. 
Qualcuno ha scagliato una bomba incendiaria contro la moschea di Denton, in 
Texas. La polizia ha arrestato un uomo che cercava di dare fuoco a quella 
di Seattle. Sconosciuti a Lynnwood, nello stato di Washington, hanno 
deturpato con vernice nera il muro di un tempio musulmano. A Evansville, in 
Indiana, un uomo è andato a sbattere con la sua auto contro un centro 
culturale islamico. E' sceso dalla vettura e ha rotto i vetri dell'edificio 
a pugni. A Bridgeview, sobborgo di Chicago, la polizia è intervenuta per 
respingere una folla di trecento persone che, infuriate, marciavano verso 
una moschea. Altro qualcuno ha scagliato sacchetti pieni di sangue di 
maiale. Nel sobborgo di Palos High un uomo è stato arrestato per aver 
attaccato a colpi di machete un benzinaio marocchino. A Los Angeles sono 
stati denunciati almeno undici episodi di intolleranza anti-araba, molti 
dei quali con uso di armi da fuoco.
"La nostra non è una guerra contro l'Islam, né contro il popolo arabo - ha 
stigmatizzato il vicepresidente Dick Cheney in un'intervista -, la violenza 
che vogliamo combattere è frutto di una perversione di questo credo 
religioso da parte di un gruppo estremista".
Non basterà a fermare la caccia all'arabo, ma è comunque una posizione 
chiara e ferma".

Giannino Della Frattina ("Il Giornale", 17/9/01)

"I quotidiani regalano poster a doppia pagina del nemico numero uno. 
"Wanted dead or alive" è stampatoi sulle t-shirt in vendita per dieci 
dollari all'angolo della Sesta avenue e 34' street, un mirino incornicia il 
terrorista miliardario mentre si accarezza la lunga barba. Alla fine tanto 
battere sull'odio ha scatenato la cieca violenza dell'America esasperata. 
Prime vittime sono stati gli indiani sikh che, da una settimana a questa 
parte, stanno cercando inutilmente di spiegare all'opinione pubblica che, 
nonostante barba e turbanti, non hanno nulla a spartire con l'Islam e 
talebani. Il fatto più grave risalke a sabato scorso: il tranquillo 
cittadino Frank S. Rocque è arrivato in pick up a una stazione di 
rifornimento Chevron a Mesa, in Arizona, e ne ha ucciso il proprietario. 
Perché? Semplicemente perché il signor Balbir Singh Sodhi, un sikh di 49 
anni, portava in testa un turbante e aveva la pelle un po' troppo scura. 
Non soddisfatto della "missione", ha poi sparato a un musulmano e ha aperto 
il fuoco irrompendo in casa di una famiglia afghana, fortunatamente senza 
ammazzare più nessuno. Ma a fare riflettere è soprattutto la 
giustificazione che Rocque ha dato al suo gesto: "Sono un patriota, sono un 
dannato americano. Voi poliziotti mi arrestate e lasciate che i terroristi 
siano liberi di compiere stragi quando e come vogliono".
Dal tragico 11 settembre di New York, Washinghton e Pittsburgh, molte 
persone che sono o semplicemente assomigliano a mediorientali e indiani 
sono state picchiate, insultate, inseguite e per l'appunto assassinate. 
L'Fbi sta indagando su altri 2 omicidi che sono sicuramente riconducibili 
all'ondata di razzismo che si è impadronita di un paese civile.
Il primo è quello di Adel Karas, un egiziano cristiano copto di 48 anni, 
freddato nel suo negozietto di droghiere a San Gabriel in California. Il 
figlio che era nel retrobottega ha sentito una voce gridare: "Sporco arabo 
terrorista" e quindi l'esplosione di due colpi di revolver. Il secondo è 
invece quello di un pakistano musulmano, Waquar Pasan, 46 anni, che è stato 
trovato riverso sul pavimento con una pallottola in fronte nel suo piccolo 
supermercato nel quartiere Pleasant Grove di Dallas. Gli investigatori 
escludono la rapina: "Nella cassa c'erano tremila dollari e nessuno li ha 
toccati, inoltre non ci risulta che la vittima avesse nemici. Il movente 
sembra essere l'odio razziale".
In giro per gli States si contano poi cinque moschee bruciate e 
innumerevoli molotov lanciate contro aziende ed esercizi commerciali che 
appartengono ad arabi. Ma sono soprattutto i pacifici sikh a essere presi 
di mira perché più degli altri assomigliano al presunto mandante 
delle  stragi, Bin Laden. Ieri pomeriggio erano 250 i sikh che hanno 
denunciato di aver subito violenze da parte di americani, ben 120 hanno 
dovuto fare ricorso alle cure degli ospedali e 10 sono in condizioni serie. 
Per esempio Guardshan Singh, un sacerdote sikh a Rockville nel Maryland, 
che stava andando a donare il sangue per i feriti del World Trade Center 
quando due uomini lo hanno aggredito a sprangate spaccandogli una gamba: 
"Che devo dire? Capisco la rabbia, so che c'è ignoranza sulla nostra 
religione ma la gente dovrebbe usare la testa e non solo gli occhi".
Una donna, Shari Mitchell, è stata arrestata a Eugene nell'Oregon perché 
armata di coltello ha strappato dalla testa di due indiani che stavano 
passeggiando i loro turbanti all'urlo "estremisti assassini". E ancora a 
Cleveland e West Sacramento bande di vandali hanno distrutto con mazze da 
baseball i loro templi, a San Matteo, in California, ignoti hanno lanciato 
una bottiglia incendiaria nella casa di una famiglia sikh colpendo alla 
tempia un bambino di tre anni. Solo per caso la bomba non è esplosa. "Non 
odio gli americani, perché mi considero americano anch'io - dice Lakhwindet 
Singh, fratello dell'indiano ucciso a Mesa - dico solo che avevamo chiesto 
ai media di chiarire immediatamente che non siamo musulmani, nessuno ha 
nosso un dito ed ecco il risultato".
Sia a Chicago sia a New York i tassisti indiani, che sono la maggioranza, 
tengono sbarrato il vetro che divide il posto di guida dai passeggeri, ed 
erano anni che non si vedevano simili misure di sicurezza. La situazione è 
talmente grave che il primo ministro indiano Atal Bihari Vajpayee ha dovuto 
telefonare al presidente Bush chiedendo i proteggere i suoi connazionali. 
Se il mezzo milione di sikh che vivono negli Usa accettassero di rinunciare 
al turbante, il problema sarebbe forse risolto, ma la loro religione non lo 
consente. "Potete anche strapparmi anche lo scalpo - dice combattivo 
Prabhjot Singh, 22 anni, consulente tecnologico di Manhattan - ma per 
togliermi il turbante prima dovete uccidermi"."

Carlo Piano, inviato a New York de "Il Giornale" (20/9/01)


"Ali Abu Shwaima punta il dito sul Corano: "Chiunque uccida un uomo è come 
se uccidesse tutta l'umanità, mentre chi salva una vita è come se la 
salvasse a tutta l'umanità". E chi pensa di trovare nel presidente del 
centro islamico della Lombardia almeno una lontanissima giustificazione 
dell'ecatombe americana, rimane deluso: "Condanno il gesto, i suoi autori, 
esprimo sgomento per questa immensa tragedia che sconvolge l'umanità. Qui 
non c'è neppure l'ombra di Allah". Cosa ne pensa della vita come sacrificio 
al Misericordioso, al Clementissimo? Quella vita cioè che i kamikaze delle 
Torri genelle e del Pentagono hanno perso in nome del loro Dio? "Nulla di 
tutto questo fa parte dell'Islam che dà valore prioritario alla vita. No al 
suicidio, no all'omicidio. Pensi solo che la nostra religione considera 
musulmani tutti i bambini fino all'età della reagione. Anche quelli 
cattolici. Mai e poi mai può essere tollerato l'assassinio, soprattutto di 
giovani vite, come è successo a New York".
Cosa pensa di questi kamikaze? "Penso che si tratti di persone disperate, 
di gente ridotta all'ultimo stadio esistenziale, di uomini depressi o 
malati o sconvolti. Gente che non ha più nulla da perdere, da chiedere, e 
che quindi fa un ragionamento di questo tipo: tu mi hai tolto tutto, mi hai 
annientato, distrutto, umiliato, tu mi stai uccidendo e io mi uccido da 
solo e porto anche te, mio nemico, nella stessa tomba". In questo senso, 
riesce dunque ad accettare l'eliminazione fisica? "No, mai. Nulla può 
giustificarla". E' risoluto e impenetrabile. Shwaima fa dunque l'americano? 
"Nient'affatto. Per me la verità non è quella di Bush - graffia - Siamo 
proprio sicuri che il responsabile della strage sia Osama Bin Laden? I 
manuali di guerra e di criminologia non insegnano forse di puntare il dito 
su chi ottiene i maggiori benefici da un certo crimine? E vi sembra forse 
che Bin Laden ne esca bene da una simile, gigantesca, operazione di guerra? 
No, io penso che dietro a tutto questo ci sia la mano di un grande 
regista". Ma qui, a Milano, come va? "Per il momento non abbiamo avuto 
problemi, anche se qualche lettera di minaccia l'ho ricevuta". E scuote la 
testa: "Purtroppo voi non conoscete il nostro mondo".
Andrea Pasqualetto, "Il Giornale", cronaca di Milano, 17/9/01