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L'attacco scattera' stanotte? Rassegna stampa 15/9/01



FORSE STANOTTE LA GUERRA

Secondo i media americani la prima operazione, un attacco missilistico, un bombardamento contro i campi d’addestramento di Bin Laden in Afghanistan, potrebbe avvenire già stanotte. Dalle parole del segretario di Stato Colin Powell e del sottosegretario alla Difesa Paul Wolfowitz, tuttavia, sembra più probabile che la rappresaglia Usa venga rinviata di alcuni giorni e si articoli in una lunga campagna, coordinata con la Nato, forse anche con la Russia e il Pakistan e i Paesi arabi moderati. Una campagna che non sarà solo una caccia a Bin Laden e non durerà solo qualche settimana. A lui, ha ammonito Powell, «contrapporremo un assalto globale al terrorismo». Wolfowitz ha spiegato che cosa significa in pratica: «Non è tanto questione di catturare i colpevoli, dobbiamo distruggere i loro rifugi e le infrastrutture, e porre fine al sostegno agli Stati che sponsorizzano il terrorismo». Il New York Times ha nominato tre di questi Stati: l’Afghanistan, l’Iraq e il Sudan. Ma l’elenco potrebbe allungarsi. Di fatto, con questa nuova strategia, l’America avverte il mondo islamico che chi non è con lei è contro di lei. Chi non l’aiuterà a sconfiggere il terrorismo si esporrà a un suo intervento, le incursioni dei corpi speciali, a esempio, per sequestrare o uccidere i terroristi, i bombardamenti dei loro campi d’addestramento. E si esporrà a sanzioni economiche e diplomatiche.

(Ennio Caretto - Corriere della Sera 15/9/01)



MADELEINE ALBRIGHT

«Bisogna reagire in modo efficace Non è necessario colpire subito»


«L’America è stata colpita per quello che rappresenta: la democrazia, la libertà. E’ la nostra essenza, alla quale non possiamo rinunciare». Questa la valutazione sui catastrofici attacchi terroristici di New York e Washington dell’ex segretario di Stato americano Madeleine Albright. Quale deve essere la reazione degli Stati Uniti?
«Per quanto difficile possa sembrare, la prima cosa che il popolo americano deve fare è tornare a una vita normale. Dimostrare ai terroristi che non ci hanno messo in ginocchio».
Lei era segretario di Stato nel ’98, quando i terroristi fecero saltare in aria due ambasciate Usa in Africa. L’America allora reagì con la forza necessaria?
«Sì. Alla fine siamo riusciti a consegnare alla giustizia i terroristi che hanno compiuto gli attentati in Kenya e Tanzania. E reagimmo con la massima efficacia, sferrando attacchi militari in Sudan e nei campi di Bin Laden in Afghanistan. La situazione oggi è molto diversa: l’America è stata colpita sul suo stesso suolo e non abbiamo mai perso tante vite in un solo giorno in tutta la storia di questa nazione. Il campo di battaglia è cambiato».
Il nemico è lo stesso?
«Non è ancora chiaro che si tratti davvero dell’opera di Osama Bin Laden. Ma è certo che questo terrorista sta ricevendo aiuti in Afghanistan. E’ importante per noi e i nostri alleati ritenere responsabili per quello che sta succedendo coloro che offrono rifugio ai terroristi. E’ giunto il momento di prendere posizione».
E attaccare l’Afghanistan?
«Una volta stabilito che Bin Laden è il responsabile, è giusto dare un ultimatum all’Afghanistan: "consegnateci Bin Laden oppure ne subirete le conseguenze". Purché questo venga fatto in un contesto e in un quadro temporale tale da essere preparati a dare seguito all’ultimatum».
Che possibilità ci sono di creare una coalizione globale contro il terrorismo che si estenda dai Paesi Nato fino agli Stati arabi moderati?
«A essere colpita è stata l’America. Se non riusciremo a trovare altri che reagiranno insieme a noi - ma io non lo credo - allora dovremo fare da soli. Ma, in definitiva, il terrorismo non può essere affrontato da un solo Paese. Fortunatamente, le prospettive per una simile coalizione sono migliori di quanto non siano mai state. Questo tragedia ha scioccato il mondo. Mi chiedo però se gli europei vorranno essere severi quanto l’America con alcuni degli Stati che accolgono i terroristi. E i cosiddetti Stati arabi "moderati", come si comporteranno con noi?
E il conflitto tra israeliani e palestinesi?
«L’America dovrà tornare a impegnarsi nel processo di pace in Medio Oriente. Ci vorrà un enorme lavoro diplomatico».
Quando avverrà la risposta dell’America?
«Siamo stati colpiti duramente. Dobbiamo reagire in modo commisurato. Ma non si tratta necessariamente di una cosa che deve succedere domani. E’ più importante farlo in modo efficace piuttosto che farlo rapidamente».

Global Viewpoint
(traduzione
di Claudia Ansalone)
Nathan Gardels
(15/9/01)


UDIENZA GENERALE DEL PAPA

Mercoledì 12 settembre 2001

Non posso iniziare questa Udienza senza esprimere profondo dolore per gli attacchi terroristici che nella giornata di ieri hanno insanguinato l'America, causando migliaia di vittime e numerosissimi feriti. Al Presidente degli Stati Uniti e a tutti i cittadini americani porgo l'espressione del mio più vivo cordoglio. Dinanzi ad eventi di così inqualificabile orrore non si può non rimanere profondamente turbati. Mi unisco a quanti in queste ore hanno espresso la loro indignata condanna, riaffermando con vigore che mai le vie della violenza conducono a vere soluzioni dei problemi dell'umanità.
Ieri è stato un giorno buio nella storia dell'umanità, un terribile affronto alla dignità dell'uomo. Appena appresa la notizia, ho seguito con intensa partecipazione l'evolversi della situazione, elevando al Signore la mia accorata preghiera. Come possono verificarsi episodi di così selvaggia efferatezza? Il cuore dell'uomo è un abisso da cui emergono a volte disegni di inaudita ferocia, capaci in un attimo di sconvolgere la vita serena e operosa di un popolo. (...) Con partecipe affetto, mi rivolgo all'amato popolo degli Stati Uniti in quest'ora di angoscia e di sgomento, in cui viene messo a dura prova il coraggio di tanti uomini e donne di buona volontà. In maniera speciale abbraccio i familiari dei morti e dei feriti e assicuro loro la mia spirituale vicinanza. (...) Invito anche voi, carissimi Fratelli e Sorelle, a unirvi alla mia preghiera. Imploriamo il Signore perché non prevalga la spirale dell'odio e della violenza. La Vergine Santissima, Madre di misericordia, susciti nei cuori di tutti pensieri di saggezza e propositi di pace.

Giovanni Paolo II (Fonte: sito Internet del Vaticano)



DAL VATICANO

La Santa Sede: reazione necessaria ma sia giustizia e non vendetta

CITTA’ DEL VATICANO - Anche il Vaticano ieri a mezzogiorno si è fermato, per tre minuti, in segno di solidarietà con il popolo americano. Il Papa, a Castel Gandolfo, ha lasciato il suo studio ed è andato a pregare in cappella. Piena «solidarietà» dunque. E «speranza» - come ha detto il segretario di Stato vaticano - che la reazione dell’America e dei suoi alleati sia «saggia e prudente». «Spero nella saggezza degli uomini», ha detto il cardinale Angelo Sodano ai giornalisti: «Io spero che, passate le reazioni a caldo, questi uomini che hanno in mano i destini dei popoli studieranno ciò che più conduce al bene dell'umanità».
«Non è vero - ci ha detto confidenzialmente un collaboratore del Papa - che la Santa Sede sia per una posizione pacifista e passiva. Comprendiamo che una reazione è necessaria, ma speriamo che sia nel segno della giustizia e non della vendetta».
Così - ci è stato spiegato - va interpretato l’invito fatto dal Papa ai «governanti delle nazioni», durante la preghiera di mercoledì in piazza San Pietro, a non lasciarsi dominare «dall’odio e dallo spirito di ritorsione».
Che intendono i collaboratori del Papa con le parole «giustizia e non vendetta»? «Significa trovare le persone responsabili dell’attentato e portarle in tribunale», ci ha detto il nostro interlocutore. E l’uso delle armi? «Potrebbe essere inevitabile», ci è stato risposto: «Ma esso - come in ogni altra circostanza - deve costituire l’ultimo rimedio e va commisurato all’obiettivo da raggiungere».
«Giustizia e non vendetta» è la parola d’ordine delle autorità ecclesiastiche cattoliche, vaticane e americane. Esse appaiono unanimi nel dare voce alla preoccupazione che una risposta spettacolare, dettata dall’emozione e magari comportante vasti bombardamenti, crei le premesse di nuove imprese terroristiche.
«Occorre andare alle cause profonde del terrorismo, per cercare di rimuoverle, non basta fermarsi ai suoi effetti», dice l’arcivescovo Renato Martino, osservatore della Santa Sede all’Onu.
«La nostra speranza è che sia fatta giustizia e non vendetta», dichiara a Sat 2000 (la televisione satellitare dei cattolici italiani) l’arcivescovo Joseph Anthony Fiorenza, presidente dei vescovi cattolici degli Stati Uniti. «Purtroppo - dice ancora Fiorenza - molte persone invocano la vendetta per gli autori di questo attacco. Noi cerchiamo di convincerle che la vendetta non è nello spirito di Dio. Deve esserci, invece, giustizia e i colpevoli devono essere individuati e consegnati alle autorità competenti».
Parole quasi identiche usa il cardinale Theodore McCarrick, arcivescovo di Washington, chiamando i cattolici a pregare «perché nella ricerca continua della pace e della giustizia, resistiamo alla tentazione di agire per vendetta o rivincita».
Luigi Accattoli  (Corriere della Sera 15/9/01)


AMNESTY

Amnesty International appellandosi ai capi di tutti i governi, ricorda che "la solidarietà internazionale alle vittime non può essere dimostrata cercando vendette ma cooperando all'interno delle regole imposte dalle leggi, per arrestare i responsabili. Criminalizzare intere comunità non porta a nulla". [14.09.2001] Clicca su: http://www.web.amnesty.org/web/news.nsf/WebAll/180A97244A72921780256AC6004D1340?OpenDocument

Il settimanale Vita - le iniziativa per la pace
http://web.vita.it/sotto/index.php3?SOTTOCATID=290

Il newsgroup - la discussione su Internet
http://groups.google.com/groups?hl=it&group=it.eventi.11settembre


La posizione dell'Unione Europea

Il messaggio dei quindici paesi dell'Ue agli Stati Uniti e al mondo è stato affidato a una «dichiarazione comune» firmata da tutti i capi di Stato e di governo nonché da Nicole Fontaine, presidente dell'Europarlamento, da Prodi e da Solana. Vi si ribadisce la solidarietà al popolo americano e l'impegno a punire i responsabili di questa «aggressione contro l'umanità» ma si precisa anche che «il diritto internazionale permette di perseguire gli autori, i mandanti e i complici ovunque essi si trovino». Un'indicazione che sembra voler porre degli argini alla risposta americana che tutti si attendono. Più in là si afferma che la lotta al terrorismo è interesse e dovere di «tutti i paesi»: «le organizzazioni internazionali, e in particolare l'Onu, dovrebbero farne un obiettivo prioritario».
(Repubblica 15/9/01)


GIANFRANCO PASQUINO

«Chi vuole l’Onu è anti Usa»

ROMA - «Tutti con gli Usa? Ma per favore... In Italia c’è già chi sta prendendo le distanze dagli Stati Uniti. E in maniera molto subdola, perdippiù». Gianfranco Pasquino, politologo ed ex parlamentare diessino, si scaglia contro coloro che, al di là della solidarietà ufficiale, puntano in realtà a defilarsi rispetto a quelle che saranno le iniziative militari dell’amministrazione Bush.
Professore, in che cosa consisterebbe questa presa di distanza?
«Chi sostiene che l’articolo 5 della Nato va interpretato e che comunque qualsiasi decisione va rimessa all’Onu, punta in realtà a mettere i bastoni tra le ruote agli americani. Lo sanno tutti infatti che all’interno dell’Onu gli Usa non hanno la maggioranza...».
La tesi dell’Onu è sostenuta da Andreotti...
«Certo, le sue dichiarazioni a Palazzo Madama sono inquietanti: non sono altro che una difesa della politica filo-araba. In linea, d’altra parte, con quella che è stata la storia di Andreotti».

F.Alb. (Corriere della Sera 15/9/01)


Guerra, sostegno agli Stati Uniti tra mille dubbi

Spaccati i cattolici e la sinistra, due linee dentro la Lega. E tornano le pattuglie dei «disfattisti» e dei «crociati»

ROMA - Tutti solidali con gli Usa, ma quando si parla di intervento militare, compaiono i dubbi dei cattolici, la sinistra comincia con i distinguo, mentre la Lega arriva a rievocare le Crociate. Ecco l’Italia davanti all’ipotesi della «prima guerra del nuovo secolo».

DUBBI CATTOLICI - Le diversità di posizioni che attraversano il mondo cattolico ruotano attorno ad un discrimine netto: l’attentato di martedì è stato un atto di guerra o un atto di terrorismo? Nel primo caso l’intervento militare è inevitabile e scontato, nel secondo bisogna invece accertare le responsabilità e valutare l’intervento più efficace. Il Papa, nel chiedere che «non vi siano ritorsioni animate dall’odio», non ha mai parlato di «atto di guerra». Ma l’ Avvenire , il quotidiano dei vescovi più vicino alle posizioni del centrodestra, definisce l’attacco alle Torri un atto di guerra con «inquietanti analogie con quanto realizzato da Hitler e dai suoi accoliti». Parole che riecheggiano nel commento del viceministro Adolfo Urso di An: «Non commettiamo l’errore che fece l’Europa, di non reagire subito a Hitler». E giustificano il commento del ministro Carlo Giovanardi (Ccd): «Dire di no ad un attacco militare contro i responsabili di questo atto orrendo sarebbe come dire che i carabinieri non devono più inseguire e perseguire gli assassini». Più pacato il presidente della Lombardia, il cattolico Roberto Formigoni (Casa delle Libertà): «Una reazione è inevitabile e legittima, ma non dev’essere una vendetta».
A chiedere attenzione nel definire il «crimine orrendo» contro l’America è Pierluigi Castagnetti , capogruppo della Margherita: «Stiamo attenti a definirlo guerra , perché questo significherebbe dare ai terroristi lo status di belligeranti, cosa che non è mai stata fatta finora». Più prudente è Giulio Andreotti , secondo il quale «di terrorismo si tratta e, di conseguenza, il problema va affrontato attraverso l’Onu e la politica».

SINISTRA DIVISA - Unita nella solidarietà agli Usa, ma divisa sulle modalità della reazione. Nella sinistra riaffiorano le ferite di sempre. Liberazione , giornale di Rifondazione comunista, di fronte all’ipotesi di un intervento armato, prende le distanze dagli Stati Uniti e accusa Bush di voler «creare una gigantesca zona rossa accessibile solo a chi rinuncia alla libertà di protesta: noi non ci rassegniamo a vivere nella morsa fra il terrorismo e lo stato di guerra». Il quotidiano mette in relazione terrorismo e risposta armata, definendo il primo «la faccia speculare della militarizzazione e della guerra, che è l’uccisione della politica di massa». Anche il comunista Armando Cossutta non intende gettarsi a corpo morto nelle braccia di Bush: rifiuta l’idea di un’Europa acriticamente allineata con gli Usa e sostiene che l’Ue deve avere una «posizione autonoma anche se non contrapposta» a quella americana, anche se sull’efficacia di un intervento dell’Onu ha ben più di un dubbio. I dubbi affiorano anche nei Ds. L’ex ministro del Lavoro Cesare Salvi , anche se non ha nulla da obiettare sul «diritto di autodifesa degli Stati Uniti», tuttavia precisa: «Va bene la reazione, ma innanzitutto bisogna dimostrare quali Paesi sono effettivamente coinvolti». In ogni caso, per Salvi, qualsiasi decisione che riguardi l’Italia dovrà passare al vaglio di una discussione (e di un voto) parlamentare. Il presidente della Toscana, Claudio Martini , altro ds, rifiuta invece logiche di guerra: «Quella può essere l’extrema ratio. Certo, i responsabili vanno colpiti, ma guai a scatenare pericolose escalation che rischiano di incendiare il mondo». Il socialista Ugo Intini , pur schierandosi con l’America, si chiede perché «gli Usa in tutti questi anni non abbiano mai fatto pressione sul Pakistan, dal quale dipendono i Talebani, per trovare soluzioni equilibrate».

I «DISFATTISTI» - Drastica la posizione di Valentino Parlato sulle colonne del Manifesto : questo tragico scenario può portare in Italia ad una limitazione, in nome della sicurezza e della solidarietà con gli Usa, «delle libertà dei cittadini di manifestare, di telefonare senza essere ascoltati, di protestare». Parlato non teme l’accusa «di disfattisti di fascistica memoria che fiorirà contro molti di noi», ma non vuole assegnare al governo poteri di guerra, che consentirebbero tra l’altro «una rappresaglia per il fallimento di Genova».

LEGA E CROCIATE - Lontani i tempi in cui Umberto Bossi prendeva le difese di Milosevic contro «il gendarme americano», il fronte leghista ora è compatto nel sostenere la necessità di una risposta militare Usa. Roberto Calderoli , vicepresidente del Senato, è categorico: «Rispetto alla guerra nei Balcani, lo scenario è completamente diverso. Ora gli aggrediti sono gli Stati Uniti». Le divergenze nel Carroccio riguardano casomai il modo di interpretare questa adesione al fronte filo americano. Giuseppe Baiocchi , che dalle colonne della Padania denuncia da tempo i pericoli di un’incontrollata avanzata dell’Islam, ritiene che sia questa l’occasione «per ritrovare con pienezza il senso del proprio orgoglio di popolo, della propria differente identità». Ricorda, certo, che «anche in Islam esistono Paesi abituati alla tolleranza». Ma anche che «nel solo Duemila sono stati 60 mila i cristiani sgozzati in terre a maggioranza islamica». Una linea che trova sostenitori anche fuori dalla Lega. Da Gianni Baget Bozzo , che accusa «la volontà islamica di voler sostituire con violenza il cristianesimo: la guerra di religione è entrata nella Storia», al cardinale Biffi , che ha pregato «perché la cristianità trovi la strada giusta per la propria sopravvivenza». La pensano diversamente il presidente della commissione Esteri, Fiorello Provera , secondo il quale «va evitato il maccartismo anti-Islam», e il capo di gabinetto del ministero per le Riforme Francesco Speroni , che mette in guardia da «reazioni indiscriminate». Forse hanno ascoltato Franco Cardini , fautore del dialogo tra cristianesimo e Islam: «Nulla sarebbe più insensato di una guerra tribale tra civiltà».
Francesco Alberti Gianna Fregonara
  (Corriere della Sera 15/9/01)


INUTILE LA SCATOLA NERA DELL'AEREO SCHIANTATOSI SUL PENTAGONO
(ANSA) - WASHINGTON - La scatola nera che si pensava contenesse la registrazione delle voci nella cabina dell'aereo fatto precipitare sul Pentagono e' assolutamente inservibile perche' i suoi nastri sono stati probabilmente danneggiati dal calore prolungato dopo l'esplosione dell'aereo. "Non abbiamo potuto tirare fuori nulla dal registratore vocale" - ha detto il direttore dell'Fbi, Robert Mueller - solo qualche informazione di minore importanza". 15/9/01



La moschea di Manhattan diventa catacomba

Gli agenti chiudono due isolati per proteggere i fedeli. «Adesso è pericoloso anche dire di essere musulmani»

DA UNO DEI NOSTRI INVIATI
NEW YORK - La scritta sul muro invita a sterminare i musulmani con la bomba nucleare («Nuke’em»). Un gruppo di ragazzi stacca dai semafori dell’Upper East Side i volantini che chiedono notizie di Nurul Miah e Shakia Yesmin - («fidanzati, lavoravano da Marsh al 93esimo piano del World Trade Center») - e li straccia.
I fedeli camminano sotto la pioggia con la faccia bassa, fanno finta di non vedere, ed entrano nella moschea sulla 96esima strada, la più importante e grande di Manhattan. Quando alzano la testa, lanciano sguardi carichi di sospetto e diffidenza. Tutto intorno, le auto della polizia di New York, i cavalletti che tengono lontana la gente. Gli agenti hanno «chiuso» due isolati per proteggere i seguaci dell’Islam, la loro è una funzione religiosa sotto scorta. «E fanno bene a farci da scudo - dice Miah Golam, del Bangladesh -. Per noi ormai è pericoloso anche soltanto dire di essere musulmani. L’unica cosa che possiamo fare è stare zitti, ma non servirà, tra poco in questa città ci succederanno cose bruttissime». La pensano così in tanti. La strage di martedì sta facendo morire anche la New York civile, tollerante e multietnica. C’è solo rabbia, adesso. C’è un solo bersaglio. La scorsa notte una donna pachistana è stata aggredita per strada nel sobborgo di Huntington, a Broadway, un altro islamico è riuscito a fuggire dalle botte di tre ubriachi, nel Texas bruciano i supermercati gestiti da musulmani.
Dice Rasheed: «Ci sentiamo così, bersagli viventi. Chiunque può sfogare il suo dolore sputando addosso a me, ai miei fratelli. Ci considerano complici di Bin Laden. Ma io sono nato qui, sono americano e musulmano, e un vero musulmano non avrebbe mai fatto quella strage». E’ un esperto di computer grafica, lavora in uno studio di Manhattan. Mentre aspetta di entrare in moschea si chiude in un bar gestito da un gruppo di pachistani. Ogni tanto qualcuno di loro si alza e guarda oltre la vetrina, come se aspettasse l’arrivo di un nemico.
«Qualunque cosa sia successa, è già scattata la corsa a far tornare l’immagine dell’Islam indietro di secoli», dice Rasheedah Shahid, 23 anni, studente. «Non mi merito questo - urla James Speed, alto grosso, con lo zucchetto in testa -. Io sono un buon musulmano, per me Islam significa davvero pace. Ed è sbagliato farlo diventare sinonimo di terrorismo, ma è proprio questo che sta per accadere». Il suo amico Abdurahman è più aggressivo: «I media stanno dando alla gente quello che la gente vuole, qualcuno vicino da poter odiare, qualcuno su cui riversare il suo odio. Noi, seguaci dell’Islam e quindi - ormai per il popolo americano è così - di Osama Bin Laden».
A mezzogiorno intorno alla moschea ci sono cinquanta poliziotti che proteggono la preghiera di nove musulmani («In media a quest’ora ce ne dovrebbero essere almeno un centinaio», dice il portavoce Mohamed Unis). La moschea costruita nel 1989 per volontà di un emiro del Kuwait può contenere fino a 888 persone, ma oggi - giorno di preghiera - è quasi vuota.
Si riempie solo quando arriva l’imam Mohammed Gemehaha, e le sue parole danno la misura della tensione che si respira dentro e fuori il luogo di preghiera: «Voglio dire a tutti i newyorkesi, a tutti gli americani, che queste azioni irresponsabili sono compiute da singoli individui, e non dai gruppi etnici o religiosi a cui appartengono. Condanniamo solo i colpevoli, e non un intero popolo». Continuano ad arrivare fedeli, adesso la moschea si sta riempiendo, arriva gente da Brooklyn, da Newark e Jersey City, «capitali» di una comunità che in dieci anni è passata da uno a sette milioni di persone.
Entra anche Kofi Annan. Il segretario delle Nazioni Unite non era mai andato a pregare nella moschea di Manhattan. Ma se con la sua presenza voleva dare un segno chiaro, questo è il posto per farlo, davanti alla comunità musulmana newyorkese, al suo imam, davanti ad Al-Haaj Ghazi, direttore del centro islamico di Long Island, che piange al termine delle preghiere: «Ho perso degli amici, al World Trade Center, e anche oggi sono andato a offrirmi come volontario. Ma gli sguardi degli "altri" diventano sempre più cattivi, si vede che non siamo graditi, neanche per donare il sangue».
Marco Imarisio (Corriere della Sera 15/9/01)


IL NOBEL ELIE WIESEL

«E’ come con Hitler La civiltà si difenda»

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
NEW YORK - «La parola chiave per capire questa apocalisse è "odio". Un odio così profondo, radicato e totale da spingere i suoi artefici a commettere crimini che nessun altro essere umano può arrivare a concepire». All’indomani del più efferato attacco terroristico della storia, Elie Wiesel ha il cuore gonfio.
«Oggi siamo tutti in lutto - spiega al Corriere il premio Nobel per la pace sopravvissuto ad Auschwitz -. Cerco parole adatte a esprimere ciò che provo ma mi rendo conto che il linguaggio in occasioni del genere non basta. Perché parlare di questa tragedia è quasi come cercare di sminuirla».
Che lezione possiamo trarre da quanto è successo?
«La prima è che le danze di gioia dei palestinesi tra le strade di Gerusalemme danneggeranno la loro causa più di qualsiasi altra atrocità o attentato. Migliaia di persone sono morte e il mondo intero è in lutto ma loro godono ed esultano per questa catastrofe. Era già successo durante la Guerra del Golfo. Ricordo che quando gli scud cadevano su Tel Aviv i palestinesi ballavano e brindavano sui tetti delle loro case».
Arafat ha espresso le proprie condoglianze, anche donando sangue a favore delle vittime.
«Ho smesso di credere e sperare in lui dall’anno scorso, quando ha rifiutato le concessioni di Barak, imboccando la strada della violenza. I giovani palestinesi sono indottrinati dalla nascita dagli anziani come lui a credere che per diventare martiri debbano imboccare la strada della violenza e del sacrificio personale.
Adesso l’America e il mondo possono capire una volta e per tutte come Israele vive da decenni. E la lotta dello Stato ebraico per estirpare il terrore, tutto d’un tratto, pare avere un senso».
Durante un convegno a New York, tempo fa, lei lanciò l’allarme contro il pericolo del terrorismo. Ma forse non è stato ascoltato.
«Avevo suggerito e lo ripeto che la sfida più grande del XXI secolo sarà identica a quella che ha insanguinato il XX secolo. Gli individui che arrecheranno rovina, morte e distruzione alla nostra era saranno fanatici armati di potere. Proprio come lo sono stati Hitler, Stalin, Mao Zedong e Pol Pot. Soltanto che per difendersi dai nuovi mostri dobbiamo usare tattiche differenti».
Da dove vengono le radici di questo odio?
«Esiste un parallelo tra la guerra santa dell’Islam nel X e XII secolo e l’Occidente. I sicari e gli assassini di professione sono stati creati allora. E anche il sangue scorre da secoli e secoli. Ma le spiegazioni storiche sono inutili. Il nostro obiettivo adesso è costringere il mondo civile a scendere allo scoperto, isolando questi criminali. Perché è la connivenza di Stati e individui a farli crescere e prosperare».
Alessandra Farkas (15/9/01 Corriere della Sera)