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L'Italia alle armi
L'ITALIA DELLE ARMI
Di Carlo Gubitosa - <c.gubitosa@peacelink.it>
"Domina, su ogni altra sfida del nuovo secolo, il mantenimento della pace.
Nell'eta nucleare, impedire nuove guerre è indispensabile per la nostra
stessa sopravvivenza. Occorre rafforzare le istituzioni sovranazionali
ancora inadeguate ad assicurare il successo in questo fondamentale compito.
L'Italia è parte del ristretto numero di grandi nazioni sulle quali
ricadono in tutti questi campi le maggiori responsabilità". Con queste
parole Carlo Azeglio Ciampi ha salutato il 2000 nel messaggio alla nazione
del 31 dicembre.
Le parole di Ciampi danno spazio a numerosi interrogativi: Quale potrà
essere la credibilità e la dignità del nostro Paese nel delicato processo
di risoluzione pacifica dei conflitti internazionali? Quali sono le scelte
politiche con cui nostri governanti intendono costruire la pace mondiale?
Molti segnali possono indurre al pessimismo: in quella che il Presidente
Ciampi ha definito con preoccupazione "l'età nucleare", l'Italia ha
ratificato un trattato internazionale (la nuova "dichiarazione di principi"
della Nato) con cui si ribadisce ancora una volta il ruolo indispensabile
delle armi atomiche. Nonostante il "mantenimento della pace" auspicato dal
presidente, le esportazioni di armi italiane continuano ad aumentare, anche
e soprattutto nei paesi in cui i diritti umani vengono violati
quotidianamente e sistematicamente.
Malgrado i buoni propositi espressi da Ciampi in merito al rafforzamento
delle istituzioni sovranazionali, il partito di maggioranza relativa del
nostro governo, con una larghissima maggioranza di voti contrari, ha
bocciato nel congresso di gennaio una mozione piccola piccola in cui si
affermava semplicemente che "nessun intervento armato internazionale deve
più avvenire fuori dalla legittimazione dell'ONU", dimostrando che il ruolo
marginale assegnato dai G7+1 alle Nazioni Unite non è stato il frutto
temporaneo dell'emergenza balcanica, ma una chiara e definitiva scelta
politica mirata ad esautorare definitivamente l'ONU in materia di
risoluzione dei conflitti. L'adozione del cosiddetto "nuovo modello di
difesa", una spesa militare in costante aumento e una spesa sociale in via
di estinzione completano un quadro politico in base al quale il nostro
futuro e la sicurezza del nostro Paese rischiano di essere seriamente
compromessi negli anni a venire.
"FALSO IN BILANCIO" DEL GOVERNO D'ALEMA
Per quanto riguarda il commercio delle armi, il governo D'Alema si è reso
responsabile nei mesi scorsi di un vero e proprio "falso in bilancio".
Secondo l'articolo 5 della legge 185/90, che ha introdotto in Italia "norme
per l'esportazione, importazione e transito di materiali di armamenti", la
Presidenza del Consiglio dei Ministri è tenuta a presentare al Parlamento
una relazione annuale sulle esportazioni autorizzate di armi italiane. Il
31 marzo del 1999 il Generale Cucchi, consigliere militare del Governo
D'Alema I, ha presentato la relazione relativa alle armi prodotte e vendute
dall'Italia nel 1998.
C'è stato un tempo in cui i pacifisti si auguravano che un governo di
"sinistra" scegliesse come consigliere militare una persona rispettosa del
diritto internazionale, magari non direttamente coinvolta con la gerarchia
militare, che avesse la volontà di destinare le nostre forze armate
unicamente al servizio delle Nazioni Unite. Oggi i pacifisti si augurano
che la nuova sinistra di governo scelga collaboratori che siano almeno in
grado di controllare i risultati di addizioni e moltiplicazioni.
Nella relazione presentata dalla Presidenza del Consiglio, infatti,
risulta che il valore globale delle autorizzazioni rilasciate per
l'esportazione di armi nel 1998 è calato del 6% rispetto ai dati dell'anno
precedente. Purtoppo questi valori non sono il frutto di una improvvisa
riconversione dell'industria bellica, ma semplicemente un'"illusione
ottica" provocata da due gravi errori contabili e di trascrizione (marchi
per lire e miliardi per milioni), errori riconosciuti e confermati dalla
Presidenza del Consiglio, che avrebbe volentieri sorvolato su questa svista
se questi errori non fossero stati pesantemente rilevati da "Oscar",
l'osservatorio fiorentino sul commercio delle armi, che ha dimostrato,
conti e tabelle alla mano, come l'esportazione di armi italiane sia
aumentata del 30% anziché calata del 6%.
Ma non è questo l'unico dato preoccupante evidenziato nel "Rapporto
Oscar". Oltre alla quantità, è interessante anche scoprire i destinatari
delle nostre esportazioni. Il quadro che emerge nel rapporto è a dir poco
angosciante: nonostante i divieti contenuti nella legge 185/90, nella lista
dei nostri clienti figurano paesi come Turchia, Algeria, Cina, Brasile,
Arabia Saudita, India, Indonesia e Pakistan, più volte segnalati per
ripetute violazioni dei diritti umani fondamentali. Purtroppo ai nostri
politici non bastano i rapporti annuali di Amnesty International e le
segnalazioni di ONG e organizzazioni umanitarie per classificare questi
paesi come "repressivi o aggressivi", vietando di conseguenza
l'esportazione di armi italiane verso questi paesi in base alla legge 185.
Il caso più eclatante è forse quello della Colombia, un paese che nel 1998
ha acquistato armi dall'Italia per 10 miliardi e mezzo, segnalato nel
rapporto annuale 1999 di Amnesty International per "Più di 1000 civili
uccisi dalle forze di sicurezza o gruppi paramilitari". Sempre leggendo il
rapporto di Amnesty scopriamo che "Molte vittime sono state torturate prima
di essere uccise. Minacciati e attaccati attivisti per i diritti umani;
almeno 6 sono stati uccisi. Nelle zone urbane continuano le uccisioni da
parte degli squadroni della morte. Molti militari sono stati accusati di
violazioni dei diritti umani; molti altri continuano a sottrarsi alle
responsabilità. Gruppi armati dell'opposizione sono stati responsabili di
numerosi abusi dei diritti umani, comprese uccisioni intenzionali e
indiscriminate e della cattura di centinaia di ostaggi".
Perché l'Italia continua a vendere armi alla Colombia? Secondo il
"Rapporto Oscar" già citato in precedenza, "Il governo italiano non ha
sospeso le autorizzazioni alle esportazioni [verso la Colombia Ndr]
appellandosi al fatto che la Commissione ONU ha espresso solo una
raccomandazione e non una condanna formale per violazioni dei diritti
umani". Vale a dire che per quanto riguarda la vendita delle armi, ogni
paese è un buon cliente fino a prova contraria, e che l'unica "prova
contraria" ammessa è una condanna formale dell'ONU. Questo può far dormire
sonni tranquilli a paesi come la Cina (che dovrebbe condannarsi da sola in
quanto membro del consiglio di sicurezza ONU) o la Turchia (Membro della
Nato protetto in sede ONU dal veto statunitense). Documenti "futili" come i
rapporti di Amnesty International non sono un freno sufficiente per
arrestare il mercato globale degli strumenti di morte.
L'EUROPA DEGLI EUROFIGHTER
Un ulteriore beffa con il quale il nostro governo ha preteso di aggirare i
limiti imposti dalla legge 185/90 è stata una circolare emanata
nell'ottobre 1998 dal Ministero delle Finanze, che sottrae alle normali
procedure di autorizzazioni il commercio di armi relative a 13 coproduzioni
multinazionali, tra cui i cacciabombardieri eurofighter, un progetto
europeo a cui l'italia contribuisce con 16.000 miliardi, che verranno
sottratti al bilancio dello stato negli anni dal 1998 al 2006, per la
produzione di 121 caccia bombardieri.
La cifra stanziata per il progetto Eurofighter relativa all'anno 2000 è
partita da 820 miliardi, e potrebbe raggiungere un totale di 1020 grazie
all'emendamento Tab.D.18.45 con cui il Governo ha proposto di
stornare 200 miliardi da destinare al cap. 7177 dello stato di previsione
del Ministero della difesa, relativo appunto al progetto Eurofighter.
Parallelamente le spese per la sanità hanno subito un taglio dell'ordine di
parecchie decine di miliardi, solo un assaggio di quanto accadrà in caso di
vittoria del referendum radicale sull'abolizione del servizio sanitario
nazionale.
Consultando le pagine Internet all'indirizzo
http://eurofighter-typhoon.com scopriamo che il progetto Eurofighter è
promosso da un consorzio di 4 stati (Italia, Spagna, Germania e Gran
Bretagna), e che tra le industrie coinvolte figurano numerose aziende
italiane, soprattutto del gruppo Fiat. Gli stati membri del consorzio si
sono già spartiti il "bottino", ossia le zone di mercato, e all'italiana
Alenia Aerospazio toccherà il compito di piazzare gli Eurofighter in
Brasile, Filippine e Sudafrica, sperando che quest'anno in queste zone del
mondo qualche dittatorello decida di rinnovare il suo arsenale.
IL NUOVO VOLTO DELLE FORZE ARMATE
L'esercito del 2000 comprende, tra l'altro, i già citati Eurofighter, la
nuova portaerei Einaudi da 4000 milardi, la trasformazione della Brigata
Friuli in brigata aeromobili addestrata per semina di mine da elicottero.
Tuttavia l'ingrediente fondamentale che da alcuni anni a questa parte ha
cambiato la fisionomia, lo spirito e gli obiettivi del nostro apparato
militare non è un bombardiere o una portaerei, ma il "nuovo modello di
difesa", un apparato teorico con il quale mettere finalmente nero su bianco
che le guerre non si fanno solo per difendere il paese, ma anche per
"pacificare" le zone di conflitto legate in un modo o nell'altro ai nostri
interessi economici o strategici.
Il "Nuovo Modello di Difesa", è un documento presentato in parlamento
nell'ottobre del '91, che non è mai stato discusso o trasformato in legge,
ma che è stato di fatto messo in pratica con opportuni stanziamenti di anno
in anno. A pag. 44 questo documento definisce chiaramente la difesa degli
"interessi vitali" del paese "ovunque minacciati o compromessi".
Questo nuovo carattere "extraterritoriale" della difesa del paese è ormai
un dato acquisito e assimilato dalle gerarchie militari, come risulta da un
servizio di Maurizio Crovato intitolato "Addio alla naja", trasmesso nel
corso del "TG2 Dossier" del 19 novembre scorso. Nel corso di questo
servizio il generale Resce, comandante della brigata alpini julia, ha
dichiarato testualmente che "l'esercito del 2000 sarà un esercito abilitato
alle moderne operazioni, quelle che non sono più - o non solo - rivolte
alla difesa del territorio nazionale, ma sono orientate verso missioni più
dinamiche, di controllo preventivo della conflittualità. (...) l'esercito
quindi è un esercito di proiezione, non è più un esercito di difesa statica
di un confine che, grazie a Dio, è diventato sicuro con gli eventi che
hanno caratterizzato gli ultimi dieci anni della storia europea".
I vertici delle forze armate ammettono apertamente che i nostri confini
sono sicuri, e il nostro esercito non avrebbe più ragione di esistere se
non in virtù delle azioni militari svolte al di fuori del territorio
nazionale. Per coerenza alle caratteristiche dell'"esercito del 2000"
qualcuno potrebbe addirittura proporre di cambiare il nome del Ministero
della Difesa in "Ministero della proiezione" o più onestamente "Ministero
dell'attacco".
Il "Nuovo Modello di Difesa", lo stratagemma italiano con cui si è cercato
di legittimare la "guerra di proiezione" nel nostro Paese, ha come
equivalente su scala internazionale il "Nuovo Concetto Strategico"
dell'Alleanza Atlantica, un documento in base al quale i paesi membri della
Nato hanno conferito a se stessi il ruolo di "Gendarme Mondiale",
stravolgendo i principi ispiratori dell'Alleanza Atlantica, nata con scopi
puramente difensivi. La differenza tra i due documenti, oltre all'ambito
geografico di applicazione, sta anche nella loro natura giuridica. Se il
"Nuovo Modello di Difesa" può essere in fondo considerato come un pezzo di
carta che non ha ancora trovato riscontro in nessun atto ufficiale, il
"Nuovo Concetto Strategico" è (purtroppo) un trattato internazionale in
piena regola, che il 24 aprile 1999 è stato firmato a nome del popolo
italiano dal Presidente del Consiglio Massimo D'Alema.
Nessuno dei principali mezzi di informazione ha commentato o pubblicato
questo documento, un trattato che non è stato sottoposto a nessun tipo di
verifica, di controllo o di discussione e che non è frutto del dibattito
parlamentare, un testo sconosciuto fino alla sua ratifica, un patto
scellerato che riporta il mondo indietro di cinquant'anni, affermando
ancora una volta che non può esserci pace senza l'effetto deterrente delle
armi nucleari.
Collegandosi attraverso l'Internet all'indirizzo
<http://www.nato.int/docu/pr/1999/p99-065e.htm> è possibile visionare il
testo integrale di questo documento. In particolare, al paragrafo 20 si
legge che la sicurezza dell'alleanza è legata non solo alla possibilità di
un attacco ad uno degli stati membri, ormai molto remota, ma anche all'
"incertezza e instabilità nell'area euro-atlantica" e alle "crisi regionali
alla periferia dell'alleanza". In pratica alla Nato non basta più la
sicurezza e la pace dei suoi alleati, ma è necessario che sia "pacificata"
anche la "periferia dell'impero".
Per quanto riguarda l'utilizzo delle armi nucleari vengono utilizzati toni
molto chiari: "Le armi nucleari danno un contributo insostituibile per
rendere incalcolabile e inaccettabile il rischio di una aggressione contro
l'alleanza, e pertanto rimangono essenziali per il mantenimento della
pace". (par. 46) "La garanzia suprema della sicurezza degli alleati
proviene dalle forze nucleari strategiche dell'alleanza, e in particolare
da quelle degli Stati Uniti" (par. 62) "Le forze nucleari europee della
Nato costituiscono una componente politica e militare fondamentale per
collegare i membri europei e americani dell'alleanza. Pertanto l'alleanza
manterrà in Europa un numero sufficiente di armi nucleari". (par. 63)
IL CORAGGIO DELLE SCELTE
Al di là del ruolo di "custodi della pace" che il nostro Presidente della
Repubblica vorrebbe assegnare al nostro Paese, esiste una realtà politica,
economica e militare che spinge verso la fabbricazione, il commercio, la
proliferazione e il conseguente utilizzo delle armi convenzionali e
nucleari. Di fronte al coro di proteste di tutti gli operatori di pace,
molti fanno appello al "buon senso" della "Realpolitik", che non ama
eccessi o posizioni radicali, ma ricerca il compromesso e la mediazione tra
pace e testate nucleari, tra disoccupati e confindustria, tra liberi
cittadini e centri di potere politico e militare, una mediazione che
inevitabilmente finisce col premiare le ragioni del più forte.
Ai nostri governanti è stato chiesto ripetutamente di dire e fare
"qualcosa di sinistra", e ripetutamente la risposta è stata una sola:
quando si indossa l'abito di governo bisogna rinunciare all'abito
ideologico, etichettando come "ideologica" e come figlia dell'utopia
qualsiasi proposta di riconversione dell'industria bellica,
democratizzazione e al rafforzamento delle Nazioni Unite, tassazione delle
speculazioni finanziarie, aumento della spesa pubblica per l'istruzione e
la sanità.
Il problema diventa allora la determinazione di spazi e di principi che
non possono essere oggetto di trattativa o di mediazione, e uno di questi è
senza dubbio la sfera del diritto. Per dire e fare qualcosa di sinistra non
c'è bisogno di riesumare il vecchio eskimo o di rispolverare i fantasmi del
marxismo: basterebbe utilizzare la forza del diritto a beneficio della Pace
e della giustizia sociale, trasformando in prassi leggi e trattati già
stabiliti sulla carta.
Un primo passo potrebbe essere quello di destinare lo 0,7% del PIL ad
iniziative di cooperazione internazionale, per favorire lo sviluppo dei
paesi impoveriti, così come è previsto dal capitolo 33 dell'Agenda 21, il
programma d'azione per lo sviluppo umano e ambientale concordato dalle
Nazioni Unite nel 1992 a Rio de Janeiro in occasione del "Vertice della
Terra". Tra i 170 paesi firmatari dell'"Agenda 21" c'è anche l'Italia, che
attualmente dedica ai paesi in via di sviluppo meno dello 0.1% del PIL.
Si potrebbe poi continuare chiedendo che nei programmi scolastici delle
scuole di ogni ordine e grado vengano inserite delle attività di educazione
alla Pace e alla Nonviolenza, in ottemperanza alla risoluzione approvata
dall'assemblea generale delle Nazioni Unite il 19 novembre 1998, una
risoluzione con cui il decennio 2001/2010 è stato proclamato "Decennio
internazionale per la Cultura della Pace e della Nonviolenza per i bambini
del mondo".
Un'altra scelta coraggiosa potrebbe essere una ferma applicazione della
legge 185/90, bloccando tutte le vendite di armi italiane a tutti i paesi
segnalati per le loro violazioni dei diritti umani fondamentali, come la
Colombia, la Cina, la Turchia e l'Indonesia.
Per la ricerca di un'alternativa alla difesa armata basterebbe dare piena
attuazione alla legge 230/98, con riferimento particolare all'articolo 8
della legge, in base al quale l'Ufficio nazionale per il servizio civile,
istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, ha l'impegno di
"predisporre, d'intesa con il Dipartimento per il coordinamento della
protezione civile, forme di ricerca e di sperimentazione di difesa civile
non armata e nonviolenta".
Per dire "qualcosa di sinistra" basterebbe mettere in pratica la
raccomandazione accolta dalla Camera dei Deputati il 14 aprile 1998, con la
quale il governo si è impegnato "a studiare forme atte alla creazione ed
alla formazione operativa di un contingente italiano di caschi bianchi" da
mettere a disposizione dell'ONU, un contingente che "potrebbe essere
costituito anche da obiettori che lo richiedano".
Con questi esempi (e ce ne sarebbero molti altri) è chiaro che l'utopia è
solo questione di punti di vista. Un contingente italiano di Caschi Bianchi
non è certo un'utopia, ma è utopia chiedere un contingente italiano di
Caschi Bianchi o il rafforzamento delle Nazioni Unite alla classe politica
che attualmente governa il paese, anche alla luce delle recenti rivelazioni
sul congresso DS pubblicate dal "Manifesto" del 18 gennaio.
"Nessun Intervento armato internazionale deve più avvenire fuori dalla
legittimazione dell'ONU (...) Bisogna superare tutti gli alibi e ridare
centralità alle Nazioni Unite. Per fare questo è necessario che si proceda
ad una riforma del consiglio di sicurezza". Affermazioni chiare e
perentorie, in teoria condivise dagli stessi vertici DS, contenute in una
mozione respinta seccamente dalla stragrande maggioranza dei delegati al
congresso. Una posizione accuratamente censurata persino sulle pagine
Internet del partito, dove non viene neppure fatta menzione della mozione
respinta. La bocciatura di questa mozione contrasta le affermazioni dello
stesso Veltroni, che nel corso della marcia per la pace Perugia/Assisi
aveva indicato le Nazioni Unite come l'unico tavolo di discussione
possibile per l'affermazione dei diritti umani su scala mondiale.
Il traffico e la produzione di armi in Italia, il potere nucleare della
Nato, l'aumento della spesa militare, l'adozione del nuovo modello di
difesa incideranno sulla nostra vita molto di più di quanto non appaia
oggi, soprattutto in assenza di un progetto politico e di una scelta di
campo che trasformino il nostro Paese in un vero "custode della pace".
L'alternativa all'Italia armata va ricercata per il momento al di fuori del
palazzo, tra tutti i movimenti, le ONG e le associazioni che affermano con
testarda e lucida determinazione che un altro mondo è possibile, lottando
con gli strumenti "poveri" della controinformazione contro il pensiero
unico dei media globalizzati.
Fino a quando la ricerca della pace non uscirà dal limbo dell'utopia per
diventare un concreto progetto politico, le parole di pace del nostro
Presidente, pur pronunciate con onestà e speranza, saranno parole buone
solo per mettere a tacere la nostra coscienza la notte del 31 dicembre, tra
un panettone e uno spumante. Oggi più che mai è necessario sostenere e
valorizzare gli "anticorpi" della società civile, stimolare la
partecipazione politica popolare al di fuori dei partiti, tenere sveglia
l'attenzione e lo spirito critico, ricercare canali alternativi di
informazione e di documentazione, ricontrollare somme,
moltiplicazioni, affermazioni e documenti, mettere in discussione persino
gli atti e i bilanci ufficiali prodotti dal Consiglio dei Ministri. Da
Seattle a Palazzo Chigi, la società civile è pronta a far sentire la sua
voce. Politici e guerrafondai sono avvertiti.
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