Un torturatore in Italia - vita e opere di Jorge Troccoli
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- Date: Wed, 26 Dec 2007 18:11:56 +0100
Un
torturatore in Italia – vita e opere di Jorge Troccoli Jorge
Troccoli, il torturatore uruguayano arrestato il 24 dicembre a Salerno, non è
un boia qualsiasi. Scrisse un libro, "L'ira del Leviatano", nel quale
rivendicava i suoi crimini e pretendeva di frequentare l'Università come uno
studente qualsiasi. La sua storia è paradigmatica della mentalità del
repressore latinoamericano che non ha mai abiurato. Ma adesso che un passaporto
italiano potrebbe evitargli l'estradizione, non si vergogna a proclamarsi
innocente. Ufficiale
della Marina Orientale, fondata 170 anni fa da Giuseppe Garibaldi, Jorge
Troccoli dopo la dittatura (1973-1985) fu tra i pochi a sentire il bisogno di
articolare una difesa del suo operato che andasse oltre le parole d'ordine da
guerra fredda. Ne nacque un libro, "L'ira del Leviatano". Senza
uscire da una logica giustificazionista delle violazioni dei diritti umani, vi
si leggeva una sorta di più complessa rivendicazione dell'azione che pretendeva
di aver svolto in difesa della patria, una patria dove gli anticorpi, i
militari, dovevano farsi carico di combattere l'infezione democratica a qualunque
prezzo. Con
"L'ira del Leviatano", emergeva la pretesa di Troccoli di essere
riconosciuto come un servitore dello stato; voleva essere un rispettabile
rappresentante della sua storia, magari frequentare talk show, in quanto
torturatore, come se fosse normale. L'ufficiale di Marina con "L'ira del
Leviatano" pretendeva insomma di andare in giro a testa alta. Come se la
picana elettrica, il vomito del supplizio, la diarrea degli sfinteri dei
torturandi incontrollati per il terrore, il liquido seminale degli stupri, il
sangue delle ferite che sgorgava a fiotti, le ossa spezzate di quel
sant'Uffizio moderno, i cadaveri putridi o i corpi ancora vivi gettati nel
grande fiume, non lo avessero in nessun modo schizzato, macchiato, insozzato. O
almeno lui, Jorge Troccoli non si sentiva infangato dalla macelleria della
quale era stato protagonista e continuava a vedersi pulcro nella sua bianca
divisa di gala da ufficiale di Marina. Mi
incrociai di nuovo con la presenza di Jorge Troccoli a Montevideo alla fine
degli anni '90. Nonostante la democrazia formale fosse stata restaurata in
Uruguay da più di 10 anni, il patto tra politici e militari per l'impunità
vigeva rigidissimo. Troccoli e tutti gli altri repressori erano liberi
cittadini. Non rispettati, ma liberi. HIJOS, l'organizzazione dei figli di
detenuti politici e desaparecidos, teneva alta la guardia facendo informazione
di strada. Andavano nei quartieri e chiamavano quelle azioni informative e
riparatorie "escratche". "Qui vive un torturatore",
spiegavano ai vicini, distribuivano volantini, macchiavano di rosso sangue le
mura dei condomini bene di Pocitos e di Malvín. Il presidente di allora, Julio
María Sanguinetti, per questo additava come terroristi quei ragazzi cresciuti
nei parlatori delle carceri politiche. Nessuno,
neanche HIJOS, credo che però avesse individuato Troccoli e tantomeno fosse
riuscita ad escracharlo. Dai suoi cinquant'anni ben portati si iscrisse e prese
a frequentare la Facoltà di Scienze sociali dell'Università della Repubblica.
Cordiale, più di una persona, studenti e docenti, mi raccontavano stupiti di
aver chiacchierato con lui, scambiato appunti e qualche mate. Era uno studente
attempato qualsiasi, assiduo, partecipe e con buon profitto. Ancora una volta
Jorge Troccoli voleva sfuggire al suo passato senza abiurarlo né smettere di
rivendicarlo, come il suo libro aveva testimoniato. Poi
qualcuno lo riconobbe: quello studente in Scienze sociali è Troccoli, il
marinaio torturatore. Si aprì un dibattito e gli studenti finirono per votare e
decidere: non vogliamo un torturatore come compagno di banco, se non lo
allontana il decanato, lo espelliamo noi. La polemica nel paese durò molti
giorni. Lui riuscì a passare da vittima, sono un libero cittadino, ma alla fine
dovette fare un passo indietro evitando il braccio di ferro. Non era con la
forza che il torturatore voleva essere accolto. Non si limitava a godere delle
"rendite da genocidio", ville con piscina, proprietà, auto di lusso,
che tutti i sodali delle dittature hanno accumulato. A lui non bastava,
pretendeva di essere compreso, amato e stimato perfino dagli studenti
universitari, spesso figli di persone che lui stesso aveva tormentato. Troccoli
voleva più dell'impunità, voleva quello che in nessuna società umana quelli
come lui possono pretendere se non con la forza della paura; voleva il
rispetto. Poi
il clima è cambiato. Quando pochi giorni fa Gregorio Álvarez, il dittatore del
quale fu uno stretto collaboratore, fu arrestato a Montevideo, il mandato di
cattura a lui riservato lo trovò già da tempo latitante. Si sapeva che era in
Italia e qui è stato arrestato la vigilia di Natale. Qualcuno nel 2002 ha ben
pensato di concedergli la cittadinanza italiana nonostante ne fosse palesemente
indegno. E lui se ne fa scudo per evitare che la giustizia faccia il suo corso. Adesso
Troccoli non sfida più l’opinione pubblica, non rivendica più il Leviatano né
pretende rispetto. Anzi, per la prima volta si dichiara innocente e
perseguitato da un paese che sta finalmente facendo i conti con il proprio passato.
I calcoli di Troccoli sono molto più spiccioli e si avvicinano a quelli di un
delinquente comune. “Ho fiducia nella giustizia italiana” afferma, e suona
sinistro pensare che anche per lui oggi l’Italia possa essere il luogo
dell’impunità. In quanto cittadino italiano non sarà estradato in Uruguay e
tanto gli basta. E l’onore della bianca divisa da ufficiale di marina è stata
sempre una pietosa bugia. |
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