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Salvate il soldato Carlos
http://www.ilmanifesto.it/oggi/art18.html
PATRICIA LOMBROSO NEW YORK
«Ero in Iraq, ho chiesto una licenza di due settimane. E ho disertato».
Intervista a Carlos, immigrato spedito in prima linea con la promessa di un
passaporto. Sei mesi di combattimenti e poi la scelta di gettare la divisa:
«Non voglio più continuare, questa guerra è immorale. Macchè liberatori,
abbiamo ucciso tanti, troppi iracheni. Qualcuno impazziva, dopo la missione
stava per ore seduto davanti al muro senza parlare. Qualcuno si è
suicidato...»
Il soldato di fanteria Carlos, nicaraguense di 28 anni, vive negli Stati
uniti con la «green card». Fa parte del corpo dell'esercito americano
(39.000 uomini) a cui è stato promesso dal Pentagono di accelerare la
pratica per ottenere la cittadinanza americana in tre anni, invece dei
cinque o più richiesti. Ha una bambina di tre anni. Dopo otto anni di
carriera nell'esercito americano in Texas, per un salario di 14mila dollari
l'anno più benefit che gli consente di continuare gli studi, si arruola
nella Guardia nazionale alla base militare di Fort Stewart. Sono i primi
prescelti dal Pentagono, a marzo, per essere inviati in Iraq, ignari di
combattere in una guerra. Le missioni a loro riservate sono le più rischiose
e di prima linea - «palle di cannone», dichiara Carlos. E' sempre contrario
alla guerra in Iraq. Al suo rientro in Usa ha deciso di disertare
l'esercito. Dal 15 ottobre scorso vive in clandestinità, sapendo di essere
ricercato come «absent of duty». Contro di lui c'è un mandato di cattura.
Questa è la sua prima intervista da quando vive «underground». Carlos non è
il suo vero nome.
La sua decisione di rientrare negli Stati uniti è dovuta al termine della
sua missione in Iraq o altro?
Sono tornato negli Usa dal fronte di prima linea in Iraq perché il mio visto
di immigrazione stava per scadere. Ho chiesto una licenza di due settimane
al mio comandante per espletare queste pratiche e dovevo poi tornare in
prima linea. Ho deciso invece di non voler più tornare in Iraq. Ora è
entrato in vigore l'ordine esecutivo approvato da Bush, lo «stop loss»: il
77% degli arruolati volontari non potrà più lasciare il servizio militare in
circostanze come quelle della guerra in Iraq.
Quale è il motivo della sua diserzione?
Non volevo più continuare ad essere partecipe in una guerra che non
condivido.
E' una decisione presa in conseguenza a quanto ha vissuto durante questi sei
mesi al fronte in Iraq?
No. Sono stato contrario a questa guerra sin dall'inizio, ancor prima di
essere spedito al fronte. Questa è una guerra immorale. Non cerco di evitare
il servizio militare. Sto cercando di evitare questa guerra. Ritengo sia una
guerra criminale. Il Pentagono, forse, mi considera un disertore, ma non
ritengo, avendo firmato un contratto con il servizio militare, di essere
obbligato a fare cose che vanno contro i miei principi morali. Anche prima
di questa guerra ero un essere umano con dei principi morali. Sento
l'obbligo di non venir meno al contratto con l'esercito americano. Forse
pagherò amaramente per questo contratto cui sono venuto meno. Se un caso
simile al mio viene pubblicizzato, il Pentagono è in grado di rovinarti la
vita.
E' una decisione che la rende tranquillo anche se dovesse pagare con la
prigione?
Anche se questa mia decisione comporta la galera.
Ci racconta la sua storia?
Nella mia carriera militare sono stato arruolato in Texas come «active
duty», servizio attivo. Quando sono uscito dall'esercito e mi sono arruolato
nella Guardia nazionale sono stato incoraggiato a rimanere arruolato
nell'esercito con la promessa di accelerare il processo per acquisire la
cittadinanza americana in un numero di anni inferiore: tre anni invece dei
cinque prescritti per chi fa parte dell'esercito americano. Quando stavo per
terminare il mio mandato con la Guardia nazionale, a gennaio di quest'anno,
i miei superiori a Fort Stewart mi comunicarono che non avrei potuto
lasciare l'esercito, a maggio di quest'anno, perché il nostro gruppo, grazie
all'«ordine esecutivo» del presidente Bush, era diventato parte
dell'esercito con «effective duty» in Iraq.
Ha ottenuto la cittadinanza americana promessa, per essersi arruolato nella
Guardia nazionale e andare in missione in Iraq?.
No.
La sua aspirazione era quella di regolarizzare il visto di immigrazione e
diventare un cittadino americano?
Non ho mai cercato di diventare un cittadino Usa, anche se sono cresciuto
qui e vi ho fatto gli studi. Ma questa è stata la promessa offerta a noi
39.000 non cittadini Usa, ma provenienti da Haiti, Centroamerica, Messico e
paesi del Sud America. Era questo uno dei benefici che si acquisiva per
arruolarsi nell'esercito americano. Sono andato in Iraq con il mio plotone
di fanteria nel marzo scorso, ma non ci dissero che andavamo a combattere e
che ci saremmo trovati in questa guerra. Stavo per terminare gli studi, mi
mancavano tre settimane per terminare il corso al «college». Molti giovani
decidono di arruolarsi per poter studiare ed avere un salario.
Come ha vissuto questi sei mesi nelle prime linee del fronte di guerra in
Iraq?
E' stata un'esperienza orrenda. Traumatizzante. Come semplice soldato di
fanteria, le assicuro che tutte le «missioni» cui venivamo assegnati erano
estremamente a rischio: incursioni nel mezzo della notte per le strade di
Baghdad, attacchi alla ricerca dei soldati della guardia repubblicana di
Saddam Hussein. Ad Al Ramadi, che dista 40 chilometri di Baghdad, la
stazione assegnataci, ho vissuto un'esperienza terrificante, piena di
immagini e storie che mi hanno segnato per sempre.
Ha assistito alla morte di altri commilitoni, giovani come lei o anche di
più?
Durante tutto il periodo che sono stato lì, non ho mai visto un militare
americano ucciso. Ma tanti, troppi iracheni. Ho visto morire molta gente.
Giovani civili e militari. Abbiamo ucciso molta gente. So che abbiamo
ucciso, in battaglia, anche dei bambini. Per fortuna non ero presente in
questi scontri.
Lei porta con sé l'immagine anche di un solo individuo che ricorda di aver
ucciso? Ha visto le persone che uccideva?
Non lo so. So bene che ho aperto il fuoco, ma è difficile sapere se ho la
responsabilità individuale di aver ucciso, perché il fuoco veniva aperto
collettivamente dal gruppo dell'unità di fanteria. Voglio sforzarmi di
pensare che non sia stata mia la pallottola che ha ucciso uomini, donne,
bambini, perché eravamo in molti a far fuoco. E' un modo per cercare un
senso di colpa collettivo. Preferisco pensare sia così. In quei momenti non
ci si pensa. Esistono paura, angoscia, frustrazione. L'addestramento
impartito nelle basi militari per le operazioni di guerra non ha nessun
collegamento con la realtà che si vive poi sul campo. Non ti addestrano ad
avere emozioni, ma soltanto ad eseguire ordini impartiti. Molti militari
sono impazziti. Alcuni al rientro dalle «missioni militari» sono stati per
giorni senza poter parlare e con lo sguardo fisso rivolto contro il muro.
Tutto questo viene coperto da un velo di silenzio dai comandanti superiori,
soprattutto nei casi di tentato suicidio di molti soldati di altre unità.
Eppure l'operazione mediatica di Bush mostra il personale militare Usa in
Iraq con «morale alto, dedito ad una guerra di liberazione del popolo
iracheno».
Personalmente, al fronte, ho cercato di non rendere manifesta questa mia
opposizione a questa guerra ma so che, anche se la maggior parte dei soldati
in Iraq era consapevole che il dissenso veniva punito pagando amaramente, in
privato ammetteva che non esistevano ragioni valide per essere lì in guerra
ad uccidere gli iracheni. La popolazione americana e il mondo intero ha
dovuto credere che Saddam Hussein era responsabile per l'attacco
terroristico dell'11 settembre, ma la leadership che Bush guida non è stata
in grado di provarlo. Ci hanno detto che eravamo lì per rinvenire le armi di
distruzione di massa, non sono stati in grado di provarlo. Sembra a molti di
noi che le motivazioni addotte per questa guerra non possano essere provate.
Siamo stati spediti a migliaia di chilometri di distanza, lontani dalle
nostre case, dalle nostre famiglie per combattere una guerra in Iraq e gli
interrogativi che circolavano nell'esercito erano: Perché siamo qui? Perché
stiamo facendo questo? Perché uccidiamo tanta gente? Perché ci sparano
contro?
Qual'è la sua interpretazione a quest'ultimo quesito?
Non ho mai avuto la sensazione dei «liberatori» per la popolazione irachena.
Quando percorrevamo le strade, a volte i bambini ci venivano incontro, ci
salutavano. Naturalmente questo ci faceva piacere, ma a pensarci bene, la
nostra missione non doveva essere quella di liberare il popolo iracheno, ma
di rinvenire le armi di distruzione di massa, scovare i terroristi. Son
trascorsi mesi e mesi. Siamo ancora lì. Non c'è elettricità, la gente muore
di fame, non ha sicurezza. Quelle stesse persone che ci mostravano amicizia
inizialmente, ora non ci salutano più. Non vogliono più che stiamo a casa
loro. Che tipo di libertà gli portiamo? Questa gente semina bombe per le
strade, attacca le forze italiane, australiane, dell'Onu e della Croce
Rossa, perché visti come coloro che collaborano all'occupazione americana in
Iraq, ma il bersaglio colpito dalla resistenza locale irachena è diretto
sempre contro la principale forza occupante: ovvero gli Stati uniti.