L’ANTIETICA DELLA LOTTERIA
Giorgio Ruffolo, in "Repubblica" del 24 giugno 2003 analizza il concetto di uguaglianza, nella evoluzione che ha subito in USA, il maggior paese capitalista, durante il XX secolo. Dopo un periodo di capitalismo selvaggio, terminato con la grande crisi degli anni trenta, subentrò la presidenza democratica di Roosevelt e una spinta verso un miglior trattamento dei ceti deboli. Dall’inizio degli anni ’70, insieme a un lungo periodo di crescita, cambia radicalmente la struttura del capitalismo. Ruffolo segue il ragionamento di Paul Krugman e ricorda che nel periodo democratico il capitalismo americano si affidò a una classe di tecnocrati "… selezionati attraverso dure carriere e cooptati al riparo dei capricci di un azionariato sempre più diffuso. Quei tecnocrati erano molto più preoccupati dello sviluppo di lungo periodo della Grande Impresa (la Tecnostruttura, la battezzò Galbraith), della espansione delle sue dimensioni complessive, che della massimizzazione a breve termine dei suoi profitti. E quindi, molto più propensi a stabilire rapporti di cooperazione durevole con i lavoratori e con i loro sindacati attraverso la contrattazione collettiva; molto più inclini a stabilizzare le condizioni del mercato attraverso la fissazione oligopolistica dei prezzi; molto più disponibili a collaborare con l'amministrazione pubblica dell'economia, persino entro forme di programmazione concertata. Ora: quella "rivoluzione manageriale" che sembrava stabilizzarsi in una nuova forma di capitalismo tecnocratico è stata spazzata via. Con la globalizzazione, il capitalismo ha vinto una battaglia storica: ha sconfitto, in America e in Europa, la sinistra riformista. Questa è la verità che sta dietro le chiacchiere dei "riformisti della cattedra". Ha sottratto il mercato mondiale alla sovranità degli Stati. Ha mercatizzato gran parte del territorio conquistato dallo Stato sociale. E, soprattutto, ha rimercatizzato la grande impresa capitalistica, riconsegnandola al controllo del capitale finanziarlo. La Tecnostruttura si è dissolta in una rete di centri di profitto che competono tra loro. I managers sono venduti e comprati, contesi ad altissimi prezzi che misurano la loro "efficienza", cioè la loro abilità nel farsi strada. Come per le stelle dello spettacolo e per i grandi calciatori, i loro redditi riflettono, ben al di là dei loro meriti e demeriti, rendite "posizionali": derivanti, cioè, dalla posizione che essi occupano nella ragnatela gerarchica, che gli permette di fissarsi essi stessi lo stipendio e di influire sul corso delle azioni che costituiscono parte importante del loro reddito… …Ci si può domandare se siamo tornati alla Gilded Age, agli anni del capitalismo selvaggio. La risposta è no, per ragioni rassicuranti e per ragioni inquietanti. Le prime riguardano la politica economica, che è ben lontana dall'ottusità del liberalismo economico degli anni venti; e la politica sociale: quel che resta, nonostante tutto della rete di protezione sociale intessuta dai governi democratici. Le altre riguardano l'esasperazione delle diseguaglianze, e la fiacchezza della reazione che esse suscitano in una opinione pubblica che sembra rassegnarvisi. La portata della diseguaglianza non è misurata solo dalla favolosa distanza che si è creata tra i più fortunati e la gente comune in termini di reddito (da 70 volte a 30° volte negli ultimi trent'anni), ma dalla tendenza alla secessione sociale. E cioè alla formazione di mondi separati che si allontanano l’uno dall'altro: come quelli dei supermanagers pagati 120 milioni di dollari l'anno, e "pensionati" con liquidazioni che comprendono l’uso vitalizio dell'appartamento a Manhattan, il rimborso delle spese vive (vitto e biancheria) e l'uso gratuito dell'aereo aziendale (è il caso, tutt'altro che unico, di Jack Welch, Chief Executive della General Electric, che almeno non ha truccato i conti) e l'altro mondo, quello dell'Odissea dei sotto-sette (lavoratori precari a meno di sette dollari l'ora) raccontata in un reportage dickensiano da Barbara Ehrenreìch, giornalista che ha vissuto per due anni tra di loro, flessibilmente lavorando da sguattera, da cameriera, da donna delle pulizie, da badante (Nich and Dimed, Undercover in Low-Wage, USA, 2001). Per rendere sopportabili le stridenti iniquità sociali che certo non sono mancate nel passato, la cultura delle élites capitalistiche ricorreva a un'etica superiore che potesse riscattarle: la pazienza cattolica, o la morale utilitaristica nelle sue tante versioni, l’austerità calvinista o il mito "eroico" dell'imprenditore schumpeteriano. La peculiarità dei nostro tempo, non soltanto in America, è la rinuncia all'etica (un Premier inglese, Mac Millan, diceva: se volete l'etica, rivolgetevi al vescovo) e il ricorso brutale ma mobilitante a quella che potremmo definire l'antietica della lotteria: il miraggio che, nel gioco di una ridistribuzione perversa dai moltissimi ai pochissimi, ci si possa trovare vincenti. La lotteria è il paradigma di una società che può reggersi solo grazie all'illusione. Era il grande Aristotele, dopo tutto, ad affermare che agli uomini non importa di sapere, ma solo di credere. Il problema è: a quanti e per quanto tempo, basterà credere nei Dulcamara della lotteria globalizzata? Il nuovo capitalismo globalizzato e rimercatizzato potrà fare a meno, a lungo o per sempre, di una base etica? Uno degli economisti più brillanti del secolo scorso, Fred Hirsch, credeva proprio di no, e vedeva nel "rientro morale" la sola speranza del capitalismo di non andare incontro a un nuovo disastro del tipo anni trenta. Precisava però che non è necessario "essere morali". Basta essere tanto intelligenti da farlo credere. Forse anche questo è diventato difficile." La società nonviolenta e liberalsocialista, come la delineava Capitini, rimane tra gli scenari internazionali la più vicina agli studiosi che osservano preoccupati la deriva puramente affaristica del capitalismo americano, giunta, ai giorni nostri, alle tragiche scelte della guerra e del dominio mondiale, incapace di dare risposte etiche e di giustizia alle follie del terrorismo. |