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Lettera
Articolo-lettera aperta dal movimento delle e dei disobbedienti sulle
mobilitazioni contro il G8 di Evian (esce su "liberazione" di sabato
prossimo, visto che il quotidiano ha pubblicato in questi giorni
pesanti accuse al movimento dei disobbedienti, firmate da Bernocchi e
altri "leader" del social forum)
Se c'è un dato che ci consegnano le recenti contestazioni del G8 ad Evian
è quello di un movimento ancora forte e non certo pacificato.
Un movimento che non ha accettato la logica del ritorno alla pura
testimonianza, che non si è limitato a manifestare ma ha cercato di
contrastare e bloccare i lavori del consiglio di guerra che si teneva
all'interno di un'enorme zona rossa completamente militarizzata.
Abbiamo incontrato nei giorni del G8 migliaia di giovani senza
organizzazione, venuti spontaneamente a Ginevra, ad Annemasse e a Losanna
carichi di una forte radicalità e disposti a ribellarsi contro i potenti
della terra. Non erano solo interessati ai dibattiti sul futuro del mondo,
ma anche attenti partecipanti ai workshop sulle forme dell'azione e
desiderosi di confrontarsi sul problema concreto di come far fallire il
summit.
Questo spirito radicale e ribelle non è sfuggito all'occhio attento di
alcuni "noti leader" e di quanti altri hanno accolto la proposta degli
organizzatori francesi di costituire un servizio d'ordine utile
a dissuadere pedagogicamente i giovani indisponibili a dismettere ogni
tipo di azione durante le manifestazioni transfrontaliere del 1° giugno.
Peccato, soprattutto perché a Genova non fu così.
A Genova eravamo tutti – non è vero, compagni? - convinti e decisi ad
invadere la zona rossa. Anche se con modalità diverse abbiamo condiviso
allora un'esperienza di contestazione che non si limitava a
manifestare ma interpretava il messaggio di Seattle e proseguiva nel solco
della resistenza ai poteri globali.
Da Genova ad Evian è passata tanta strada e sono in molti quelli che
vorrebbero dimenticare Genova. Noi non siamo tra questi e vogliamo impedire
che si scavi un solco tra i manifestanti pacifici e quelli
disposti alla resistenza ed alla disobbedienza attiva. A Genova il
movimento venne sorpreso da una dinamica genericamente definita "black"
nella quale si nascosero gruppi che non volevano
contestare il G8 ma colpire il movimento.
Noi, quelli dello stadio Carlini e di via Tolemaide, risentimmo molto meno
di quei problemi perché avevamo deciso di disobbedire ed eravamo pronti a
farlo, ma restammo ugualmente impressionati da un meccanismo che non si era
mai presentato in quelle forme. I nostri giudizi sono stati segnati da
quell'esperienza.
In questo contro-vertice abbiamo incontrato una realtà diversa, più
matura, non contro ma dentro il movimento, con la voglia di ribellarsi ma
anche di relazionarsi alle città. Bernocchi, forse troppo impegnato in
interminabili riunioni nelle segrete stanze di presunte "direzioni del
movimento", ha visto solo i casseurs (problema anzitutto sociale, che
meriterebbe d'esser affrontato seriamente). Ma c'è stato molto altro per le
strade di Losanna, di Ginevra e di Annemasse: ci sono stati i blocchi, le
sanzioni dal basso, le barricate, le street parade. In una pluralità di
forme che si sono rispettate ed hanno rispettato tutte e tutti i
manifestanti, al di là delle fobie dei "quartier generali", pur marcando il
limite rischioso della separatezza tra confronti "di programma" ed azione
diretta. Ma, ancora, in una dimensione resistente e riconfermata di
movimento globale, che è la base per superare quel limite; e che abbiamo
cercato di vivere con umiltà – dato il ritardo generale dei movimenti
italiani nel connettersi al percorso di quella protesta - e con entusiasmo,
collocandoci ovunque ci sembrava si facesse qualcosa di realmente utile ad
ostacolare il vertice dei potenti ed a comunicare questa determinazione
alla popolazione ed al mondo.
Altri invece stanno perdendo forse il gusto di essere movimento tra i
movimenti, di contribuire ad un percorso costituente di un altro mondo
possibile tra altri e diversi, di fare della propria "isola" di
resistenza una barca per incontrare le altre e scoprirne di nuove, come
scrivono gli zapatisti. Si scivola così in una dinamica asfittica di pura
rappresentanza, la stessa che è in crisi nelle istituzioni politiche. E si
finisce per invocare l'uso dei servizi d'ordine per colpire i "devianti".
Dentro il movimento contro la guerra provammo a porre le stesse domande,
magari maldestramente: ma l'interrogativo "come fermare la guerra?" venne
completamente eluso da quanti già rivelavano indizi di questa deriva dei
"gruppi dirigenti". Il fatto che l'opinione pubblica mondiale non fosse
riuscita a fermare i governi della guerra venne considerato un dato
scontato ed ineluttabile: con il risultato non solo di lasciare il
movimento a corto di risposte immediate, ma anche di rendersi sordi alle
domande su come sostenere la lotta contro una guerra davvero prolungata
oltre la caduca vittoria
dell'"Asse del bene" sull'Iraq. In questo modo si è considerato il
"dopoguerra" uguale alla vigilia dell'attacco, in un'ottica che voleva il
movimento ridotto a puro bacino di consenso. Così non è
stato, come dimostra la rottura della sinistra blairiana coi movimenti,
nel voto per la "ricostruzione" di Bush. E come dimostrano le proteste di
Evian.
Questo contro-G8 ci dice che i sogni sono duri a morire e che i ribelli
sono tanti. Differenti e con molti problemi, certo: ma tutti irriducibili a
qualsiasi lettura omologatrice, politicista e pedagogica.
Anche e soprattutto quando a tentare d'imporla sono i "leader", che si
definiscano o meno "antagonisti".
Noi, piuttosto, proviamo a cogliere una domanda aperta ed irrisolta:
come intrecciare ancora e di nuovo reti europee e globali che rendano
questa pluralità produttiva e non sterile, queste resistenze un processo di
trasformazione e non di testimonianza.
Dal movimento delle e dei disobbedienti:
Barbara Barbieri, Francesco Caruso, Luca Casarini, Anubi D'Avossa
Lussurgiu, Gian Marco De Pieri, Alessandra Ferraro, Nicola Fratoianni,
Guido Lutrario, Francesco Raparelli, Enrica Sarto,Marta Stefanelli