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PACEM IN TERRIS-LA PACE PREVENTIVA DI GIOVANNI XXIII



Bologna, domenica 13 aprile 2003

Leggo su "il manifesto" di venerdì 11 Aprile 2003 (a pag. 15) l'articolo di
G. SANTOMASSIMO (vedi qui di seguito E ANCHE IN ALLEGATO) che ricorda
l'enciclica "Pacem in terris" nel 40° anniversario della sua pubblicazione.
Mi sembra un'analisi molto completa e anche molto ben fatta: è l'enciclica
del ripudio assoluto della guerra. (N.B. le sottolineature sono mie)

Ma allora sorge un dubbio. Mi chiedo e vi chiedo: come è possibile che
(molti anni dopo questo "ripudio assoluto della guerra") Papa Wojtyla abbia
firmato il "Catechismo della Chiesa Cattolica" (CCC - promulgato appunto
dall'attuale pontefice Giovanni Paolo II l'11 ottobre 1992) ove si legge al
PARAGRAFO 2309 (guerra giusta)

2309 - Si devono considerare con rigore le strette condizioni che
giustificano una legittima difesa con la forza militare. Tale decisione,
per la sua gravità, è sottomessa a rigorose condizioni di legittimità
morale. Occorre contemporaneamente:

- Che il danno causato dall'aggressore alla nazione o alla comunità delle
nazioni sia durevole, grave e certo.

- Che tutti gli altri mezzi per porvi fine si siano rivelati impraticabili
o inefficaci.

- Che ci siano fondate condizioni di successo.

- Che il ricorso alle armi non provochi mali e disordini più gravi del male
da eliminare. Nella valutazione di questa condizione ha un grandissimo peso
la potenza dei moderni mezzi di distruzione.

Questi sono gli elementi tradizionali elencati nella dottrina detta della
«guerra giusta ».

La valutazione di tali condizioni di legittimità morale spetta al giudizio
prudente di coloro che hanno la responsabilità del bene comune.

Altro dubbio: non è un po' piratesco affermare che "ŠLa valutazione di tali
condizioni di legittimità morale spetta al giudizio prudente di coloro che
hanno la responsabilità del bene comuneŠ" Chi sono, mi domando "coloro che
hanno la responsabilità del bene comune"? Forse (vedi paragrafo 2266) i
detentori della cosiddetta "legittima autorità pubblica"? Ma chi sono
costoro? Forse nel passato si chiamavano Mussolini, Hitler.. e ora Saddam?
Oppure oggi è solo Bush?

Ringrazio fin d'ora chi cercherà di chiarire tutti questi miei dubbi!

Shalom-salaam a tutti, ma proprio a tutti, anche e soprattutto a chi crede
che le controversie internazionali si possano risolvere con le guerre,
specie quelle "preventive"

Domenico Manaresi (tentativamente cristiano, senza ulteriori aggettivi)

Mitt. Domenico Manaresi - e-mail: bon4084@iperbole.bologna.it



LA PACE PREVENTIVA DI GIOVANNI XXIII

GIANPASQUALE SANTOMASSIMO


La pace preventiva di Giovanni XXIII-11 aprile 1963, «Pacem in terris».
L'enciclica del ripudio assoluto della guerra: «Alienum est a ratione,
bellum». Aperta al mondo, centrata sulle condizioni della pace, oggi appare
come una delle grandi Carte dei diritti dell'«altro `900» fatto non solo di
massacri ma di tentativi collettivi per una pace possibile


Alienum est a ratione, bellum... E' il ripudio più radicale e assoluto
della guerra, mai espresso in termini simili prima di quell'11 aprile del
1963 in cui venne diffuso il testo della Pacem in terris. Per scoprire però
questa definizione dobbiamo cercarla all'interno del testo latino, come
bisognerebbe sempre leggere le Encicliche, ma come nessuno fa, tranne gli
specialisti e i teologi. Nel testo si dice che in una età come la nostra,
quae vi atomica gloriatur, alienum est a ratione, bellum iam aptum esse ad
violata iura sarcienda. Ma la traduzione italiana edulcora molto il senso
dell'affermazione: riesce quasi impossibile pensare che nell'era atomica la
guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia.

C'è un «quasi» che è del tutto privo di senso e non si capisce perché e da
chi sia stato inserito, e il ragionamento viene dirottato sul piano del
«pensare» e della «potenzialità», anziché della constatazione inequivoca di
un dato di fatto.

Torna ad aleggiare, nella forma adottata, l'eco lontana della «guerra
giusta», tradizionale nella dottrina, e che in realtà l'Enciclica nel testo
autentico e nello spirito vuol lasciarsi alle spalle. Sulla traduzione
italiana si modellano quasi tutte le altre versioni, da quella francese per
cui è «umanamente impossibile pensare che la guerra sia un mezzo
adeguato...», a quella inglese che edulcora ulteriormente affermando che
non ha senso pensare che la guerra sia a fit (adatto, idoneo, conveniente)
instrument. Leggermente più fedele al testo la versione spagnola, per cui
resulta un absurdo pensar que la guerra sea un medio apto para restaurar el
derecho violado. Ma nessuna versione restituisce pienamente il senso della
alienità, della estraneità totale, che alla guerra viene attribuita in nome
della ragione umana e divina.

Pur con tutte le prudenze e le cautele interpretative il senso della Pacem
in terris venne colto pienamente nel suo significato. Angelo Roncalli aveva
voluto firmare pubblicamente l'Enciclica - cosa mai avvenuta in precedenza
- sotto gli occhi delle telecamere, quasi a voler rimarcare importanza e
universalità di un testo che per la prima volta si rivolgeva al di là della
cerchia dei fedeli, indirizzata com'era nell'intestazione e nella chiusa «a
tutti gli uomini di buona volontà». Vi fu anche per questo chi parlò di
laicità dell'Enciclica. Che non voleva essere notazione irriverente, ma la
constatazione di una novità di metodo e di linguaggio.

Il metodo era (come già prima nella Mater et magistra) induttivo e non
deduttivo, descriveva la realtà e ne traeva indicazioni, non deduceva come
in passato dalla dottrina precetti e indirizzi. Il linguaggio era semplice
e piano, quello dei discorsi di Roncalli così diversi nel tono dal suo
predecessore. Che pure era comprensibilmente e con senso di continuità la
fonte più citata nell'Enciclica. Ma era un Pacelli molto particolare,
soprattutto quello dei Radiomessaggi, e tra essi quelli del tempo di
guerra, che molto avevano colpito i contemporanei, e tra cui si trova
l'unica frase (Nulla è perduto con la pace. Tutto può essere perduto con la
guerra, del 24 agosto 1939) che sia sopravvissuta nella memoria popolare
all'arida oratoria del personaggio. E il nuovo Papa pensava probabilmente
al lascito di Pio XII quando notava nel Diario dell'anima, il 13 agosto
1961, che «comunemente si crede e si approva che il linguaggio... del Papa
sappia di mistero e di terrore circospetto» laddove invece era più conforme
all'insegnamento di Gesù «la semplicità più attraente» («La semplicità può
suscitare, non dico disprezzo, ma minore considerazione presso i saccenti.
Poco importa dei saccenti...»). Ma a quarant'anni di distanza, se
comprendiamo in tutto il loro rilievo i motivi che all'epoca fecero
scalpore, ne scopriamo altri che vanno molto al di là della congiuntura
epocale in cui testo venne letto o percepito e che attribuiscono alla Pacem
in terris una vitalità, un senso del futuro, che parla direttamente a noi.
Cerchiamo di distinguere, quindi, fra i due ordini di problemi, ma in primo
luogo accenniamo al personaggio e, appunto, alla sua complessa e
problematica semplicità.

Chiariamo subito che Angelo Roncalli non era, né voleva essere, un
«rivoluzionario». Don Giuseppe De Luca, il massimo animatore della storia
della pietà nell'Italia del Novecento - e intermediario del Papa attraverso
Togliatti con Kruscev -, definì il suo pontificato, forse guardando anche a
se stesso e intrecciando i ricordi di una povera chiesa lucana e di una
altrettanto povera chiesa bergamasca, nei termini di una restaurazione, di
una restitutio in integrum della Chiesa, «che risuscita dal fondo remoto
degli anni». Una Chiesa antica, descritta bene da Roncalli nell'immagine
ricorrente della «fontana del villaggio», e che doveva tornare ad essere (o
doveva finalmente diventare) «Chiesa di tutti e in particolare Chiesa dei
poveri». Ma forse con qualcosa di ancora più antico, che derivava
dall'unica grande passione che l'uomo coltivò accanto alla missione
pastorale. Angelo Roncalli aveva un grande senso della storia - e
dell'erudizione storica - e fu studioso per tutta la vita del Concilio di
Trento, di Carlo Borromeo e di Cesare Baronio. Il tempo storico era quello
che la cultura laica definì Controriforma, ma che fu in realtà l'unica
grande autoriforma cattolica prima del Concilio Vaticano II, tesa a
confrontarsi in profondità con i tempi nuovi e a impostare su basi più
solide identità e ruolo della Chiesa. Restaurare o meglio ripensare in
forma nuova il profilo di quella Chiesa finiva per essere di per sé un
fatto rivoluzionario nel mondo dei primi anni Sessanta. Pensiamo al punto
di partenza: la visione corrusca che la Chiesa aveva del mondo nel 1958.
Una Chiesa apparentemente trionfante, ma che si sentiva assediata da
insidie, nemici e peccatori, «parte» di un mondo in lotta contro altri. Ora
il Papa cessava di essere il Cappellano dell'Occidente e si apriva al
mondo: del resto le uniche doti che Roncalli si attribuiva, nel presentarsi
da Patriarca ai veneziani nel 1953, erano quelle di essere stato tratto
dalla Provvidenza a «percorrere le vie del mondo in oriente e in occidente,
accostandomi a gente di religione e di ideologie diverse... conservandomi
sempre la calma dell'equilibrio e dell'apprezzamento». Stava proprio qui
l'impatto più immediato dell'Enciclica: la Chiesa si lasciava alle spalle
la cultura del nemico e la mentalità di crociata (il termine era stato
subito bandito anche nei suoi aspetti metaforici e sostanzialmente innocui:
crociata eucaristica, missionaria, ecc.). Ora la Chiesa non solo non
considerava più alcun uomo nemico, ma riconosceva che i movimenti reali
degli uomini, da qualunque dottrina fossero nati, agivano «sulle situazioni
storiche» che si evolvevano e da queste erano condizionati in direzione di
«mutamenti anche profondi». E qui si poneva l'interrogativo più nuovo e
«scandaloso» per la mentalità corrente: «chi può negare che in quei
movimenti, nella misura in cui sono conformi ai dettami della retta ragione
e si fanno interpreti delle giuste aspirazioni della persona umana, vi
siano elementi positivi e meritevoli di approvazione?». Per cautela si
aggiungeva che solo «la virtù della prudenza» poteva decidere quando
«avvicinamento e incontro di ordine pratico» potevano oggi o domani
verificarsi. Quella famosa distinzione fra l'errore e l'errante, su cui
tanto si discusse, oggi la leggiamo in termini molto più ampi, che vanno al
di là della congiuntura: non solo di mondo socialista si voleva parlare, in
realtà, e la volontà di un dialogo andava ben oltre quello che sarebbe
diventato in quegli anni «il» dialogo per eccellenza, tra cattolici e
comunisti. I due Giovanni e pace un po' alla buona... riassumeva quindici
anni dopo una canzone dedicata a quanti avevano portato un eskimo
innocente. L'altro Giovanni era John Fitzgerald Kennedy, il più
sopravvalutato presidente degli Stati Uniti e divenuto, malgré soi,
un'icona pacifista. Ed è davvero probabile che la percezione di Giovanni
XXIII sia divenuta nel tempo quella di un tassello di un generico
sentimento di pace dei primi anni Sessanta. Ma tutto si può dire della
Pacem in terris tranne che sia documento di un pacifismo «generico». Le
affermazioni su guerra e pace sono pressappoco un decimo del testo, che è
dedicato in realtà alle «condizioni» della pace. Queste si ottengono in
primo luogo rispettando e promovendo diritti che sono universali,
inviolabili, inalienabili. Diritti «all'esistenza, all'integrità fisica, ai
mezzi indispensabili e sufficienti per un dignitoso tenore di vita,
specialmente per quanto riguarda l'alimentazione, il vestiario,
l'abitazione, il riposo, le cure mediche, i servizi sociali necessari...
diritto alla sicurezza in caso di malattia, di invalidità, di vedovanza, di
vecchiaia, di disoccupazione, e in ogni altro caso di perdita dei mezzi di
sussistenza...».

Colpisce oggi che uno dei primi diritti enunciati sia il Diritto di
emigrazione e di immigrazione che è dovuto ad ogni essere umano in qualità
di «cittadino della comunità mondiale». Che si collega all'ampia sezione
dedicata, nella parte finale, ai diritti dei «profughi politici», ancora
più meritevoli di considerazione per le «innumerevoli e acutissime
sofferenze» che provano. Il diritto alla proprietà privata è riconosciuto
solo in quanto ad essa «è intrinsecamente inerente una funzione sociale».
Ma sono i Segni dei tempi, capoverso ricorrente e che testimonia appunto
del metodo induttivo già ricordato, che descrivono il quadro nuovo in cui
operare. Tre fenomeni caratterizzano l'epoca moderna, si afferma:
«anzitutto l'ascesa economico-sociale delle classi lavoratrici», che nel
tempo hanno rivendicato diritti prima economici, poi politici, infine
culturali, e che oggi chiedono di essere considerati «soggetti o persone in
tutti i settori della convivenza», dotati «di intelligenza e di libertà»,
mai «in balia dell'altrui arbitrio». Poi l'ingresso della donna nella vita
pubblica con una coscienza «sempre più chiara e operante della propria
dignità», che «sa di non poter permettere di essere considerata e trattata
come strumento».

Infine la conformazione stessa della «famiglia umana», che non può più
vedere «popoli dominatori e popoli dominati». «In moltissimi esseri umani
si va... dissolvendo il complesso di inferiorità protrattosi per secoli e
millenni; mentre in altri si attenua e tende a scomparire il rispettivo
complesso di superiorità, derivante dal privilegio economico-sociale o dal
sesso o dalla posizione politica. Al contrario è diffusa assai largamente
la convinzione che tutti gli uomini sono uguali per dignità naturale. Per
cui le discriminazioni razziali non trovano più alcuna giustificazione».
L'autorità non può più essere «forza incontrollata», deve muoversi «secondo
ragione», senza fondarsi «sulla minaccia o sul timore di pene o sulla
promessa e attrattiva di premi», non conforme alla «dignità di persone, e
cioè di esseri ragionevoli e liberi». L'autorità dovrebbe essere
soprattutto «forza morale» e nessuno «può obbligare gli altri
interiormente». E' dovere dei poteri pubblici favorire l'eliminazione degli
«squilibri economici, sociali e culturali tra gli esseri umani» che
«tendono, soprattutto nell'epoca nostra, ad accentuarsi; di conseguenza i
fondamentali diritti della persona rischiano di rimanere privi di
contenuto». Non è possibile «stabilire, una volta per sempre, qual è la
struttura migliore secondo cui devono organizzarsi i poteri pubblici»,
giacché struttura e funzionamento di essi «non possono non essere in
relazione con le situazioni storiche delle rispettive comunità politiche...
che variano nello spazio e mutano nel tempo». Ma è rispondente ad esigenze
«insite nella stessa natura degli uomini» una organizzazione «fondata su
una conveniente divisione dei poteri». Non esistono «comunità politiche
superiori per natura e comunità politiche inferiori per natura: tutte...
sono uguali per dignità naturale»; e, si aggiunge, non va dimenticato «che
i popoli, a ragione, sono sensibilissimi in materia di dignità e di onore».
Non è lecito alle comunità politiche «sviluppare se stesse comprimendo od
opprimendo le altre». E' solo a questo punto che si introduce il tema vero
e proprio della pace, preceduto da un'ampia sezione dedicata al disarmo.
Gli armamenti giganteschi «si sogliono giustificare adducendo il motivo che
se una pace oggi è possibile, non può essere che la pace fondata
sull'equilibrio delle forze». In conseguenza gli esseri umani «vivono sotto
l'incubo di un uragano che potrebbe scatenarsi ad ogni istante con una
travolgenza inimmaginabile». Ma «giustizia, saggezza ed umanità domandano
che venga arrestata la corsa agli armamenti... si mettano al bando le armi
nucleari; e si pervenga finalmente al disarmo integrato da controlli
efficaci». La vera pace si può costruire soltanto nella «vicendevole
fiducia», obiettivo «reclamato dalla retta ragione... desideratissimo...
della più alta utilità».

L'appello ai politici è quello di «imprimere alle cose un corso ragionevole
ed umano», istituendo rapporti «regolati nella libertà». Il che significa
che nessuna comunità «ha il diritto di esercitare un'azione oppressiva
sulle altre o di indebita ingerenza». Le eventuali controversie tra i
popoli debbono essere risolte attraverso il negoziato. E qui si cita
l'unico documento extraecclesiale, la Dichiarazione universale dei diritti
dell'uomo approvata dall'Onu il 10 dicembre 1948, che segna «un passo
importante nel cammino verso l'organizzazione della comunità mondiale». In
esso infatti «viene riconosciuta, nella forma più solenne, la dignità di
persona a tutti gli esseri umani; e viene di conseguenza proclamato come
loro fondamentale diritto quello di muoversi liberamente nella ricerca del
vero, nell'attuazione del bene morale e della giustizia; e il diritto a una
vita dignitosa».

Proprio su questo terreno, e attraverso questo richiamo esplicito,
comprendiamo meglio il senso che assume oggi ai nostri occhi la Pacem in
terris: quello di una delle grandi Carte dei Diritti del Novecento. Parte
autorevole e solenne dell'«altro Novecento», secolo non fatto solo di
guerre e di massacri, ma di tentativi collettivi di costruzione di una pace
possibile. Della ricerca e della delineazione di una pace preventiva, se è
lecito rovesciare i termini della orrenda dottrina che oggi domina il
mondo. Di quanti sacrifici umani avrà bisogno il dio primitivo dell'11
settembre prima di sentirsi placato? Gli uomini di buona volontà a cui la
Pacem in terris era rivolta hanno nel tempo acquisito pienamente il senso
di quel messaggio, che è divenuto parte abituale del loro senso comune, e
sono oggi la grande maggioranza nel mondo. Invertendo il senso delle ultime
parole di un martire laico del Novecento, Salvador Allende, possiamo dire
che essi hanno la ragione, ma non hanno la forza. In un mondo che torna ad
essere dominato dalla «forza incontrollata» che nel 1963 si riteneva
appartenesse ormai al passato. Dove, nelle parole dell'ultimo Pontefice, il
silenzio di Dio non significa accettazione della «vittoria dei perversi»,
ma «la terra è diventata un cimitero, un grande pianeta di tombe».

GIANPASQUALE SANTOMASSIMO