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Un mio intervento sul sito di Mostallino: "L'Onu e il no a tuttii conflitti"
- Subject: Un mio intervento sul sito di Mostallino: "L'Onu e il no a tuttii conflitti"
- From: "Walter Falgio" <falgio@unionesarda.it>
- Date: Tue, 1 Apr 2003 10:48:37 +0200
Un mio intervento sul nuovo sito del giornalista Marco Mostallino: "L'Onu e
il no a tutti i conflitti".
<http://www.diariodiguerra.com/>http://www.diariodiguerra.com/
walter
IL NO ALLA GUERRA E' NELLA CARTA DELL'ONU
Intervento di Walter Falgio (falgio@unionesarda.it) all'incontro "La Pace
non è un sogno" tenuto il 26 marzo 2003 a Cagliari e organizzato dal clan
"Il Girasole" del gruppo scout AGESCI Cagliari 3.
Sono contro la guerra perché non abbiamo più chances. La scelta non è più
tra pace e guerra ma tra pace e catastrofe, tra pace e massacro, tra pace e
strage. Negli ultimi cento anni abbiamo assistito a una terribile
escalation del numero delle vittime tra la popolazione. Se nel primo
conflitto mondiale le vittime civili sono state il 15 per cento del totale
e nel secondo conflitto sono arrivate al 65 per cento, negli ultimi decenni
si è superato il 90 per cento. Questo è un aspetto che nessuno dovrebbe più
tollerare. La morte di un bambino, di una mamma, di un vecchio, di uomini e
donne che la guerra possono solo subire, che nulla possono fare per
evitarla e nulla hanno fatto per scatenarla.
Sono contro la guerra perché "civiltà" e "libertà" rifiutano la guerra.
Milioni di cittadini oggi la ripudiano, e hanno deciso di manifestarlo
pubblicamente con un movimento popolare senza precedenti.
I Paesi vincitori del secondo conflitto mondiale, con in prima fila gli
Stati Uniti, decisero in una importante conferenza che si tenne a San
Francisco nel 1945 di creare l'Onu, Organizzazione delle Nazioni unite. Lo
scopo era e dovrebbe essere quello di salvare le generazioni future dalla
guerra e di impiegare la diplomazia per promuovere il progresso economico e
sociale di tutti i popoli. Promuovere la libertà dei commerci e la
cooperazione internazionale. E poi, specialmente, rinunciare all'uso della
forza nei rapporti tra gli Stati. Questi principi, alla base dello Statuto
dell'Onu, erano prima di tutto i punti cardine della Carta atlantica,
frutto dell'incontro tra il presidente americano Roosevelt e il primo
ministro britannico Churchill che il 14 agosto del 1941, su una nave da
guerra al largo di Terranova, stabilirono i nuovi assetti dell'ordine
democratico da costruire a guerra finita. Per capirci, l'attacco giapponese
alla base hawaiana di Pearl Harbor è del dicembre '41, per cui la Carta
atlantica viene elaborata poco prima del pieno coinvolgimento statunitense
nella seconda guerra mondiale.
A questo punto ci chiediamo perché la memoria delle tragedie del passato,
ciò che la storia ha insegnato, l'aspirazione ad una pacifica convivenza, è
stata messa in soffitta. Dopo la fine della Guerra fredda gli Usa si sono
affermati come unica superpotenza mondiale, in termini di armamenti,
potenzialità tecnologiche e intelligence. Per la prima volta hanno avuto la
possibilità di imporre un "nuovo" ordine mondiale (il loro ordine mondiale)
fondato su una sicurezza globale e ispirato ai valori occidentali. In
breve, si tratta di imporre una supremazia politica e militare con tutti i
mezzi possibili, superando e dimenticando gli equilibri sui quali si
fondava il "vecchio" ordine mondiale dei blocchi contrapposti. Ma l'aspetto
che qui ci interessa e che deriva da questa premessa di base è
rappresentato dal nuovo modello di guerra derivato dal new world order e
dalla global security. È la guerra globale sganciata da qualunque
limitazione del diritto internazionale. In proposito ci riferiamo
all'accezione che del termine fornisce il filosofo del diritto Danilo Zolo.
Gli Stati Uniti rivendicano la necessità di marcare la propria presenza
militare in qualunque area del pianeta dove possano manifestarsi potenze
ostili e, specialmente, l'esigenza di accedere alle risorse energetiche più
importanti. Gli Usa consumano un quarto del petrolio mondiale e secondo i
progetti dell'amministrazione Bush, nei prossimi vent'anni non dovrebbero
esserci grossi sconvolgimenti. Tutti gli americani potranno continuare a
utilizzare le loro auto e consumare il 10 per cento di tutto il petrolio
del globo solo per questo scopo. La richiesta di greggio quindi aumenterà e
di pari passo le riserve statunitensi diminuiranno. Secondo i dati riferiti
dal giornalista Guglielmo Ragozzino, tratti da un recente documento
presidenziale sulla politica energetica nazionale, le importazioni
americane di petrolio dovrebbero passare dall'attuale 63 per cento del
totale consumato al 73 per cento. È fondamentale per l'amministrazione Bush
un'attenta politica sulla distribuzione delle importazioni per assicurarsi
i barili al miglior prezzo possibile senza il rischio che qualcuno chiuda i
rubinetti. Il miglior modo per garantire tutto questo è controllare,
direttamente, aree come il Medio Oriente (l'Iraq è secondo solo all'Arabia
Saudita in termini di risorse petrolifere) o il Caucaso. L'alternativa
sarebbe ridurre i consumi, ma questa pare una strada molto difficile da
praticare (il 55 per cento del petrolio mondiale è consumato da Usa,
Giappone, Germania, Corea del Sud, Francia, Italia, India, Taiwan e Cina).
Poi è arrivato l'11 settembre. Gli Stati Uniti e con loro praticamente
tutto il mondo, hanno espresso una condanna senza precedenti contro il
terrorismo. Gli americani hanno, nei fatti, dichiarato guerra a tutti i
Paesi accusati, a qualunque titolo, di aver collaborato o fornito sostegno
alla rete internazionale del terrore. Questa entità, difficile da definire
e da identificare, è prima di tutto Al Qaeda, struttura radicata con
cellule in diversi stati. Un'organizzazione potente capace di sferrare un
attacco devastante che ha causato migliaia di morti come quello contro le
Twin towers. Si è indicato come capo di questa struttura il miliardario
saudita, Osama Bin Laden. A ottobre del 2001 gli Usa e una coalizione
internazionale, col sostegno Onu, hanno attaccato l'Afghanistan, paese
retto dal regime dei talebani, compromesso, secondo Bush, con i terroristi.
Obiettivi principali Bin Laden e il mullah Omar, alla guida dell'emirato
islamico. Entrambi sarebbero ancora vivi e liberi. Sicuramente non sono
stati catturati. Sicuramente gli Usa si stanno stabilizzando militarmente
in Asia centrale, area importante dal punto di vista energetico, come
abbiamo detto, e dal punto di vista geopolitico per il controllo di Russia
e Cina.
Ma facciamo un passo indietro: la guerra contro l'Iraq è una decisone
unilaterale, assunta, stavolta, senza alcuna copertura Onu, con il netto
dissenso di Paesi come Russia, Francia, Germania, i primi due membri
permanenti del Consiglio di sicurezza. Tuttavia il dissenso di Parigi nasce
anche dal timore di perdere la propria sfera d'influenza in Medio Oriente.
Gli Stati Uniti sono intervenuti direttamente con la Gran Bretagna e altri
Paesi in aperta rottura con le Nazioni unite e causando una spaccatura
nell'Unione: l'Italia, come sappiamo, è schierata con Bush. Peraltro gli
Usa non hanno sufficientemente dimostrato la compromissione di Saddam negli
attacchi terroristici di Al Qaeda. Sono contro questa guerra, dunque,
perché prima di tutto è frutto di una scelta a senso unico, senza l'avallo
Onu e del diritto internazionale. Gli Stati Uniti utilizzano una formula
storicamente parte della loro memoria. Ovvero la possibilità di imporre con
le armi una forma di governo democratico. Questo è successo durante la
seconda guerra mondiale nei confronti di Italia e Germania che però avevano
entro i loro ordinamenti e la loro cultura dei principi democratici. Con
l'Iraq questa operazione è impensabile. Ci troviamo di fronte a una diversa
civiltà, l'Islam, che ha seguito altre strade di sviluppo rispetto alle
nostre e non per questo meno importanti. I governi occidentali non possono
pretendere di esportare e imporre i propri modelli come se fossero i
migliori validi universalmente. La nostra democrazia, il nostro modello di
sviluppo, la nostra economia di mercato sono davvero formule giuste e
infallibili?
Non c'è dubbio che Saddam sia un dittatore sanguinario che ha gasato i
curdi del nord Iraq, abituato ad applicare giustizia sommaria anche nei
confronti dei suoi parenti e più stretti collaboratori e per questo
assimilabile a tutti i peggiori dittatori della storia. Ma Saddam non è
stato sempre isolato. Anzi, ha assunto il ruolo di principale alleato
dell'occidente in chiave anti-Iran e ha pure acquistato molte armi
dall'Europa, soprattutto dalla Francia ma anche dalla Gran Bretagna.
Inoltre bisogna stabilire se gli Stati Uniti abbiano il compito di ripulire
il mondo dai dittatori. Se questo è giusto quali saranno i prossimi Paesi
in lizza per la guerra? l'Iran che starebbe preparando l'atomica o la Siria
che definisce i kamikaze eroi nazionali? Direi che questa logica è molto
pericolosa e potrebbe causare scontri terribili. La politica della guerra
preventiva contro i cosiddetti stati canaglia ci riporta indietro di un
secolo, quando non esistevano le grandi organizzazioni internazionali,
quando gli stati più potenti militarmente tenevano in scacco il mondo ed
erano liberi di scatenare qualunque guerra per ragioni unilaterali e
imperialiste.
Dire queste cose non significa essere antiamericani nel senso banale e
comune del termine. Questo è un punto che mi preme molto chiarire. Cosa
significa intanto essere antiamericani. È una parola che a mio avviso non
ha molto senso. Antiamericani sono coloro che boicottano tutti i prodotti
fabbricati in Usa o da aziende collegate? Iniziativa impossibile, per ovvi
motivi. La pratica del boicottaggio ha senso quando si individua una
multinazionale, per esempio petrolifera, invischiata sino al collo nella
guerra. Sapete di cosa sto parlando, vero? Insomma, tornando al significato
dell'antiamericanismo, vuol dire forse essere contro il popolo americano?
Ma come è possibile essere contro un popolo che rappresenta praticamente
tutte le etnie del mondo (bianchi, neri, messicani, asiatici, amerindi,
cinesi, filippini, giapponesi ecc.) e tutte le religioni (protestante,
anglicana, cattolica, ebrea, musulmana, buddista, induista ecc.). Altra
cosa invece è non condividere le posizioni dell'amministrazione Bush, la
scelta unilaterale di cui parlavamo prima. Una scelta politica è come tale
criticabile, contestabile, parziale. Criticare una scelta politica,
confrontarsi, è la pratica della democrazia. L'importante è usare sempre le
armi del dialogo e della dialettica. Questa scelta, la scelta di Bush, è
stata contestata da un grande movimento mondiale e con grande vigore anche
del Papa. Il pontefice che ha usato parole senza precedenti, è stato duro
come non mai. Ricordo quell'inasprimento del volto che non ho mai visto
prima, quando ha recentemente ribadito il suo dissenso.
Chiudo con le brutte notizie di oggi: in parte arrivano dal grande
dispiegamento mediatico internazionale e in parte da canali paralleli di
controinformazione. Un'altra non trascurabile percentuale di notizie viene
censurata o non si conosce. Oggi dicevo è stato bombardato un mercato di
Baghdad in un quartiere popolare a nord della capitale. Fonti irachene
dicono che almeno due missili sono caduti sul mercato facendo 15 morti e 30
feriti. Un generale del comando centrale Usa in Qatar non conferma,
affermando però che nonostante le eccezionali tecnologie americane, gli
errori sono possibili. Di queste notizie ce ne saranno altre. La guerra
durerà ancora molto, lo dice Bush e lo dicono gli analisti. Il segretario
alla Difesa Donald Rumsfeld aveva ipotizzato una durata da sei giorni o sei
settimane. Sarà invece una guerra difficile anche perché gli angloamericani
potrebbero non essere attrezzati per un conflitto di lunga durata e si
aspettavano un'accoglienza diversa dal popolo iracheno. Assediare Baghdad
sarà poi l'ostacolo maggiore: 6 milioni di abitanti, potenzialmente tutti
armati, protetti da diversi schieramenti della Guardia repubblicana.
Conquistare Baghdad significa poi combattere casa per casa, scatenare
bombardamenti a tappeto con migliaia di morti, da una parte e dall'altra.
Io sono contro tutto questo.
Riferimenti bibliografici D. Zolo, Chi dice umanità. Guerra, diritto e
ordine globale, Einaudi, Torino, 2000.
Linda Bimbi (a cura di), Not in my name. Guerra e diritto, Editori Riuniti,
Roma, 2003. (Vedi specialmente gli interventi di Alberto Negri, Guglielmo
Ragozzino e Danilo Zolo).