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Baghdad delenda est! La guerra e i prestigiatori delladisinformazione



Salve. Vi invio un pezzo che ho scritto in  questi giorni per scaricare un
po' della rabbia accumulata da quando hanno  ripreso a soffiare i venti di
guerra. Lo potete trovare anche su carta.org,  all'indirizzo
http://www.carta.org/cantieri/FermiamoGuerra/030224baghdad.htm

Saluti e complimenti per il vostro prezioso lavoro.

Simone Ramella

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Baghdad delenda est!
La guerra e i prestigiatori della disinformazione

di Simone Ramella [s.ramella@giornalismo.org]


Da diversi mesi a questa parte mi sorprendo sempre più spesso a scuotere la
testa di fronte alla tv. Era successo nel 2001, nei giorni del famigerato G8
genovese. Era ricapitato poche settimane più tardi, all'indomani dell'11
settembre. E, di nuovo, è accaduto nei giorni che hanno seguito l'euforica
sbornia pacifica e pacifista del 15 febbraio. Fin dal giorno in cui Bush
figlio ha indicato in Saddam Hussein il nemico numero uno del pianeta,
relegando nel dimenticatoio l'ex nemico numero uno Bin Laden, ho pensato che
le bombe americane nel giro di qualche mese avrebbero ricominciato a cadere
sull'Iraq, riprendendo il discorso interrotto da Bush padre nel 1991. Questa
certezza, però, ha vacillato di fronte all'imponente mobilitazione del 15
febbraio. Anch'io, come altri che hanno vissuto quella giornata in prima
persona, ho finito per illudermi, almeno per qualche ora, che la corazzata
pacifista potesse davvero riuscire ad affondare la guerra.


Ipocrisia e cattiva memoria

Di fronte ai milioni di persone scese in piazza in tutto il mondo per
difendere la pace, la macchina della propaganda bellica ha, in effetti,
sbandato paurosamente, salvo riprendere a viaggiare più spedita che mai
subito dopo, facendo leva su un bagaglio di argomentazioni che puntualmente,
alla vigilia di ogni guerra "umanitaria", viene tirato giù dalla soffitta.
Così, nel giro di qualche settimana l'offensiva anti-Saddam, motivata
inizialmente con la necessità di disarmare il dittatore, si è trasformata, a
seconda delle necessità contingenti, in un'appendice della lotta al
terrorismo di Al Quaeda e in una guerra per la liberazione del popolo
iracheno e per l'esportazione della democrazia in tutta l'area
mediorientale.

Uno degli ultimi conigli tirati fuori dal cilindro dai prestigiatori della
disinformazione è quello che tenta di accreditare ai falchi
dell'amministrazione Bush la volontà di consegnare Saddam Hussein al
tribunale internazionale per i crimini contro l'umanità. Come ci si può
opporre a una guerra che mira ad assicurare alla giustizia un tiranno che si
è macchiato di crimini orrendi contro il suo stesso popolo? L'interrogativo
lo ha posto, tra gli altri, dagli schermi della 7 anche Giuliano Ferrara,
uno che è timido e balbettante se deve intervistare Cesare Previti, ma che
recupera tutta la sua verve polemica quando si tratta di rifilare predicozzi
moralistici e sorrisini di scherno al movimento pacifista.

A lui e agli altri cortigiani che popolano il nostro malandato panorama
mediatico si può rispondere ricordando alcuni episodi che mettono bene in
luce l'ipocrisia e la malafede del fronte militarista. Non occorre fare
lunghi salti indietro nel tempo, anche se la cattiva memoria della società
della [dis]informazione è tale che ricordare certi avvenimenti può avere lo
stesso fascino di una scoperta archeologica.

Prendiamo la Gran Bretagna di Tony Blair, principale alleato degli Usa
nell'escalation guerrafondaia degli ultimi mesi. Nel 1998 scoppia il caso di
Augusto Pinochet, già dittatore golpista del Cile su mandato degli Stati
Uniti, che si trova a Londra quando la magistratura spagnola ne chiede
l'estradizione per crimini contro l'umanità. Del fervore di oggi contro il
dittatore Saddam, da consegnare al tribunale internazionale per i delitti
commessi contro il suo stesso popolo, non c'è traccia nel governo Blair di
allora alle prese con il dittatore Pinochet, un macellaio di vite umane
esattamente come il raìs iracheno, che tra l'altro avrebbe potuto essere
consegnato alla giustizia senza ricorrere a bombardamenti e stragi di
civili. Così Pinochet, dopo una commedia durata alcuni mesi che provocò non
pochi imbarazzi al governo di sua maestà, venne lasciato libero di
riprendere la via del Cile.

Lo stesso livello di [in]coerenza si ritrova nell'atteggiamento
intermittente dell'amministrazione Bush rispetto alla questione palestinese,
che sembra stare molto a cuore del presidente americano e dei suoi
consiglieri più stretti solo quando si tratta di assicurarsi il sostegno dei
paesi arabi per i propri progetti bellici. E' stato così dopo l'11
settembre, quando il feeling con Sharon è giunto ai minimi storici, perché
il primo ministro israeliano si ostinava nella sua politica di aggressione e
umiliazione sistematica del popolo palestinese proprio mentre gli Usa
cercavano il più ampio appoggio possibile a sostegno dell'intervento in
Afghanistan. Dopo gli attacchi kamikaze di New York e Washington, Bush
sembrava infatti essersi trasformato in uno degli sponsor più determinati di
uno stato palestinese, che avrebbe dovuto sorgere fianco a fianco con quello
israeliano.

Una volta chiusa la parentesi afghana e liquidato il regime talebano, però,
lo spartito della Casa Bianca ha ripreso a suonare la solita, vecchia musica
e i palestinesi, da vittime, sono tornati a essere semplicemente dei
terroristi. "Quando i palestinesi avranno nuovi leader e nuove istituzioni
democratiche basate sulla libertà e la tolleranza, gli Stati Uniti
sosterranno la nascita di uno stato palestinese", ha dichiarato Bush nel
giugno del 2002. Il che significa, come ha sottolineato Jonathan Freedland
sulle pagine del Guardian, che il presidente americano "chiede alla
Palestina di diventare la Svezia prima di poter diventare la Palestina".

La questione palestinese, però, è un argomento troppo ghiotto per non
suscitare l'attenzione dei prestigiatori della disinformazione, che con i
nuovi venti di guerra sono tornati alla carica, legando la sua soluzione
alla guerra contro il regime di Saddam. Una volta levato lui di mezzo e
instaurata la democrazia in Iraq, anche il dramma dei palestinesi si
risolverà, ci spiegano, senza aggiungere però come questo avverrà, quanto
tempo ci vorrà e, soprattutto, quale logica perversa leghi il destino del
dittatore iracheno a quello dei palestinesi. In realtà, l'assenza di questi
pochi ma fondamentali dettagli è eloquente su quale sia il vero scopo di
queste dichiarazioni, che mirano semplicemente a confondere le acque e a
reclutare a costo zero sostegno per l'azione militare imminente. Il resto lo
farà la cattiva memoria, e il conflitto arabo-israeliano potrà sempre
tornare utile per giustificare il prossimo capitolo della guerra preventiva
inaugurata da Bush. Obiettivi possibili, Corea del Nord a parte [ha
l'atomica], l'Iran, vecchio pallino degli Stati Uniti, o, perché no?,
l'Arabia Saudita, che non viene più considerata l'alleata fedele di un
tempo. Del resto è da lì che provenivano la maggior parte degli attentatori
dell'11 settembre, e forse prima o poi anche la Cia se ne accorgerà…

L'elenco dei casi simili che potrebbero essere citati in questo contesto non
si esaurisce ovviamente qui. Come dimenticare, per esempio, che proprio la
recente campagna bellica contro i talebani è stata condotta con l'appoggio
fondamentale di un altro dittatore, il generale pachistano Musharaf [che
oltretutto dispone già della bomba atomica]? Come sottovalutare il fatto che
lo stesso Saddam Hussein, il Satana di oggi, negli anni Ottanta, all'epoca
della sanguinosa guerra con l'Iran, godeva dell'appoggio
dell'amministrazione Usa, che gli fornì intelligence satellitare e altro
appoggio militare per evitare la vittoria iraniana, pur essendo a conoscenza
del fatto che l'esercito iracheno aveva integrato il suo arsenale con armi
chimiche?

Si tratta di considerazioni scontate, quasi banali, eppure il circo dei
media, tranne rare eccezioni, soffre di amnesia e preferisce dare spazio ai
soliti opinionisti ed esperti militari, che discettano con malcelata,
fanciullesca eccitazione sugli effetti provocati da granate e bombe a
grappolo, e valutano freddamente, senza dare segno di un briciolo di
umanità, la possibilità del ricorso agli ordigni nucleari, la cui evocazione
è di per sé terrificante, per piegare la resistenza irachena. E' uno
spettacolo che provoca disagio, soprattutto quando ci si rende conto che lo
stesso copione è già stato recitato tante volte e prevede un solo finale, la
guerra, e le solite vittime, i poveracci senza colpa alcuna, destinati a
passare alla storia come "danni collaterali".

E' stato così nel '91, quando l'esercito iracheno, alla vigilia dell'attacco
alleato, venne dipinto come uno dei più temibili al mondo, salvo sciogliersi
come neve al sole sotto la pioggia di missili che ha sepolto il paese,
lasciando però intatto il suo regime. E' stato così sul finire del 2001,
quando nelle settimane precedenti il conflitto in Afghanistan sono comparse
sui teleschermi le immagini delle terribili esecuzioni pubbliche compiute
dai talebani, e il burqa è stato assurto a simbolo della loro malvagità,
trasformando quella che doveva essere la caccia a Bin Laden in una guerra
per l'emancipazione delle donne afghane.

Sarà così anche questa volta. Anzi, è già così. Truppe di dissidenti,
rifugiati politici, curdi perseguitati dal dittatore di Baghdad sono già
stati reclutati dai vari Vespa e Ferrara per raccontare agli italiani la
malvagità di Saddam Hussein. Si prova tenerezza a vederli, così coccolati e
vezzeggiati sotto i riflettori degli studi tv, quasi increduli di ricevere
tante attenzioni dopo essere stati snobbati per anni, mentre il mondo
cosiddetto civile era impegnato a esportare altrove la democrazia, insieme
alle Nike e alla Coca Cola. Si prova rabbia a sapere che, una volta che
anche la pratica Iraq sarà stata archiviata, sono tutti destinati a sparire
molto in fretta dai palinsesti, insieme ai loro drammi, mentre i predicatori
della disinformazione di regime saranno ancora lì, con le solite facce di
bronzo e il copione già pronto per giustificare la prossima guerra.

Qualcosa però sta cambiando. L'imponente mobilitazione in favore della pace
che il 15 febbraio ha portato a manifestare nelle strade di tutto il mondo
più di cento milioni di persone è il risultato di una presa di coscienza che
per molte persone va oltre il semplice "no" alla guerra. E' difficile
individuare tutte le motivazioni che hanno spinto una massa così eterogenea
a esprimere in modo talmente risoluto la propria avversione ai progetti
militari di Bush & C., ma è legittimo il sospetto che molti, fino a ieri
assuefatti alle verità ufficiali, abbiano finalmente cominciato a mangiare
la foglia rispetto al teatrino dei prestigiatori della disinformazione.

All'istintiva avversione alla guerra come strumento di risoluzione delle
controversie internazionali, con l'inevitabile spargimento di sangue
innocente che essa comporta a dispetto delle bombe intelligenti, e alla
consapevolezza che la guerra all'Iraq finirebbe per aggravare, non
eliminare, i problemi legati al terrorismo internazionale, si sta sommando
una crescente repulsione nei confronti dell'ipocrisia di politici del
[piccolo] calibro di Bush, Blair e Berlusconi, che dicono quello che
vogliono ma non spiegano perché lo vogliono, e se lo fanno insultano
l'intelligenza di chi li ascolta. Parole come democrazia, libertà o
giustizia, usate quotidianamente per giustificare il massacro prossimo
venturo del popolo iracheno, in bocca a loro suonano, infatti, come
suonerebbe una bestemmia in bocca al Papa.

Se Bush si fosse presentato davanti alle telecamere e avesse spiegato le
vere ragioni per cui vuole attaccare l'Iraq, e perché lo vuole fare il più
presto possibile, ovvero 1] che la sua amministrazione vuole ottenere il
pieno controllo delle ingenti risorse petrolifere della regione, 2] che la
crisi economica statunitense è grave e bisogna fare in modo di rivolgere
altrove l'attenzione dell'opinione pubblica interna, 3] che l'industria
militare made in Usa sforna in quantità armi di distruzione di massa sempre
più sofisticate che non possono essere lasciate a marcire negli arsenali, 4]
che dopo la mancata cattura di Osama Bin Laden in Afghanistan, e dunque il
sostanziale fallimento della missione, era necessario individuare un altro
nemico, possibilmente non troppo tosto, su cui sfogare la rabbia post-11
settembre, 5] che la permanenza delle truppe nell'area del Golfo Persico
costa all'erario a stelle e strisce un miliardo di dollari alla settimana e
dunque non si può permettere di aspettare che gli ispettori Onu finiscano in
santa pace il loro lavoro perché rischia di restare in bolletta, forse
qualcuno, anche tra coloro che hanno sfilato per la pace il 15 febbraio,
avrebbe perlomeno apprezzato la sua sincerità. Forse. Ma Bush non è così
scemo [o onesto, a seconda dei punti di vista] e dunque insiste nel
propinarci la parabola del buon samaritano impegnato a esportare democrazia
e benessere su tutta la faccia della terra. E qualcuno, purtroppo, gli crede
ancora.


Il movimento per la pace e l'antiamericanismo

Tra i bersagli su cui amano accanirsi i prestigiatori della disinformazione
guerrafondaia, uno dei prediletti è quello rappresentato dal movimento
pacifista, che fin dall'inizio dell'escalation militare ha espresso la
propria opposizione alla guerra all'Iraq "senza se e senza ma". Se la
censura della manifestazione del 15 febbraio messa in atto dalla Rai ha
avuto l'unico effetto di coprire di ridicolo i già screditati vertici
aziendali, la credibilità del messaggio di cui si è fatto portavoce il
movimento per la pace è invece minacciata ben più seriamente dalle
distorsioni della realtà portate avanti nel nostro paese dalla propaganda di
regime, in particolare sotto due aspetti.

Da un lato si assiste all'ostinato tentativo di sostituire l'alternativa
autentica tra guerra e pace, al centro del messaggio pacifista, con quella
posticcia tra americanismo e antiamericanismo, con l'obiettivo di liquidare
le manifestazioni di piazza come espressione di un anacronistico rigurgito
di sentimenti veterocomunisti o veterosessantottini. E' forte il sospetto
che questo atteggiamento sprezzante nei confronti di un movimento che
esprime in modo democratico idee largamente condivise rappresenti una
peculiarità tutta italiana, uno dei tanti sintomi dell'imbarbarimento di una
società e di una classe politica il cui processo di maturazione post-guerra
fredda è stato interrotto dall'irresistibile ascesa dell'anomalia
berlusconiana, col suo codazzo di Sgarbi, Buttiglione, Schifani e
pseudointellettuali vari in servizio di servilismo permanente effettivo. Una
società in cui qualsiasi opinione e presa di posizione viene forzatamente
interpretata facendo riferimento agli schieramenti ideologici di mezzo
secolo fa. In due parole, una società malata.

Nel tranello semantico volto a trasformare "guerra" e "pace" in sinonimi di
"americanismo" e "antiamericanismo" sono purtroppo caduti anche alcuni
rappresentanti del movimento pacifista. Il giorno precedente la marcia per
la pace del 15 febbraio, il Corriere della Sera, per esempio, ha dedicato un
articolo agli slogan che sarebbero stati scanditi in piazza dai
manifestanti, riproponendo l'accostamento tra pacifismo e antiamericanismo e
interpellando a questo proposito i portavoce di alcuni gruppi e associazioni
che avevano dato la propria adesione all'appello del comitato organizzatore.
Si è rivelata una lettura piuttosto deprimente. Il testo era circondato da
una serie di slogan puerili tutti rivolti al dittatore di Baghdad, sul
genere "Saddam assassino, non fare il birichino", e all'interno
dell'articolo si assisteva alle imbarazzanti e imbarazzate acrobazie verbali
dei portavoce pacifisti, impegnati a rassicurare sul fatto che la piazza
avrebbe riservato una buona dose di critiche e invettive anche al raìs
iracheno, come se questo fosse l'unico modo possibile per rispedire al
mittente le accuse di antiamericanismo.
E' troppo chiedere a coloro che rappresentano il movimento per la pace nel
circo mediatico un salto di qualità nelle loro argomentazioni?

E' troppo chiedere loro di fare un passo indietro e rinunciare
all'esposizione mediatica quando è chiaro che essa finirà soltanto per
portare acqua al mulino di chi ha come unico scopo quello di delegittimare
il messaggio pacifista? In quell'articolo del Corriere della Sera, così come
in quasi tutte le trasmissioni televisive andate in onda negli ultimi tempi,
sarebbe stato più incoraggiante, e più sensato, trovare altre risposte.
Risposte ovvie, banali, scontate, che tuttavia stentano a emergere dal
frastuono dei jet, dei soldati e delle portaerei che si stanno ammassando
nel Golfo Persico.

Essere per la pace non significa schierarsi dalla parte di Saddam Hussein
contro gli Stati Uniti o, per metterla in altri termini, preferire la
dittatura alla democrazia. La scelta di scendere in piazza per chiedere la
pace mentre la guerra appare ormai scontata è, al contrario, un segno di
fiducia e di amore per la democrazia, che nelle libere manifestazioni trova
una delle sue espressioni più autentiche. Tanto più in una fase storica come
quella attuale, caratterizzata da una frattura sempre più profonda tra
cittadini e istituzioni, tra rappresentati e rappresentanti, con i vari Bush
e Berlusconi impegnati a difendere solo ed esclusivamente gli interessi
delle ristrette oligarchie di potere di cui sono espressione.

La vera deriva dittatoriale è quella di chi pretende di ammutolire ogni
forma di dissenso sventolando lo spettro della guerra e del terrorismo.
Quella di chi, come il presidente Usa, impone ai suoi concittadini e agli
altri paesi un ricatto inaccettabile, dichiarando "o con noi, o contro di
noi", come se il mondo fosse una partita di Risiko e la posta in gioco
qualche carroarmato di plastica. Quella di chi, come sta avvenendo nel
nostro paese, vuole trasformare il Parlamento in un luogo superfluo,
destinato a prendere atto di decisioni assunte altrove, e si affida alla
retorica stantia dei "nostri ragazzi" per descrivere i militari
professionisti pagati profumatamente che sono stati inviati in Afghanistan a
sostituire le truppe americane. Quella di chi, come l'attuale vicepresidente
del Consiglio, fino a qualche anno fa dichiarava pubblicamente di
considerare un dittatore, Mussolini, il più grande statista del XX secolo, o
quella di chi, come un ministro leghista dell'attuale governo, prendeva
l'aereo per portare la sua solidarietà a un dittatore, Milosevic, e
viceversa non batteva ciglio mentre militanti del suo partito cospargevano
di piscio di maiale il terreno di un paese destinato a ospitare una moschea.

La scelta di scendere in piazza in difesa della pace deriva anche dalla
vergogna e dall'incazzatura che proviamo nell'essere governati da personaggi
del genere in una fase storica così delicata. Dall'angoscia di vedere il
mondo di cui facciamo parte, il mondo sedicente civile, imbarcarsi in una
guerra assurda, che nasce da motivazioni che nulla hanno a che vedere con la
democrazia o con la giustizia. I nostri slogan contro Bush, Blair e
Berlusconi nascono dalla convinzione, speranza o illusione che, proprio
perché viviamo in una democrazia, la nostra opinione dovrebbe essere tenuta
in considerazione, e dalla consapevolezza che la scelta tra la guerra e la
pace è nelle loro mani, non in quelle di Saddam. Perché poi sprecare il
fiato contro un dittatore come quello iracheno che, essendo un dittatore,
per definizione non si lascia certo condizionare da urla scandite a migliaia
di chilometri di distanza? Per far contenti gli "autorevoli" pennivendoli
che figurano sul voluminoso libro paga del nostro presidente del Consiglio?

In quanto all'accusa di antiamericanismo, è bene anche chiarire che cosa si
intenda per "America". L'America delle migliaia di persone che sono scese in
piazza negli Stati Uniti il 15 febbraio per fermare la guerra, rendendosi
per questo colpevoli di antipatriottismo di fronte al tribunale dei media di
regime, o l'America dell'amministrazione Bush, impegnata a sperperare
miliardi di dollari nei suoi progetti da dottor Stranamore, mentre settori
importanti come la sanità e l'istruzione subiscono un ulteriore
deterioramento a scapito delle fasce sociali più deboli? Se l'America è
quest'ultima, beh sì, per quanto mi riguarda mi considero antiamericano,
così come mi sta bene essere considerato antitaliano, se per Italia si
intende quella rappresentata da Berlusconi, Bossi e Fini.


Il pacifismo e l'opposizione al pensiero unico neoliberista

Nel nostro panorama mediatico, anestetizzato dai prestigiatori della
disinformazione, quello dell'antiamericanismo non è purtroppo l'unico
stereotipo perpetuato ai danni del movimento per la pace. Si assiste,
infatti, anche a una tendenza sistematica a ridurre il messaggio pacifista a
utopia irrealizzabile, buono cioè per i discorsi del Papa ma non praticabile
nel mondo reale. Questo stereotipo è spesso accompagnato dalla frase "siamo
tutti per la pace, ma…", dove quel "ma", nelle intenzioni di chi lo
pronuncia, dovrebbe chiudere il discorso una volta per tutte. Il guaio è che
spesso lo chiude davvero.

Troppe volte la pratica del pacifismo viene declinata esclusivamente al
negativo, ovvero come rifiuto della guerra senza se e senza ma, proprio come
recitava lo slogan scelto per la manifestazione del 15 febbraio. Nel caso
della guerra voluta da Bush e dai suoi complici europei, questo tipo di
declinazione sembra sufficiente, perché le ragioni addotte per giustificare
l'attacco sono del tutto pretestuose, così come appare del tutto arbitraria
la scelta dell'Iraq come obiettivo. In generale, però, descrivere il
pacifismo come semplice negazione della guerra può rivelarsi un limite che
offre il fianco al cinismo degli imbonitori di regime. L'abusato paragone
con quanto avvenuto durante la seconda guerra mondiale, infatti, è sempre in
agguato e, per quanto insostenibile, rischia davvero di far apparire la
scelta della pace come un'opzione fuori dalla logica delle cose. Per
contrastare questa eventualità, è fondamentale tentare di far emergere dalle
nebbie della disinformazione i comportamenti concreti in cui può tradursi la
filosofia pacifista, così da smascherare l'ipocrisia di chi indica nella
guerra l'unico strumento efficace per sconfiggere il terrorismo
internazionale ed esportare la democrazia.

A questo proposito, è utile citare un altro episodio ormai dimenticato nello
sgabuzzino della storia, benché risalga a una manciata di anni fa soltanto.
E' un episodio che ha come scenario la Nigeria, come protagonisti principali
il governo del paese africano e la Shell, la multinazionale petrolifera
anglo-olandese, e come vittime il poeta e scrittore Ken Saro-Wiwa e altre
otto persone del popolo degli ogoni, tutti condannati all'impiccagione dalla
dittatura militare del generale Sani Abacha. La loro colpa? Aver denunciato
pubblicamente i gravi danni provocati all'ecosistema del delta del Niger
dalle trivellazioni del sottosuolo compiute dalla Shell per quasi
quarant'anni. Il 10 novembre 1995 la condanna a morte viene eseguita senza
che la multinazionale del petrolio abbia mosso un dito per perorare la causa
di Saro-Wiwa e degli altri otto ogoni e per stigmatizzare la loro ingiusta
detenzione. Dovendo scegliere, la Shell ha preferito non inimicarsi il
regime di Abacha per continuare ad assicurarsi i lucrosi profitti derivanti
dallo sfruttamento intensivo dei giacimenti nigeriani.

Chi, in buona fede, finora ha considerato il pacifismo alla stregua di
un'utopia fine a se stessa forse, alla luce di vicende come questa,
rimetterà in discussione il suo giudizio. Il pacifismo, infatti, oltre al
rifiuto tout court della guerra impone anche una coerenza di comportamenti
volti a creare le condizioni che rendano inutile il ricorso alle armi. Ciò
significa che la pace non è uno stato di cose che si può semplicemente
imporre con la forza, magari dislocando qualche centinaio di caschi blu
delle Nazioni Unite in qualche angolo del globo, bensì un processo che si
costruisce nel tempo attraverso scelte concrete che non possono e non devono
essere in contrasto con i principi su cui si fondano le nostre società.

Essere pacifisti significa perciò pretendere dalle nostre istituzioni, dalle
nostre industrie, dai nostri concittadini, e anche da noi stessi, la messa
in pratica dei valori di libertà, giustizia, uguaglianza e democrazia di cui
le società occidentali si vantano di essere fautrici. Pretendere, per
esempio, dal governo Blair, il rispetto di una delle promesse elettorali del
1997, che contribuì a riportare i laburisti al potere dopo quasi un
ventennio trascorso all'opposizione. Ovvero l'impegno, presto smentito dai
fatti, di fare del rispetto dei diritti umani il cardine della propria
politica estera, prestando particolare attenzione al comportamento delle
aziende britanniche che operano o esportano in altri paesi, a partire dalla
fiorente industria militare. Pretendere, allo stesso modo, che le
multinazionali vengano chiamate a rispondere delle loro responsabilità
quando si rendono complici delle malefatte di regimi dittatoriali, come nel
caso della Shell in Nigeria, e ogni volta che in nome del profitto
calpestano i diritti umani, approfittando della loro posizione di forza.
Pretendere che l'amministrazione Usa non fornisca più alcun tipo di supporto
ad alcun tipo di dittatura, perché i dittatori amici di oggi sono destinati
a diventare i satana di domani. Pretendere che Bush la smetta di prestare un
po' di attenzione all'opinione degli altri governi solo quando si tratta di
raccattare alleati a sostegno di un'azione militare, fregandosene invece in
ogni altra circostanza.

E' evidente che questo approccio, in caso di bombardamento, non renderà meno
tragiche le conseguenze per la popolazione civile irachena. Può essere
utile, però, per ribaltare il ragionamento di chi liquida come utopia
l'opposizione alla guerra. Il pacifismo, infatti, non è astratto e
utopistico in sé, ma è reso impraticabile dalle scelte concrete di chi vuole
che rimanga tale. La vera utopia irrealizzabile, senza se e senza ma, è
invece quella dell'amministrazione Usa e dei suoi alleati scodinzolanti, che
pretendono di trovare negli arsenali militari la risposta in grado di
sradicare il terrorismo e zittire il malcontento che ribolle in tutto il
mondo.

Il caso di Saro-Wiwa e degli altri otto ogoni assassinati dal silenzio della
Shell aiuta anche a comprendere perché l'attuale movimento per la pace
coincide, in larga misura, con l'ampio schieramento di associazioni,
organizzazioni non governative, sindacati e singoli cittadini che negli
ultimi anni hanno alzato le loro voci per contestare il pensiero unico della
globalizzazione neoliberista. All'origine di questa convergenza c'è infatti
la convinzione che la strategia della guerra preventiva, inaugurata contro
l'Iraq, rappresenti il braccio armato di una oligarchia che ha individuato
nel neoliberismo il dogma da imporre a tutti i paesi del mondo, che essi lo
vogliano o meno. Come è sempre più chiaro, si tratta di un modello di
organizzazione dell'economia e della società che tende ad ampliare il
divario tra ricchi e poveri all'interno delle società occidentali, così come
tra i paesi del Nord e del Sud del pianeta, anteponendo sistematicamente i
profitti della grande industria, e della ristretta elite che la dirige, agli
interessi collettivi e ai diritti dei singoli cittadini.

Dopo il collasso dell'Unione Sovietica e la fine della guerra fredda, questo
modello sembrava avere la strada spianata davanti a sé, anche grazie alla
promessa di estendere su scala globale il benessere delle società
occidentali. Ora che questa promessa comincia ad apparire per quello che è,
una bugia, e il verbo neoliberista mostra i segni di una grave crisi, tra i
suoi predicatori si fa sempre più strada la tentazione di annullare ogni
forma di dissenso, sia interno che esterno, mostrando i muscoli della
macchina militare. E' davvero paradossale che i più infervorati ultrà del
pensiero unico nel momento della guerra invochino e pretendano da parte dei
propri concittadini il serrate le fila, in nome dell'amor patrio e di
ambigui interessi nazionali. Patria e nazione sono infatti due termini che
proprio loro hanno svuotato di significato, in nome del profitto e della
trasformazione del mondo in un unico grande mercato.

E' per l'insieme di queste ragioni che i ripetuti appelli all'unità che
precedono l'aggressione militare all'Iraq, provengano essi da Bush, Blair,
Berlusconi o chicchessia, sono destinati a fare un buco nell'acqua. Non
esiste infatti amor patrio o interesse nazionale che possa spingere il
popolo della pace a cambiare idea rispetto a questa guerra, che resta
assurda, inutile e sbagliata. Alla faccia dei prestigiatori della
disinformazione.