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Ça iraq. Tre
Ça iraq. Tre
lanfranco caminiti [www.lanfranco.org]
Di tutte le manifestazioni nel mondo il 15 febbraio per dire "no alla
guerra", quella che mi ha più impressionato è stata quella che si è
svolta a New York. Faceva meno sette gradi, il prodromo della tempesta
di neve che in questi giorni sta battendo la costa orientale degli Stati
uniti. La manifestazione era stata vietata per "motivi di sicurezza", ma
questo non ha impedito a migliaia di persone di partecipare a un sit-in
che si è raccolto e poi snodato tra le strade e i parchi della città.
Non erano milioni come a Roma o Londra, e neanche centinaia di migliaia
come a Parigi o Giakarta, forse solo trenta o quarantamila [gli
organizzatori ne aspettavano centomila], un numero che ormai non si
tiene neppure in conto quando si snocciolano le cifre dei grandi eventi
sociali, e questa magnitudine sarà pure un effetto della connessione
globale del mondo d'adesso ma forse anche l'avvertenza di un momento
cruciale: per tutto il novecento quando milioni di persone sono scesi in
piazza - qui o là - è accaduto che fosse a ridosso di tempi drammatici,
un'insurrezione, una rivoluzione, un putsch, una dittatura, una guerra.
Per paura o entusiasmo, per appoggiare o dissentire.
Sarà stato anche per il freddo polare, per la paura di dover correre
inseguiti dai cavalli e dai poliziotti nelle loro palandrane e scivolare
sulla patina di ghiaccio che ricopriva le strade, ma di newyorkesi non
ce n'erano poi tantissimi. Sarà stato perché non dev'essere facile
manifestare oggi negli Stati uniti opponendosi alla guerra.
Questa cosa a me fa impressione. Non riesco a immaginare il percorso di
crescita di una opposizione mondiale alla guerra che non abbia a suo
cuore il movimento americano, così come non riesco a immaginare il
percorso di un movimento globale contro il nuovo ordine mondiale,
l'impero e le forme assunte dal mercato e dalla produzione che non abbia
a suo cuore il movimento americano. Se devo dire la verità, pronuncio
l'espressione "vecchia Europa" con una carica di dispregio ancora
maggiore di mister Rumsfeld. Credo che la cosa più straordinaria e
preziosa di questi ultimi anni, di quel filo che per comodità espositiva
identifichiamo da Seattle a Porto Alegre, sia stata proprio la
contemporaneità e il dialogo e l'intreccio fra i sem terra e le
associazioni di San Francisco, fra gli zapatisti di Marcos e i gruppi
europei o di Washington, fra i brasiliani di Lula, gli italiani, gli
inglesi, gli argentini e le strutture militanti di Chicago o Des Moines.
Ora, pur non vivendo direttamente le cose, si può immaginare che non
deve essere facile in questo momento negli Stati uniti non dico opporsi
ma neppure dissentire garbatamente dalla politica dell'amministrazione
Bush: ci sono anchorman e opinionisti delle grandi testate americane e
dei network televisivi che parlano apertamente di pressioni e di forme
di autocensura, ci sono leggi e leggine che stanno riducendo gli spazi
alla libertà di opinione e di movimento e di parola, c'è un clima
generale di mobilitazione, di allerta, di paura e in questo clima la
cosa peggiore che puoi sentirti dire è di essere un traditore -
un'accusa spiccia e grossolana ma terribilmente efficace. Forse non sarà
un caso che coloro che si muovono più apertamente sono i cattolici,
perché si trascinano dietro un senso della colpa originaria e una
disponibilità al perdono che sono l'ultima cosa in questo momento che
possa appartenere a un americano, se mai è appartenuto alla loro
cultura. Ma il fatto è che i cattolici lì sono proprio scarsi, nel senso
proprio, e a nessuno dei padri della costituzione americana sarebbe mai
venuto in mente di mettere fra i fondamenti della comune cittadinanza un
riferimento a Cristo, come invece si dibatte qui, nella "vecchia
Europa".
Uno dei cartelli portato dai manifestanti di New York recitava "I'm
patriot and I'm dissent - Sono un patriota e mi oppongo", una frase
semplice semplice dove mi pare si condensi tutta la difficoltà e la
fierezza dell'opposizione civile americana. Non sembri una battuta
governativa, però mi sarebbe piaciuto che anche a Bagdad, dove si è
manifestato contro la guerra, ci fosse un cartello così, invece dei
fucili mitragliatori imbracciati dai riservisti irakeni panciuti, come
tutti i riservisti del mondo, e baffuti, quelli che sono sopravvissuti
probabilmente alla guerra contro l'Iran e alla guerra del Golfo del '91
e che l'ultima cosa al mondo che potrebbero volere è un'altra guerra. E'
un po' grottesca questa cosa che a Bagdad il regime faciliti e mobiliti
a una manifestazione di massa contro la guerra, mentre a New York si
dichiari l'impedimento per "motivi di sicurezza". Il patriottismo
irakeno si dichiara adesso nella disponibilità verso il regime - e a
nessuno a Tikrit o a Bagdad piacerebbe sentirsi dare del traditore.
Neanche lì.
Così, non deve essere facile dissentire sfilando e protestando accanto i
ragazzi che in tuta mimetica partono per la guerra da Fort Bragg o da
qualunque altro posto in Carolina o altrove mentre l'esercito ha già
ordinato centomila sacchi neri per i morti: fa tanto Vietnam e il
Vietnam è una ferita che ancora non si è rimarginata, per certi aspetti
è stata una "guerra civile" anche se non armata. E così non deve essere
facile dissentire neppure quando sei assediato da anni dall'embargo
internazionale che ti uccide giorno dopo giorno e quando tutto il mondo
si sta coalizzando contro di te e fra poco ti invaderà. Immagino che
qualunque irakeno farebbe propria e isserebbe su un cartello la frase di
Arthur Miller, che Sandro Veronesi ha messo a mo' di dedica del suo
"Superalbo": "I accept - Mi sta bene così." Deve prodursi una qualche
vertigine nel sapere che la più grande potenza dell'umanità vuole fare
il culo proprio a te e che tutto il mondo, ma proprio tutto, sta
parlando di te e di come farti il culo. Si può entrare nella storia
anche dalla parte del culo.
Io penso che l'amministrazione Bush si senta isolata e circondata, dai
mangiarane e dai crucchi, dai maccaroni e dai maricones, oltre che,
certo, da milioni di fanatici integralisti. Nonostante le buone
intenzioni di de Bortoli, io però non me la sento adesso di dirmi
americano neppure per tutto l'oro del mondo. Ma l'amministrazione Bush
può fare a meno di tutti e fare da sola. Il movimento americano non può
fare da solo. E neanche noi qui, nella "vecchia Europa", possiamo fare
da soli. E i sem terra, gli zapatisti di Marcos, gli argentini, gli
indiani, neanche loro possono fare da soli. Non possiamo fare a meno di
quella difficile e fiera opposizione civile americana.
Le star americane, quelle che qui sono accolte come neanche un capo di
Stato - e li si porta a spasso per i Fori e ci si affaccia con loro dal
Gianicolo o dal Campidoglio per una foto ricordo da mostrare orgoglioso
alle proprie figlie o nipoti adolescenti [beh, è vero, Brad Pitt viene
meglio di Tarek Aziz] - vengono a Roma, per i loro tour di promozione, e
dichiarano la propria perplessità verso la politica dell'amministrazione
Bush e la guerra. Così, George Clooney, così Spike Lee, così Scorsese e
Di Caprio, con varie gradazioni e intensità. Non credo sia per glamour,
quella cosa insomma per cui i beniamini del pubblico possono essere
cattivi solo sullo schermo ma poi sono proprio dei teneroni, o comunque
per farci capire che hanno una testa per pensare di proprio conto, sono
mica di celluloide.
Ma le star americane appartengono ai cittadini internazionali, prendono
oggi l'aereo per Parigi e domani per Tokio, fanno le locations per i
loro film in Romania o Ungheria dove la manodopera costa meno, i loro
spettatori sono anche in Bangla Desh o nel Punjab, vanno a un cocktail
per un festival a Venezia e poi la sera dopo a Berlino o a Cannes, la
loro patria deve somigliare a qualcosa come un aeroporto internazionale,
dove è vietato fumare e ci sono tanti controlli ma si possono prendere
tutte le uscite e le entrate del mondo.
Il mio amico Giancarlo mi ricorda che Achab nell'ossessione della sua
caccia a Moby Dick urla "Io colpirei il sole se mi facesse offesa" e si
dice convinto che in Melville si può trovare qualcosa che ci faccia
capire l'adesso dello spirito americano più che altrove. Achab si perde
nel suo smisurato orgoglio umano, nell'insopportabilità di immaginare
che "là fuori" vi sia qualcosa più grande di lui o che lui non possa
catturare, piegare, vincere. Una sfida mortale, personale, "privata", ma
che è di due mondi, senza limiti, senza tempo. Una lotta contro la
Grande Bestia, il Leviatano. Achab si perde. Ma ciò non lo fa meno
tragico e grande.
Roma, 20 febbraio 2003