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Tre donne si fanno scudo contro Sharon



Tre donne guidano nei Territori occupati le azioni del «Movimento
internazionale di solidarietà ai palestinesi». Con una convinzione: gli
scudi umani sono l'unica, vera arma che può battere Sharon

MICHELE GIORGIO

Arrivano a Gerusalemme a gruppetti, con zaino e sacco a pelo in spalla. In
buona parte sono giovani europei e americani ma anche giapponesi,
australiani e israeliani. Tra loro talvolta si scorge la barba bianca di
qualche maturo attivista di movimenti no-global e internazionalisti. Il
«Movimento internazionale di solidarietà con il popolo palestinese» (Ism) è
tutto qui. Niente di più. Poche decine di persone entrate in contatto grazie
ad internet che raggiungono i Territori Occupati allo scopo di offrire
protezione ai civili palestinesi e registrare, grazie alla loro presenza in
campi profughi, città e villaggi, gli abusi e le violazioni dei diritti
umani compiute dalle forze di occupazione. Ma sono tutti molto motivati,
pronti a trascorrere settimane tra difficoltà e disagi enormi pur di portare
a compimento la loro missione.

Huwaida Arraf, palestinese

«Ai nostri attivisti chiediamo soltanto una cosa: impegnarsi nella difesa
passiva e pacifica della popolazione civile palestinese. A nessuno viene
chiesto di correre rischi» dice Huwaida Arraf, 26 anni, palestinese nata e
vissuta tra New York e l'Illinois, che da quasi due anni svolge la funzione
di coordinatrice dell'Ism. Huwaida, l'israeliana Neta Golan e l'irlandese
Caoimhe Butterly in questi ultimi mesi hanno visto più volte i loro nomi
sulle pagine dei giornali di tutto il mondo. Neta e Caoimhe (nome gaelico
che si pronuncia Cuiva) non hanno esitato lo scorso aprile ad entrare nella
Muqata, il quartier generale dell'Anp a Ramallah, per impedire, con altri
pacifisti internazionali, un attacco israeliano contro l'ufficio del
presidente palestinese Yasser Arafat (Neta ne uscirà solo al termine
dell'assedio durato oltre un mese). Huwaida invece architettò il blitz di
Betlemme che consentì ad una dozzina di attivisti dell'Ism di entrare nella
Basilica della Natività e di portare importanti aiuti ai palestinesi e ai
frati che vi erano asserragliati. Huwaida e altri giovani pacifisti
attirarono l'attenzione dei soldati sulla Piazza della Mangiatoia sotto
coprifuoco mentre i suoi compagni si infilavano nella chiesa beffando
l'esercito. Una azione che costò alla giovane palestinese la detenzione
(seguita da quattro giorni di sciopero della fame all'aeroporto di Tel Aviv)
e infine l'espulsione. Huwaida è tornata a metà giugno a Gerusalemme, grazie
ad un passaporto israeliano (il padre è un «arabo-israeliano» originario
della Galilea) ottenuto qualche settimana fa. Il suo impegno è, come sempre,
incessante. Ogni mattina tiene corsi di resistenza passiva in un ostello
della zona araba della città per i nuovi arrivati dell'Ism.
«L'autodisciplina è fondamentale - spiega con voce ferma ma calma - quando
ci si trova di fronte ad un carro armato israeliano è necessario mantenere
sangue freddo e non lasciarsi prendere dal panico».
Nei mesi scorsi Huwaida ha guidato decine di attivisti dell'Ism ai posti di
blocco israeliani o durante manifestazioni contro la confisca delle terre.
Non ha esitato a stendersi davanti ai cingoli di carri armati e bulldozer
per impedirne il passaggio. «E' un rischio calcolato - afferma - anche se ho
paura. Tutti noi abbiamo paura perché le macchine di guerra sono
terrificanti». Allo stesso tempo Huwaida è certa dell'efficacia di queste
iniziative pacifiche. «Sono contro gli attentati che colpiscono i civili
israeliani - prosegue - ma riconoscono pienamente il diritto della mia
gente, sancito dalle leggi internazionali, di ribellarsi anche in armi
all'occupazione. Tuttavia ritengo che una Intifada pacifica, fatta di
manifestazioni popolari non violente sia più efficace dei fucili. Israele è
abile nello sfruttare a suo vantaggio i mezzi d'informazione. La violenza
viene presentata dai media a senso unico, contro i palestinesi, mentre
l'occupazione militare non cessa e la vita della mia gente è un inferno. Un
movimento popolare e pacifista opposto ad un esercito potente avrebbe un
impatto notevole, il mondo avrebbe di fronte agli occhi, in modo
inequivocabile, un popolo indifeso che lotta per la libertà e una
occupazione durissima». Neta Golan, 33 anni, è l'anima dell'Ism dove non
mancano giovani ebrei. Sono però quasi sempre cittadini di altri paesi
mentre lei è israeliana (oltre che cittadina canadese) e ogni giorno è
costretta a sfidare la legge militare che vieta in modo categorico agli
israeliani di entrare nelle zone autonome palestinesi. Ogni volta che entra
nei Territori Occupati rischia l'arresto e un condanna severa. «Ormai sono
abituata e non ho più timori» dice. Neta si è traferita da alcuni mesi a
Nablus, la città del marito Nizar (sposato in Italia lo scorso ottobre),
dove guida un manipolo di attivisti dell'Ism che con la loro presenza
cercano di impedire demolizioni di case e abusi a danno dei civili.

Neta Golan, israeliana

Per tre settimane Neta e altri giovani si sono stabiliti nelle abitazioni
delle famiglie dei kamikaze palestinesi minacciati dall'esercito di
deportazione a Gaza. «La mia maturazione politica è stata lenta ma
continua - racconta Neta - quando ero una ragazzina avevo la testa piena di
propaganda. Soprattutto avevo paura, paura degli arabi, dei palestinesi. Mi
era stato detto che sono fanatici, sanguinari, che vogliono tagliarci la
gola soltanto perché siamo ebrei. Sono diventata adulta senza conoscere
nulla dei palestinesi e soprattutto dei motivi che li spingeva e ancora li
spinge a ribellarsi a Israele». L'inizio della prima Intifada (1987) aprì
gli occhi a Neta che scelse la fuga in Canada (dove aveva vissuto da
bambina) al servizio militare. «Non potevo far parte di un esercito che non
difendeva il Paese come mi avevano detto ma invece opprimeva un altro
popolo». La famiglia accolse con stupore e disappunto quella decisione.
«Qualche settimana prima dell'inizio del servizio di leva convinsi mio padre
a lasciarmi partire per una breve vacanza in Canada - prosegue Neta - invece
ci rimasi due anni nonostante gli appelli dei miei genitori a far ritorno in
Israele. Nella mia famiglia molti sono di destra, e non mancano alti
ufficiali dell'esercito e persino coloni. Il mio gesto perciò fece
scandalo». Tornata a Tel Aviv e risolti, a caro prezzo, i problemi con
l'esercito, Neta si diplomò (dopo un viaggio in India) in medicina
alternativa. «Una delle esperienze di vita piu' importanti è stata il mese
trascorso nell'ufficio di Arafat - ricorda - un mese di privazioni, disagi,
vissuto nel timore di un attacco dell'esercito. Ma è stato anche un mese nel
quale ho potuto conoscere Arafat che si preoccupava che i pacifisti
asserragliati nel suo ufficio avessero sempre cibo e acqua». L'ultima volta
che abbiamo parlato con Neta, qualche giorno fa, era diretta al campo
profughi di Balata, tra i più colpiti dall'offensiva militare israeliana in
Cisgiordania. I profughi sono la preoccupazione principale di Caoimhe
(Cuiva) Butterly, che da mesi vive tra Jenin, Nablus e Ramallah. Caoimhe fu
la prima, sotto il fuoco dei mezzi corazzati israeliani, a portare soccorso
ai poliziotti palestinesi feriti a fine marzo nel quartier generale di
Arafat. «Mi legò stretto un laccio attorno ad una gamba fermando
l'emorragia, non la dimenticherò mai perché mi ha salvato la vita» ci disse
lo scorso aprile nell'ospedale «Sheikh Zayed» di Ramallah Tawfiq Yazji, un
poliziotto che era di guardia all'ufficio del leader palestinese. Dalla
Muqata assediata la giovane irlandese uscì un pomeriggio di fine aprile
aggirando le postazioni israeliane. Non per concedersi qualche giorno di
riposo ma per andare a Nablus.

Cuiva Butterly, irlandese

Da tre settimane è nel campo profughi di Jenin. Alta, capelli rossi tipici
della sua terra, di una bellezza aspra, cattolica praticante, Caoimhe
incarna lo spirito internazionalista dell'Ism. Figlia di un economista
dell'Onu, la giovane irlandese ha aiutato bambini malati di aids in Zimbawe,
disabili in Canada, «homeless» a New York, i contadini del Chiapas zapatista
dove ha anche imparato un po' Tzeltal. «Il mio cuore oggi è nei campi
profughi palestinesi» spiega Caoimhe «e nei campi che si sente e si vive il
dramma di questo popolo che non ha più nulla, che è stato privato di tutto a
cominciare dalla terra».
E' convinta come Huwaida, Neta e tutti i suoi compagni che la difesa
passiva, la resistenza pacifica siano la vera «arma» a disposizione dei
palestinesi «contro la brutalità dell'occupazione e la negazione del
diritto». «Lo scudo umano è l'antitesi del kamikaze» aggiunge «l'impegno di
tanti esseri umani indifesi, disarmati, ma uniti, forti delle loro
motivazioni, può sconfiggere un esercito potente come quello di Israele. Non
è retorica pacifista ma azione concreta che noi attuiamo ogni giorno con
risultati importanti e che la popolazione apprezza». Dei giorni di aprile
trascorsi nell'ufficio di Arafat, Caoimhe ricorda le telefonate di addio
fatte dai poliziotti a mogli e figli nelle notti in cui credevano di dover
morire tutti nell'attacco israeliano che si riteneva imminente. «La fame
invece non mi spaventava» aggiunge «ad ottobre ho fatto dieci giorni di
sciopero della fame per protestare contro la decisione del governo irlandese
di consentire il rifornimento all'aeroporto di Shannon degli aerei da
trasporto americani diretti verso l'Afghanistan».

Fonte: http://www.ilmanifesto.it