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Palestina e Guerra - Un articolo di Claudio Moffa (Fwd)




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To: jugocoord@yahoogroups.com, scienzaepace@area.bo.cnr.it
From: andrea
Date sent: Wed, 07 Nov 2001 13:30:57 +0100
Subject: Un articolo di Claudio Moffa


11 SETTEMBRE
PALESTINA RADICE DELLA GUERRA
LA CO-REGIA ISRAELIANA DELL'AGGRESSIONE USA ALL'AFGHANISTAN

di Claudio Moffa


Il 27 ottobre 2001, Il Tempo di Roma pubblicava un'intervista all'ex
ambasciatore israeliano in Italia Avi Pazner, nel quale l'attuale
portavoce del governo Sharon-Peres dichiarava - non senza aver citato
Siria e Libano - che Israele è pronto anche a ricorrere
anche alla guerra atomica contro palestinesi e estremisti islamici. Il
giorno dopo, il filoisraeliano Rumsfeld, segretario alla Difesa
americano, senza alcun riferimento alla presa di posizione di Pazner,
ribadiva a sua volta che gli Stati Uniti erano pronti alla guerra
atomica. Le parole di Pazner, affidate ad un quotidiano di minore
diffusione nazionale, non sono state quasi notate (ad eccezione de il
manifesto del giorno successivo). Quelle di Rumsfeld, hanno avuto ben
maggiore eco, e giustamente sono state criticate da molti
commentatori. Giustamente. Ma non sarebbe stato giusto criticare anche
Pazner? Perché, se è abbastanza difficile oggi essere
antiamericani, é del tutto impossibile essere antisraeliani? E cosa ha
significato quella sortita di Pazner, in relazione a quella
successiva di Rumsfeld? Perché, nonostante il suo carattere clamoroso, è
stata affidata dagli stessi israeliani ad una attrice, e su un
quotidiano minore, peraltro "filoBush" come in genere la stampa
filogovernativa italiana? (1)
Sono tutte domande che nessuno sembra volersi porre, e per un semplice
motivo: Israele gode sulla stampa nazionale e internazionale
di tutte le tendenze (in modo conscio o anche semplicemente inconscio)
di una sorta di "clausola di nazione privilegiata", che
impedisce di volta in volta di giudicare i fatti per quello che sono.
Non è evidente questa costatazione, di fronte da una parte
all'incredibile numero di risoluzioni dell'ONU (268!!) che dal 1967
prescriverebbero ad Israele il ritiro totale dai Territori occupati, e
dall'altra parte al modo subdolo o semplicemente superficiale in cui il
conflitto israelo-palestinese viene in genere presentato da quasi
tutti i mass media, come uno scontro fra opposte identità con eguali
diritti, minacciati da eguali "estremismi"? Israele è il marxiano
"edificio nascosto" della politologia contemporanea.
Qual'è ad esempio il suo vero ruolo nella guerra contro l'Islam di
George D. Bush? Ritornando all'intervista, non vorremmo esagerare
dicendo che quello di Pazner, per le sue modalità apparentemente casual,
sembra un messaggio in stile massonico, destinato a prima
vista all' "opinione pubblica" o a beneficiare la fama di una giovane
attrice, e in realtà solo o soprattutto alle alte "stanze del potere"
che stanno operando il massacro in Afghanistan. E dicendo che "dunque",
"ecco" il perché della successiva sortita di Rumsfeld, in
una fase congiunturale della guerra in cui neppure i bombardamenti a
tappeto hanno avuto ragione dei talebani, e in cui dunque si
accentuano le polemiche a Washington sull'efficacia dell'aggressione,
fra la "colomba" Colin Powell favorevole ad una sospensione
degli attacchi, e il superfalco Rumsfeld, che punta visibilmente, giorno
dopo giorno, errore dopo errore, ad estendere e radicalizzare il
conflitto.
E' dunque Israele che guida la guerra all'Islam, attraverso i suoi amici
nell'Amministrazione Bush? Sarebbe esagerato rispondere sì.
Ma sarebbe anche superficiale non leggere l'attivissima presenza
israeliana nella crisi, a cominciare dallo spinto autonomismo di
Sharon nei confronti degli USA. "Il nocciolo del problema non è quel
lontano paese" (l'Afghanistan), ricordava Ugo Tramballi de Il
Sole 24 ore, ma "il Medio Oriente", ivi compreso quell'Israele "cuneo
della civiltà occidentale nel cuore del loro mondo": "Israele è
guidato da uno dei governi più militaristi della sua storia - continuava
Tramballi - Alla cautela politica con cui George Bush prepara
la risposta ai massacri di martedì, Sharon risponde con brutalità,
sfrutta il momento di disattenzione della diplomazia internazionale e
bombarda i palestinesi. All'interesse della stabilità mondiale, antepone
la sua maniacale fissazione di liquidare il problema palestinese
con la forza. In questa nuova emergenza dell'Occidente c'è da chiedersi
da che parte stia davvero l'Israele di Ariel Sharon".
La Palestina è il "cuore" della crisi apertasi con gli orribili
attentati dell'11 settembre. Cerchiamo di vedere perché, ragionando sui
fatti, e cominciando da due fatti.

1 DOPO L' 11 SETTEMBRE: VERSO UNA NUOVA YALTA?. Il primo fatto è la
serie di incontri USA-Cina-Russia
successivi all'11 settembre che evidenziano non dico un accordo, ma
quanto meno una convergenza sostanziale fra i tre paesi
assolutamente impensabile dopo il bombardamento dell'ambasciata cinese
di Belgrado del 1999, e la guerra in Yugoslavia. Questi
eventi diplomatioci mettono a mio avviso in crisi quella teoria dell'
"avanzamento verso Est" dell'imperialismo USA dopo
l'aggressione alla Jugoslavia, che pure - a ragione - molti all'epoca
teorizzarono. Certo è esagerata e fuorviante l'ipotesi di una
nuova "Yalta" USA-Cina-Urss-Europa di cui parlano alcuni mass media
(vedi la lettera firmata, di autorevole fonte diplomatica,
pubblicata su Liberazione del 18 ottobre); si può cioè criticare il
termine utilizzato ricorrendo agli scontati e doverosi distinguo e
considerazioni (oggi la guerra non è ancora terminata; la stessa "vera"
Yalta, lo sappiamo tutti, non ha chiuso la conflittualità
internazionale, etc.). Si può anche sostenere perciò, che la
conflittualità USA-Cina-Russia "riprenderà" perché le contraddizioni ci
sono, ma il problema è "quando", il problema è che adesso si va
affermando una controtendenza rispetto alla guerra del 99, e
non solo - visto che anche la guerra contro la Jugoslavia fu temibile -
per il timore della potenza militare USA.
Come mai? La risposta sta a mio avviso non solo nelle concessioni
possibili (e in parte già operanti) degli USA a Cina (Taiwan e
Tibet?) e Russia (Cecenia), ma anche e direi soprattutto nel
"complemento" della convergenza USA-Cina-Russia-Europa di cui
sopra: il doppio obbiettivo cioè della "grande alleanza", vale a dire:
da una parte l' "estremismo islamico" (che come è noto e
visibile, preoccupa sia Cina che Russia) dall'altra il
"ridimensionamento" di Israele .
Anche qui, sono i fatti a parlare, perché questo processo è già in atto
in quello che è definibile il "doppio binario asimettrico" di
Bush: da una parte l'evidenza della guerra in Afghanistan, dall'altra i
numerosi tasselli di una crescente "incomprensione" fra USA e
Israele: non solo il previsto discorso di Colin Powell all'ONU proprio
quell'11 settembre, ma anche - nei giorni successivi gli attentati
- l'abolizione delle sanzioni al Sudan; la non opposizione di Washington
(attaccata violentemente da Israele) all'ingresso della Siria
nel Consiglio di Sicurezza; le insistenti pressioni di Bush (nel pieno
della preparazione della guerra contro l'Afghanistan!) per un
incontro Peres-Arafat; la polemica su Monaco con Sharon, il sì di Blair
allo stato palestinese, etc. Falsa conflittualità? Fumo negli
occhi per l'opposizione alla guerra? Vedremo, ma non credo: a me sembra
più logico inserire questo secondo binario di Bush nella
arcinota e ben provata dialettica dentro l'establishment USA fra
americani "nazionali" e lobby filosraeliana, a cui mi riferirò poco più
avanti, riflesso comunque delle esigenze imperiali "globali" degli Stati
Uniti.

2. LA CONFERENZA DI DURBAN
Il secondo fatto è la conferenza di Durban conclusasi 10 giorni prima
degli attentati di New York e Washington. In fondo, quando
a ragione si teorizza la necessità di far incontrare il movimento di
Durban con quello dei G 8 (problema enorme, se si va a fondo)
bisogna partire dal dato di fatto che Durban ha espresso una diversa
percezione della questione israeliana rispetto alla sinistra
occidentale: qui imbarazzo, censure e autocensure, kosovari albanesi e
teologia dell'olocausto, bilancino ossessivo persino nei
confronti dei palestinesi. A Durban, invece, la denuncia del sionismo
come razzismo - in linea con la vecchia mozione ONU abolita
nel '91 - da parte di 3000 ONG (le ONG, fino a ieri teorizzabili come
mera longa manus del nuovo imperialismo postbipolare!) e
l'alleanza in fieri fra africani e arabi (quasi un ritorno al clima del
dopo-guerra del Kippur), nonostante gli attentati di Nairobi e Dar Es
Salaam del 98 avessero fatto decine di vittime fra kenyani e tanzaniani.

Perché questa diversa percezione? E dove sta la ragione, nella tendenza
al ribasso e alla marginalizzazione della questione israeliana
da parte della sinistra e dell'antiG8 occidentale, o nella
sottolineatura del pericolo sionista da parte della conferenza di
Durban?
Continuiamo a ragionare sui fatti, al di là di una concezione del
sionismo come qualcosa che riguardi solo i palestinesi: in Africa,
per cominciare, c'è la presenza non tanto discreta di Israele nel
conflitto della Regione dei Grandi Laghi o in Sierra Leone, dove è in
gioco il controllo dell'enorme mercato di diamanti che fa capo ad
Anversa. Il ruandese Kagame in visita a Gerusalemme nel 1996 ha
esaltato l'amicizia fra israeliani e i tutsi, gli "ebrei" dell'Africa, e
con lui, anche Uganda e Burundi - paesi occupanti il Kivu congolese,
regione appunto ricchissima di diamanti - sono legati ad Israele. Nello
stesso Congo, nel febbraio scorso Kabila junior ha eliminato
all'improvviso il monopolio del traffico di preziosi già in mano
all'israeliana International Diamond Industries (2) .. In Asia, si
possono
ricordare gli attacchi della Malaysia contro George Soros, in occasione
del crack finanziario del 1997.
Probabilmente si potrebbe continuare con altri dati. Ma già questi fatti
vogliono dire che la straordinaria convergenza antisionista a
Durban non è stata solo l'effetto di una solidarietà ideologica con i
palestinesi, magari perché i mass media extraeuropei sono da
questo punto di vista un po' meglio e un po' più obbiettivi di quelli
euroccidentali e statunitensi, ma anche e soprattutto il frutto di una
percezione reale del sionismo così com'è, e della forza effettiva di
Israele a livello planetario. Ma su cosa si basa questa forza?
Occorre affrontare alla radice il ritornello superficiale di un Israele
"pedina" dell'imperialismo USA in Medio Oriente.

3. I FATTORI DELLA FORZA DI ISRAELE
Bisogna aprire occhi e cervello sulla possibilità che Israele sia non un
piccolo stato sorretto dall'imperialismo USA, ma una delle
massime potenze mondiali postbipolari, capace di condizionare la vita di
interi stati. Del resto, può reggere lo schemino del "piccolo
paese", o anche solo del "servo sciocco" degli USA, di fronte a quanto
raccontava Arrigo Levi sul Corriere della sera del 14
dicembre 1997, e cioè che Israele si era opposto (e in modo vincente!)
alle pressioni nientemeno che della Trilaterale, la
quale aveva chiesto a Nethanyau di ritirarsi finalmente dai Territori
occupati e di ottemperare almeno in parte alle 268 risoluzioni
dell'ONU che prescriverebbero questa necessità?
Ancora una volta elenchiamo dei fatti, vale a dire i tasselli-fattori
della forza di Israele:
- il primo, è la struttura economica dello stato d'Israele: la, quale -
ricordava il Sole 24 ore del 14 dicembre 2000 - è fondata in
gran parte sulla New Economy, tanto che Israele può fare a meno dei
lavoranti palestinesi (cioè del livello immediatamente
produttivo) e chiudere le frontiere in caso di scontro frontale con i
territori occupati. Questa caratteristica è sempre stata presente
nell'economia israeliana, da sempre sorretta - al di là dei miti al suo
riguardo - dagli aiuti finanziari della lobby USA e degli USA
(attenzione: quanto appena detto non inficia il giudizio di fondo circa
i rapporti reali fra Washington e Tel Aviv): ma oggi è diventata
ancora più netta, proprio a causa della finanziarizzazione dell'economia
a livello internazionale e dello sganciamento dell'economia
speculativa da quella produttiva.
- Il secondo elemento è dunque la forza della finanza sionista a livello
internazionale, nelle diverse Borse, o per esempio, nei
paesi "neocolonie", soprattutto nell'Europa ex socialista. Il Corriere
della Sera del 19 gennaio 1995 riferiva quanto detto dall'allora
vicesegretario di Stato americano Strobe Talbott ("Noi cerchiamo di
sincronizzare il nostro approccio ai paesi ex comunisti con la
Germania, la Francia, la Gran Bretagna. E con George Soros") e
commentava che il finanziere ebreo-ungherese, che "per sua
ammissione ha per modello il Dio dell'Antico testamento, invisibile,
benevolo, che tutto vede", "ha un'influenza decisiva nell'elezione
di Leonid Kuchma a presidente dell'Ucraina", nonché in Macedonia, in
Sudafrica, Haiti, Birmania e "persino negli USA".
- Il terzo, è appunto la potente lobby negli USA, "uno stato nello
stato" come scriveva Serge Halimi di Le monde diplomatique
dell'agosto 1989 (e come denunciano da tempo molti leaders neri negli
Stati Uniti) capace di intervenire nei passaggi cruciali della vita
politico-diplomatica e militare nordamericana. Due soli esempi della
dialettica fra americani "nazionali" e filoisraeliani, senza la quale
non è possibile comprendere la politica estera USA degli ultimi decenni,
ivi compresa la guerra in corso: nel 1990, il caso Pollard,
"ebreo americano, impiegato nei servizi segreti della US Navy, scoperto
con le mani nel sacco mentre trafugava e fotocopiava segreti
da inviare in Israele"(3) ; nel 1996 un dossier del Pentagono, che
"metteva in guardia i contraenti contro i tentativi dello spionaggio
israeliano di acquisire informazioni in riservate utilizzando i 'legami
etnici', cioè gli ebrei che vivono in America"(4) .
- Il quarto, le diverse minilobby in altri paesi occidentali, non ultime
la Francia e l'Italia. La fine del regime Craxi-Andreotti, i
due protagonisti di Sigonella, ha avuto a che fare anche con questa
dimensione? Lo hanno detto in molti (5). Lo stesso Sergio Romano
ha definito il processo di Palermo contro l'ex ministro degli esteri, un
"processo politico", pur senza esplicitarne il senso.
- L'ultimo infine, la presenza costante della stessa lobby, non solo a
livello puramente finanziario, ma anche e soprattutto a livello
mass-mediatico: in queste settimane i toni della stampa "indipendente"
vanno precedendo e scavalcando (esattamente come ai
tempi della guerra del Golfo del '91) quelli dei diversi ceti politici
occidentali. Prima ancora di Bush, il New York Times ha indossato
l'elmetto. Obbiettivo dichiarato: una nuova guerra generalizzata contro
l'Irak, per riprendere il disegno interrotto da Bush padre nel
'91, prima degli accordi di Oslo, quando il presidente USA bloccò il
generale Schwarzkopf sulla strada di Bagdad.

4. ALLA BASE DELLA "NUOVA" FORZA DI ISRAELE: LA MUTAZIONE GENETICA DELL
IMPERIALISMO NEGLI
ULTIMI VENT'ANNI
L'accresciuta forza di Israele negli ultimi dieci-quindici anni - il
punto di svolta può essere colto fra l'invasione del Libano del 1982 e
l'ascesa di Gorbaciov qualche anno dopo - ha alle sue spalle, sul piano
strutturale, quella che è definibile (mi sia concesso il termine)
la mutazione genetica della struttura del capitale: questo è il punto.
Nell'analisi della "struttura" del capitalismo nella fase attuale
occorre a mio avviso evitare la ripetizione di schemi superati, e
bisogna in realtà tener conto - rispetto ad esempio all'epoca del
Vietnam - della enorme finanziarizzazione del capitale e dei suoi
rapporti controversi e non sempre concordi con il capitale produttivo.
Come ha scritto Riccardo Petrella di Le monde diplomatique, un mutamento
fondamentale occorso durante gli anni '90 è stato,
appunto, "la finanziarizzazione dell'economia" la quale ha provocato
"due fenomeni principali: Da una parte la dissociazione fra il
capitale finanziario e l'economia reale. Ciò significa che il sistema
finanziario non svolge più il ruol:o che gli è proprio, quello cioè di
assicurare il legame tra il risparmio e l'investimento. Si è
autonomizzato in rapporto ai bisogni dell'economia e della società. E'
diventato autoreferenziale S Dall'altra il primato acquisito dal
capitale finanziario in quanto parametro principale di definizione del
valore nelle nostre società. Il valore di un bene e di un servizio è
misurato in funzione della sua capacità di aumentare il valore del
capitale finanziario (redditività del capitale)" (6)
Certo questa mutazione non riguarda solo i finanzieri ebrei, ma anche
quelli cristiani, islamici (Bin Laden, appunto). Tuttavia, se si
guarda a personaggi come George Soros o Edmond Safra, o alla "famiglia"
di Eltsin, riesce difficile pensare ad un ruolo non egemone
quantitativamente e qualitativamente della finanza specificamente
ebraica, legata da forme di solidarietà e "filantropia" alla causa di
Israele. Pur in misura ridotta, siamo insomma "tornati", per molti
versi, all'epoca in cui maturarono le analisi sull'imperialismo di
Engels 1895, Hobson 1902, Lenin 1917: l'epoca delle grandi
concentrazioni monopolistiche, della grande speculazione borsistica, dei

rentiers parassitari, e dell'ascesa in questo quadro di uno specifico,
determinato capitale. Scriveva John Atkinson Hobson, nel suo
classico Imperialism: a Study: "Questi grandi interessi finanziari S
formano il nucleo centrale del capitalismo internazionale. Uniti dai
più forti legami organizzativi, sempre nel più stretto contatto l'uno
con l'altro e pronti a ogni rapida consultazione, situati nel cuore
della
capitale economica di ogni Stato, controllati, per quel che riguarda
l'Europa, principalmente da uomini di una razza particolare, uomini
che hanno dietro di se molti secoli di esperienza finanziaria"(7)..
Tralasciamo il linguaggio ottocentesco, e parliamo di popoli e culture:
oggi si ripropone uno scenario per molti versi simile a quello disegnato
da Hobson.

5. DALL'ANALISI SINCRONICA A QUELLA DIACRONICA: LA CO-REGIA O LA
PRESENZA ISRAELIANA NELLE
GRANDI GUERRE POSTBIPOLARI. IRAK 1991
I fattori sopra elencati - anche se evidenziati e illustrati attraverso
episodi specifici - servono a "fotografare" sincronicamente il ruolo
e il potere di Israele. Ma essi vivono e si sviluppano nei fatti,
diacronicamente, nella cronaca di tutti i maggiori eventi bellici
postbipolari. Certo, ci sono anche altri fondamentali fattori da
considerare, dal complesso militare-industriale USA, al fattore
petrolio e oleodotti, al narcotraffico (L'Afghanistan dei talebani ha
ridotto del 95% la produzione di oppio: ai bombardamenti sono
dunque interessati anche i settori criminali convolti nel commercio di
stupefacenti (8) ). Ma di nuovo la questione è misurare il peso
delle diverse componenti: a livello economico, ad esempio, il volume di
affari degli ultimi tre settori citati - sempre che al suo interno,
di nuovo non operi capitale sionista - sorpassa il volume dei traffici
finanziari "puri" controllati direttamente dalla "lobby"? Dubitiamo.
Di certo, comunque, l'analisi dei fatti dimostra che le tre grandi
guerre dagli anni Novanta ad oggi - Irak 91, Jugoslavia, e
Afghanistan - hanno visto la partecipazione più o meno attiva anche se
discreta e talvolta invisibile di Israele, che ha
esercitato tutto il suo peso per scatenarle e dirigerle:
Irak 91. Dopo l'invasione del Kuwait del 2 agosto 1990, Saddam Hussein
propone, il 12 agosto, il linkage fra il suo ritiro
dall'emirato, e quello di Israele dai Territori occupati. Su questo
linkage cercano di lavorare - vedi fra l'altro la conferenza dell'ONU
dell'ottobre successivo - alcuni leaders europei come Mitterrand (poi
bollato di filonazismo) e Andreotti (sottoposto ad un processo
che lo stesso Sergio Romano ha definito "politico": ovviamente termine
vago e aperto a diverse interpretazioni). E cerca di lavorare,
sia pure con grande debolezza, persino il predecessore di Colin Powell,
il filoarabo e nemico esplicito della lobby ebraica negli USA
James Baker (9).
Ma il tank della guerra israeliano non lo blocca nessuno: riprendendo
una strategia antirakena teorizzata fin dal febbraio 1982 dalla
rivista Kivounim (Orientamento) dell'Organizzazione sionista mondiale,
per la quale "l'Irak è nella linea di mira israeliana. La sua
distruzione sarebbe per noi ancora più importante di quella della
Siria", un alto funzionario del Mossad sosteneva in una
dichiarazione al Jerusalem Post del 22 agosto, l' "inevitabilità" della
guerra. Il 3 settembre 1990, Le monde scriveva a sua volta che
"in privato alcuni commentatori vicini al governo (israeliano) lasciano
trasparire i loro timori di una soluzione negoziata - un ritiro
dal Kuwait - che lasci intatto il potenziale militare dell'Irak", e
riferiva inoltre una dichiarazione del ministro Moshe Arens per il
quale "la principale fonte di preoccupazione per Israele ... resta
l'imponente macchina da guerra edificata dagli irakeni. Io spero che
questa capacità militare non esisterà più negli anni a venire ". Ancora,
il quotidiano israeliano Maariv sosteneva nello stesso
periodo che "la sola soluzione della crisi del Golfo è la distruzione
del regime di Saddam Hussein".
Dalle parole ai fatti: l'8 ottobre, in concomitanza con la conferenza
dell'ONU, la strage di 21 palestinesi a Gerusalemme; il 4 dicembre,
a Tel Aviv, il ministro degli esteri israeliano David Levy avverte
l'ambasciatore USA William Brown - almeno secondo quanto
riferiscono Andrew e Leslie Coburn - che "se gli Stati Uniti non
avessero attaccato, Israele avrebbe preso direttamente l'iniziativa"
(10) ; circa una settimana dopo, a Washington, il no di Shamir a Bush
padre ad un tentativo in extremis di trovare una via di soluzione
pacifica alla crisi attraverso la proposta di una conferenza di pace
"globale" per il Medio Oriente; a gennaio, pochi giorni prima lo
scatenamento del conflitto, il sì del Congresso USA all'aggressione, con
il voto determinante - come dichiarò Siegmund Ginzberg
inviato de l'Unità a Radio Città aperta - della lobby filoisraeliana
negli USA, lo "stato nello stato" di cui nell'analisi sopraricordata di
Serge Halimi.

6. JUGOSLAVIA '95-'99
Meno consistente, se non addirittura meno certa, è la presenza
israeliana nella catena di guerre che ha dilaniato dal '91 in poi la
Jugoslavia. Il quadro che offriamo sicuramente è incompleto, ma già
fornisce qualche elemento di riflessione utile, e questo al di là
della consonanza culturale-strategica della disgregazione della
Federazione socialista lungo linee etniche, con la weltanschauung
"babelista" tipica del sionismo, quale ad esempio emerge dal progetto di
Odded Yinon per il Medio Oriente (Quaderni Internazionali
n. 2-3, p. 182) (11) .
In primo luogo, c'è il sostegno attivo di Tel Aviv ai musulmani
bosniaci, non a caso non sostenuti da Gheddafi e ospiti di Israele
(cfr. ad es. Il Giorno, 13/2/93, p. 11; Corriere della sera, 5/3/94, p.
7). In secondo luogo, il sostegno di George Soros all'UCK e alla
"nuova" Albania poscomunista: "Spunta il nome di Soros tra gli "amici"
dei ribelli" - titolava il Corriere della sera del 15 febbraio
1999, che nell'articolo ricordava alcuni istruttori della guerriglia
legati al finanziere ebreo-ungherese, "sostenitore dei movimenti di
liberazione che stanno cambiando i connotati dell'area balcanica": "Il
più famoso (fra questi istruttori, ndr) è Morton Abramowitz,
ex ambasciatore (tra l'altro è stato in due punti caldi come Turchia e
Thailandia) che ora rappresenta una istituzione privata
chiamata "Industrial Crisis group", legata alla fondazione Soros".
Terzo esempio, il braccio di ferro nella seconda metà degli anni
Novanta, fra Milosevic e il Fondo Monetario, protagonista
centrale, fra gli altri, il governatore della Banca centrale di Belgrado
Dragomir Avramovic, ex banchiere centrale della Repubblica
Jugoslava, favorevole alle tesi dell'istituto finanziario, e capo
dell'opposizione dopo il suo defenestramento da parte di "Slobo".
Last but not least, il ruolo martellante di Madeleine Albright nello
scatenamento del conflitto del 99, in particolare - ma non solo
- in occasione del fallito vertice di Rambouillet. Senza voler
generalizzare e nello stesso nascondere la complessità e la "varietà"
del
fronte aggressore, è utile ricordare fra l'altro - come ha fatto Sergio
Cararo nel suo saggio Il dubbio - con quanta insistenza sia stata
richiamata dalla stessa stampa internazionale (e dunque non da qualche
"antisemita" di turno) l'origine ebraica dei capifila della
guerra, quasi a voler essa stessa dare il "segno" dell'aggressione:
dalla stessa Albright al segretario alla difesa USA Cohen, al
"teorico della supremazia statunitense su tutta l'Eurasia (Europa,
Balcani, ex URSS) Zbignew Brzezisnki", al generale della NATO
Wesley Clark, alla moglie (!) del mediatore internazionale Holbrooke
(Corriere della sera, 4 maggio 1999). Non deve dunque
meravigliare il commento di Sandro Polito all'appena conclusa guerra dei
Balcani, per il quale gli Stati NATO e le loro ambizioni
internazionali sarebbero "portatori della medesima cultura
giudaico-cristiana" in conflitto con la cultura e i popoli slavi (La
Repubblica del 5 agosto 1999). Né può stupire che lo storico ebreo
Goldhagen, sostenitore della colpa dei tedeschi in quanto popolo
per i crimini del nazismo nel suo libro I volenterosi carnefici di
Hitler, si sia scagliato con analoga violenza anche contro i serbi,
accusandoli di essere animati "da una variante particolarmente virulenta
del carattere nazionalista della civiltà occidentale" e di
avere per questo ucciso tanti "civili bosniaci e albanesi, morti alla
stessa stregua degli ebrei, dei polacchi, degli omosessuali e di
altri (e qui Goldhagen omette gli stessi serbi) uccisi durante il
periodo hitleriano" (Corriere della sera del 5 maggio 1999).

7. AFGHANISTAN 2001. A) UN NODO IMPORTANTE: LE CONNIVENZE FRA ESTREMISMO
ISRAELIANO E
ESTREMISMO ISLAMICO.
Ma tutto lascia credere che il ruolo "vivo" del sionismo continui anche
dentro questa guerra, la guerra contro l'Afghanistan. Tre le
questioni importanti da affrontare da questo punto di vista: la prima
riguarda i veri mandanti delle stragi dell'11 settembre. Non
sappiamo chi siano, e probabilmente non lo sapremo mai, ma una serie di
considerazioni vanno avanzate: innanzitutto i
collegamenti fra estremismo islamico e sionista risultano acclarati non
solo per quel che riguarda i casi sopra ricordati della
Bosnia e del Kossovo, ma anche ad esempio - ed in modo plateale - in
Cecenia: "il burrattinaio (della guerriglia islamica, ndr)
additato unanimente dall'opposizione e da numerosi giornali è Boris
Berezovsky, finanziere ebreo, anima nera del Cremlino", scriveva
il Corriere della sera del 15 settembre '99 che, a dimostrazione che non
si trattava di semplici illazioni, riportava parte di una
registrazione telefonica fra lo stesso Berezowsky - cittadino anche
israeliano - e il leader ceceno Udugov.
In questo quadro, come interpretare l'affermazione di Putin che la
matrice degli attentati dell'11 settembre è "la stessa" del terrorismo
ceceno? Non rafforza la dichiarazione del presidente russo quanto
sostengono diverse fonti, e cioè che i guerriglieri di Al Qaeda
sarebbero stati addestrati in Marocco fin dai tempi della guerra
antisovietica in Afghanistan, congiuntamente da Cia e Mossad
(Stefano Chiarini, Il Manifesto, 23 settembre: la fonte è Annis
Nachache, ex terrorista legato a Carlos)? Ovvero che Bin Laden "è
una creazione dei servizi segreti statunitensi, britannici e
israeliani", legato a doppio filo col finanziere Jimmy Goldsmith
(senatore
Lyndon Larouche, interviste alla radio USA "WGIR-AM", 11 e 12 settembre:
sito www.movisol.org/)?
Anche in Italia il Mossad ha dimostrato una magistrale capacità di
infiltrazione in molte organizzazioni od eventi "rivoluzionari",
dall'attentato del cosiddetto "anarchico" Gianfranco Bertoli del 1973
contro la Questura di Milano, alle Brigate Rosse post-Curcio e
Franceschini di Mario Moretti, esecutore materiale dichiarato
dell'assassinio del "filoarabo" Aldo Moro (12) . Del resto, in occasione

dei tuttora oscuri attentati di Roma e Milano del 1993, l'allora
ministro Mancino dichiarò candidamente alla Camera che "grazie ad
una intercettazione si è potuto accertare che la rivendicazione islamica
proveniva da un cellulare di proprietà di un cittadino
israeliano" (Corriere della sera, 29 luglio 1993).

8. AFGHANISTAN 2001. B) IPOTESI E OMBRE SUGLI ATTENTATI DELL 11
SETTEMBRE
A tutto questo si può aggiungere la seconda questione, relativa ai
tuttora misteriosi retroscena, dinamiche, ed effetti reali delle stragi
dell'11 settembre. Innanzitutto Bin Laden non ha sin qui rivendicato gli
attentati, come risulta dal testo integrale della
dichiarazione-video del finanziere, pubblicata su la stampa del 9
ottobre. Le stragi restano dunque prive di paternità ufficiale, il che è

comprensibile solo in un clima di doppiogiochismo e di servizi segreti.
Uno scenario non differente da quello degli attentati di Nairobi e
Dar Es Salaam del 1998, la cui facile attribuzione a Bin Laden venne ad
esempio all'epoca messa in dubbio da un autorevole
commentatore come Arrigo Levi (Corriere della sera 14 agosto 1998) (13)
.
In secondo luogo, tutta la catena di irrisolti dubbi sulle stragi, che
cito solo per sommi capi e in modo sparso, ben sapendo e
avvertendo che ciascuno di essi andrebbe verificato attentamente prima
di trarre conclusioni: le affermazioni del "gen. Eiten Ben
Eliahu, ex comandante dell'aviazione israeliana, (che) si è detto
convinto che i piloti erano americani e non stranieri" (Larouche a
radio K-Talk 12 settembre). Quelle dell'ex presidente della
Sottocommissione sulle attività dei servizi segreti del Soviet Supremo
tra
il 1991 ed il 1993 Andrei Kosyakov, per il quale "sei mesi fa i servizi
israeliani effettuarono un'esercitazione che prevedeva l'impiego
di oggetti aerei nell'esecuzione di azioni terroristiche" (agenzia russa
Strana.ru, 14 settembre). Le dinamiche vere degli attentati. Il
mancato controllo radar fra l'inizio dei dirottamenti e l'impatto contro
le Torri gemelle. I mancati controlli prima ancora degli attentati,
dei gruppi terroristici che li hanno organizzati. L'effettiva
nazionalità dei dirottatori (per Kosyakov, forse "caucasici"). Il
balletto delle
cifre delle vittime (prima 20-25mila, poi 6-7mila, ed infine, secondo il
New York Times del 25 ottobre, meno di 3000). La connessa
notizia di fonte araba, dell'avvertimento del Mossad a 4000 impiegati
ebrei delle Torri di non recarsi al lavoro quell'11 settembre (14) :
notizia forse non vera, ma comunque mai smentita a livello ufficiale, e
fin da subito peraltro verificabile attraverso un mero "appello"
dei sopravvissuti. Il fatto che tale appello - la cosa più semplice per
le autorità inquirenti - non sia stato ancora compiuto. L'oscura
storia di una cerimonia in memoria dell' "olocausto" che si sarebbe
dovuta svolgere proprio quell'11 settembre dentro una delle due
Torri, storia che stranamente non è stata sfruttata a fini "antislamici"
dai mass media dopo gli attentati. Infine (ma solo per fermarci
qui), il curioso caso del finanziere Larry Silverstein, "ebreo e amico
di Tel Aviv" (Il Sole 24 ore, 16 settembre) che fra contratto a
decadenza in caso di attentato, e separata concomitante assicurazione,
dall'ecatombe avrebbe guadagnato - "per sua fortuna aveva
un paracadute", commentava il quotidiano milanese - qualcosa come 1,3
miliardi di dollari in un sol colpo.
Tutti questi fatti potrebbero portarci alla facile conclusione -
avanzata da diversa stampa araba 15 - che gli attentati dell'11
settembre attribuiti fin da subito al solo Bin Laden, o al massimo anche
alla destra neonazista americana, hanno avuto in realtà una
matrice o israeliana, o "interna" americana-filoisraeliana (Cia e/o
neonazisti possibili complici), o "cupolista" (una "cupola"
finanziaria "impazzita", secondo la condivisibile opinione di Giulietto
Chiesa sul quaderno speciale di Limes 16 ).
Ma non concludiamo in questo senso, ben sapendo che tutti i grandi
attentati della storia contemporanea, da Serajevo 1914 a Dallas
1963, alla strage di Bologna, all'attentato che nel 1975 scatenò in
Libano la guerra civile, non hanno tuttoggi una risposta certa.
Probabilmente non si saprà mai la "verità" dell'11 settembre. Notiamo
solo che, si fosse trattato di altro possibile mandante occulto, da
una parte o dall'altra - a seconda dell'ipotesi fatta - si sarebbe stati
più disinvolti e sicuri di "verità" anche presunte. Con Israele,
come noto, ciò è impossibile a farsi.

9. AFGHANISTAN 2001. C) LA LOBBY FILOISRAELIANA E LA MACCHINA DELLA
GUERRA
Quella che comunque è certa e visibile a tutti, è la terza questione, e
cioè il conflitto che si è aperto dentro l'Amministrazione
USA dopo gli attentati, conflitto che ricalca quelli relativi al caso
Pollard e al dossier del Pentagono sopra ricordati, o anche al "caso
Lewinsky", attribuito dalla stampa araba dell'epoca ad un tentativo
israeliano di reagire alle pressioni di Clinton e della Trilaterale per
un ritiro dai Territori occupati 17.
Basta leggere le cronache della crisi prima e della guerra poi, per
individuare di nuovo questa dialettica dentro un'Amministrazione
formata da Bush - ricordiamo questo fatto - prima ancora del "sì"
definitivo dei giudici della California alla sua vittoria elettorale, e
inclusiva da una parte del "filoarabo" Colin Powell, dall'altra dei
superfalchi filoisraeliani Rumsfeld e Cheney.
Bene, se si vanno a vedere tutte le dichiarazioni ed iniziative del
segretario alla Difesa dopo l'11 settembre, esse hanno
puntato e puntano alla radicalizzazione (fino al possibile ricorso alla
bomba atomica) e all'allargamento della guerra, con l'Irak di
Saddam Hussein obbiettivo principale: l'Irak, abbiamo visto, che già nel
1990 le autorità israeliane indicavano come l'obbiettivo da
distruggere completamente, e che di nuovo, il Mossad indica come "il
mandante dell'attacco alle Twin Towers" 18.
Lo scontro continua giorno dopo giorno, e i suoi esiti sono
imprevedibili: da una parte Rumsfeld è stato frenato e circondato non
solo
dalla reazione di Colin Powell dentro il gabinetto di guerra
(19)(espressione degli interessi "imperiali" "planetari" degli Stati
Uniti, che
non possono mettere a repentaglio i rapporti con il blocco arabo
moderato per seguire le follie di Sharon), ma anche dalla risposta
negativa dell'Arabia saudita e degli altri paesi arabi da lui visitati a
fine settembre, alla sua richiesta di appoggio logistico in caso di
attacco all'Irak.
Dall'altra, la macchina della guerra è in sua mano, in mano a Rumsfeld:
nel cinico gioco di equilibrio di Bush (bombardamenti
"selettivi", distinzione fra Islam "buono" e Islam "cattivo", etc.) è il
segretario alla Difesa ad avere le chiavi dello sviluppo pratico del
conflitto: di "errore" in "errore" dei suoi militari (le centinaia e
ormai forse migliaia di civili uccisi, le bombe sugli ospedali e sulla
Croce
rossa, etc) Rumsfeld sta visibilmente puntando ad incendiare la grande
prateria dell'Islam in tutto il mondo, in concorrenza con il
bellicismo "moderato" e da apprendista stregone di Bush, e col supporto
attivo della psicosi massmediatica da bioterrorismo, di
matrice - ovviamente e di nuovo - "irakena". Tutto questo mentre come
già detto - secondo uno scenario-ricatto già operante nel
dicembre '90, prima dello scoppio della guerra del Golfo - Israele fa
sapere, da fonte autorevolissima, di essere pronto ad
utilizzare la bomba atomica per "difendersi" dai palestinesi 20 .

10. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Potrebbero sembrare esagerati tanti distinguo di fronte alla ferocia
dell'aggressione americana all'Afghanistan, primo responsabile,
ovviamente, proprio George Bush e il suo "doppio binario asimmetrico".
Ma una domanda che dobbiamo porci è la seguente: abbiamo
sbagliato a giudicare nel 1999 Cina e Russia come due momenti di
"resistenza" all'imperialismo nell'ambito della sua avanzata a
livello planetario, perché oggi questi due stati, con la stessa
leadership, mostrano di voler "comprendere" gli Stati Uniti? Avevano
dunque ragione gli ipermovimentisti a criticare quelle analisi, e a
sostenere più o meno apertamente tutti i "popoli" e tutte le
"guerriglie" in lotta per l' "autodeterminazione", ceceni e kosovari
inclusi? Ed oggi, di fronte a quel che accade, e alla "comprensione"
appunto, di Mosca e Pechino verso Bush, dobbiamo reagire esaltando
qualsiasi "movimento' o "guerriglia" si muova nel mondo,
foss'anche quella cecena o quella delle regioni musulmane della Cina?
Qualcuno sarà tentato in questa direzione. Personalmente - ed
esattamente come prima - non credo sia la strada giusta. A Yalta,
appunto, Stalin si "incontrò" con il rappresentante della massima
potenza imperialista dell'epoca, Churchill. Ovviamente i pericoli della
situazione sono enormi, ma essi devono essere individuati con
attenzione, e non comprendono per forza di cose, ed anzi possono
"escludere" sia pure criticamente, la stessa Cina e la stessa Russia. Si
tratta di ragionare non solo sulla effettività della convergenza
(che dipenderà fra l'altro dall'evoluzione della dialettica interna
all'Amministrazione USA) ma anche sui termini ambigui della nuova
"Yalta" una volta questa marciasse effettivamente. Cosa vuol dire
"estremismo islamico"? Di certo, non può comprendere l'Intifada,
Hamas compresa, secondo quanto sostenuto il ministro degli esteri
iraniano Kharrazi 21 . Cosa vuol dire "ridimensionamento" di
Israele? ridimensionamento rispetto a chi, al solo Sharon? La partita è
aperta, e tornano pienamente validi gli obbiettivi del
movimento pacifista, da rilanciare contro Bush e l'aggressione americana
all'Afghanistan: non solo la cessazione immediata dei
bombardamenti su Kabul, ma anche il rilancio della solidarietà con
l'Irak attraverso misure per abolire l'embargo, la richiesta del
ritiro incondizionato di Israele da tutti i territori occupati nel 1967,
la nascita di uno Stato palestinese veramente indipendente.
Obbiettivi di sempre, che Bush sta svendendo - forse con la complicità
"realista" di Mosca e di Pechino - sul tavolo della nuova
desiderata "Yalta".e col bilancino del padrone del mondo.
Se a questi obbiettivi qualcuno volesse aggiungere - come probabilmente
accadrà - l' "autodeterminazione" della Cecenia o del
Tibet, sol perché oggi cinicamente scaricate da Washington, sbaglierebbe
di grosso. La convergenza "momentanea" nella Yalta
storica fra imperialismo anglo-americano e comunismo sovietico sancì la
vittoria delle forze alleate sul nazismo di Hitler. Oggi, si
tratta di sconfiggere il "nazismo" della nostra epoca, Israele e i
movimenti "rivoluzionari" che ne sono non dico espressione, ma certo
un utile strumento di dominio. Un "nazismo" che, contrariamente a quello
tedesco sconfitto nel 45, è tuttora ben vivo e capace di
condizionare la stessa politica degli Stati Uniti - sta già accadendo! -
col rischio di provocare veramente una guerra planetaria dalle
conseguenze disastrose per l'umanità intera, come, ci illuminano le
terrificanti dichiarazioni di Rumsfeld a la Stampa del 1° novembre
22 .





NOTE

1) Olga Bisera, " ' Siamo pronti alla guerra atomica' ", intervista a
Avi Pazner, Il Tempo, 27 ottobre 2001, p. 5. R.: "Anche noi ci
prepariamo a combattere una guerra non convenzionale, batterica, chimica
o nucleare che sia S.". D.:"Come la bomba atomica?". R.:
"Lei l'ha detto".
2) CNN, 21 aprile 2001.
3 ) A. Ferrari, Corriere della Sera, 22 giugno 1993, p. 31.
4) La Repubblica, 1 febbraio 1996, p. 13. Fra l'altro, anche il rapporto
della National Security Agency del 24 settembre, nella misura in
cui attribuisce agli Stati islamici o arabi "radicali" la volontà "di
scindere sul piano politico l'antiamericanismo dall'antisionismo, per
interessi di sicurezza interna a breve termine", evidenzia la
consistenza di questa dialettica (il rapporto è citato estesamente dal
Corriere della sera del 25 settembre).
5) Cfr. C. Moffa, "La politique internationale, fache cachée de la crise
italienne", Le monde diplomatique, maggio 1987.
6) Riccardo Petrella, Riflessioni sulla mondializzazione attuale e i
diritti di cittadinanza, contributo ai lavori su "La (ri)costruzione
della cittadinanza", paper, p. 1.
(7) J. A. Hobson, L'imperialismo, Newton, Roma 1996, p. 95.
8) Il possibile fattore narcotraffico è stata richiamata dall'x capo del
KGB Leonid Shebarshin (Il messaggero, 20 settembre, p. 6).
9) "La lobby ebraica USA si schiera contro Baker: 'no al ritiro dai
territori' ", Repubblica, 25 maggio 1989.
10) Andrew e Leslie Cockburn, Amicizie pericolose, Storia segreta dei
rapporti fra Stati Uniti e Israele, Gamberetti, Roma 1993,
citato ne Il Corriere della Sera, 22 giugno 1993, p. 32.
11) "La frammentazione del Libano in cinque province prefidura la sorte
che attende l'intero mondo arabo, inclusi l'Egitto, la Siria,
l'Iraq e l'intera penisola arabica; in Libano si tratta già di un fatto
compiuto. La disintegrazione della Siria e dell'Iraq in province
etnicamente e religiosamente omogenee, come in Libano, rappresenta
l'obbiettivo prioritario di Israele a lungo termine di questi Stati.
La Siria è destinata a suddividersi in vari Stati, a secondo delle
comunità etniche (S) I drusi costituiranno un loro stato S. Si tratta di
un
obbiettivo che è fin da ora alla nostra portata".
12) Cfr. le dichiarazioni del presidente della Commissione Stragi
Giovanni Pellegrino in F. Giovanni, C. Sestieri, G. Pellegrino, Segreto
di Stato. La verità da Gladio al Caso Moro, Einaudi, Torino 2000. Ma
confronta anche, per comprendere le "nuove" Brigate rosse di
Moretti, l'oscura storia di Igor Markevitch tirata fuori dallo stesso
Pellegrino (non a caso?) dopo l'assassinio di D'Antona (assassinio
compiuto il giorno dopo una presa di posizione del Parlamento italiano
cauta sulla guerra contro la Jugoslavia) e di cui su vari giornali
di quei giorni (fra i tanti, Il messaggero e Il Giornale del 30 maggio
1999); nonché, e soprattutto, la deposizione di Alberto Franceschini
alla Commissione Moro, riprese da la Padania del 12 e 13 aprile 1999.
Franceschini racconta in particolare che lui e Curcio vennero
contattati dal Mossad nel 1974, ne rifiutarono l'offerta di
collaborazione, e vennero arrestati pochi mesi dopo, le BR finendo
allora nelle
mani della "spia" - secondo Franceschini - Mario Moretti.
13) Cfr. C. Moffa, " 'Terrorismo islamico': le utili certezze di
Clinton", in Il calendario del Popolo, 624, ottobre 1998, in particolare
p.
56).
14) Molti giornali hanno riportato la notizia senza alcuna ironia o
anatema: cfr. ad es. Il Tempo, 20 settembre 2001.
15) E organizzazioni islamiche integraliste, come Hamas: cfr. Il
Messaggero, 14 settembre 2001.
16) G. Chiesa, "Cerchiamo la cupola non la rete islamica", ne La guerra
del terrore, I Quaderni speciali di Limes, pp. 87-92.
17) C. Moffa, "Dietro Clinton la lobby sionista", in Giano n. 28.
18) La Repubblica, 21 settembre 2001. Ma è interessante notare come
un'altra fonte del Mossad abbia smentito il coinvolgimento
dell'Irak (Repubblica, 24 settembren p. 14). Probabilmente, c'è
"discussione" anche dentro Israele, come del resto indicano le
polemiche fra Peres e Sharon.
19) Vari quotidiani, fra cui Il Messaggero e Repubblica del 21
settembre, riferivano di uno scontro durissimo dentro l'Amministrazione,

nel corso del quale Colin Powell avrebbe chiesto polemicamente a
Rumsfeld se aveva tutte le rotelle a posto.
20) Intervista all'ex ambasciatore Pazner, su iil Tempo del 27 ottobre
2001. Il giorno dopo, su la Stampa, Barbara Spinelli apriva un
dibattito sulla necessità di un "mea culpa" degli ebrei.
21) Il manifesto, 30 settembre 1999, p. 6.
22) "Dio mio, cercate di ricordare che cos'è stata la Seconda Guerra
Mondiale, un mese dopo l'altro e l'altro ancora senza che
accadesse nulla tranne che perdite, dolore, danni e americani uccisi. E
adesso dopo 21 giorni la gente, con domande come questa, dà
a intendere che si dovrebbero fare miracoli. Non ci sono magie! Abbiamo
detto che non esistono pallottole d'argento, lo sappiamo che
non ci sono pallottole d'argento! E' un lavoro duro e sporco. E la gente
sarà uccisa, noi lavoreremo duro e alla fine
vinceremo.


------------------------------
Lista di discussione dell'Assemblea Antimperialista
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