[Pace] Congo. Nelle aree di guerra cosa ne è dei giornalisti?



Il movimento militare M23 – insieme alle truppe ruandesi e al movimento politico Alliance Fleuve Congo (AFC) – è entrato a Bukavu e ha instaurato un regime autoritario e violento. Cosa ne è dei giornalisti? Ne abbiamo intervistato uno di cui non riveliamo il nome per la sua sicurezza.

Intervista di Ursula Vitali

Qual è la vostra situazione come giornalisti a Bukavu?

Attualmente, con l’occupazione da parte dell’M23, e con esso del Ruanda, della città di Bukavu e di gran parte della provincia del Sud-Kivu, la mia situazione di giornalista investigativo e combattente per il buon governo è molto difficile. Prima, se c’erano casi di violazione dei diritti umani, avevamo l’opportunità di incontrare le autorità, porre domande. La Società civile e gli attori sociali erano tra i nostri interlocutori.

Attualmente siamo soli: non abbiamo alcuna autorità a cui riferire, non abbiamo una Società civile attiva in questo momento – ognuno riflette per conto suo – e come giornalisti ci sentiamo soli, abbandonati. Ma c’è anche paura: dato che la Società civile si nasconde, le autorità legalmente costituite sono fuggite dalla città, i giornalisti sono rimasti soli e molti hanno deciso di lasciare la città.

Chi è rimasto cerca di lottare, ma attualmente c’è l’autocensura: quando scrivi il tuo articolo sei costretto a rileggerlo più volte, chiedendoti se non hai offeso la sensibilità dei nuovi vertici della città e della provincia. Questa autocensura sta uccidendo il giornalismo: ci chiediamo perché continuare a scrivere se le nostre dita tremano continuamente mentre scriviamo un articolo.

La storia di questa città dimostra che molti giornalisti sono morti: in tempi turbolenti come questo i giornalisti sono le prime vittime. L’altra difficoltà è che ci sono attori della Società civile e attori sociali che hanno aderito al Movimento, e conoscono i giornalisti; ci sono anche dei giornalisti che hanno aderito e alcuni media – non ho nulla contro di loro – che vengono pagati per diffondere informazioni del Movimento.

Il giornalista che vuole fare il suo lavoro diversamente, cioè come prima, è un po’ bloccato. Si pone la domanda: se scrivo questo devo nascondermi, chi è nel Movimento mi conosce, sa dove abito, conosce la mia famiglia… Questo crea una psicosi nella testa del giornalista: non sa come fare, ma la buona notizia è che cerchiamo ancora di informare il più possibile, pur se con difficoltà.

Cosa significa essere giornalista in questo contesto?

Essere un giornalista in un contesto d’occupazione è molto difficile. L’ideale sarebbe creare un’altra sinergia a livello subregionale e internazionale, per cercare di stabilire un collegamento con i giornalisti che sono a Bukavu, che possono avere accesso a certe informazioni, ma il contesto non permette loro di pubblicarle localmente.

E’ molto complicato, anche a livello finanziario, perché alcuni giornalisti a Bukavu vivono di sussidi o della vendita dei loro servizi e reportage. Ora che tutte le organizzazioni locali e internazionali che sostengono i giornalisti non sono più nella città di Bukavu, non ci sono più attività che un giornalista possa coprire. 

Un altro aspetto è quello sociale. Prima, anche se la situazione non era ottimale, avevamo una certa sicurezza, i giornalisti potevano parlare; potevano essere tradotti in tribunale, ma non avevano paura che i loro figli o il loro coniuge ne risentissero, ma ora non esiste tale sicurezza sociale. Penso che nel Nord-Kivu la situazione sia la stessa. Siamo tra l’incudine e il martello.

Le nuove autorità hanno cercato contatti con voi giornalisti, vi hanno dato indicazioni?

Hanno organizzato un primo incontro con gli attori della Società civile, di cui fanno parte anche i giornalisti. Hanno assicurato agli attori della società civile che non ci sarebbero stati problemi e che avremmo lavorato insieme. 

C’è stato un secondo incontro in cui sono stati chiamati solo i giornalisti. La conclusione è stata che saranno le nuove autorità a rilasciare le tessere stampa; l’Unione della Stampa del Congo (che noi chiamiamo UNPC) che è un sindacato, l’organismo che cerca di sostenere il lavoro dei giornalisti attraverso la consulenza, per loro non esiste più: saranno loro stessi a insediare i facilitatori. Hanno chiesto ai giornalisti di non parlare più di “zone occupate”, ma di “zone liberate”. Non dovremo più parlare di “ribelli”, ma di “liberatori”. Era una comunicazione su ciò che dovevamo fare, non avevamo il diritto di fare domande o rifiutare. 

C’è stato un altro incontro con i media audiovisivi, dando ulteriori indicazioni. Attualmente ci sono media che coprono perfettamente le attività degli occupanti. I colleghi mi hanno detto che questi ribelli pagano mensilmente questi media, non ho prove tangibili. Da questo stesso punto di vista, molti media audiovisivi non se ne sono andati e hanno deciso di non pubblicare più; altri hanno tagliato il segnale. 

I ribelli hanno promesso che nel prossimo incontro che avranno con i giornalisti, ogni organo di stampa dovrà essere rappresentato dal suo rappresentante, ma anche presentare un documento che attesti l’esistenza del mezzo di informazione e poi potranno organizzare visite a ciascun organo di stampa per verificare che non ci siano mezzi di informazione “falsi” nella città di Bukavu. Per il momento, questi ribelli sono stati ricevuti da alcuni media solo per trasmissioni e interviste.

Alcuni giornalisti si erano rifiutati di partecipare all’incontro previsto; esso è coinciso con l’arrivo del leader dell’AFC Corneille Nangaa e sembra che questo incontro e le visite agli uffici dei media siano stati rinviati.

Il suo media e il suo ufficio sono conosciuti?

Possono sapere che esiste il nostro giornale online, perché abbiamo una sede e tanti colleghi giornalisti conoscono il nostro lavoro. Noi giornalisti del Sud-Kivu siamo un corpo, ci conosciamo. Prima dell’arrivo del Movimento, per molte cose su cui non eravamo d’accordo, scrivevamo e le autorità ci conoscevano. I nostri articoli analitici e critici sul malgoverno hanno fatto conoscere i nostri media e i nostri giornalisti. È certo che i colleghi giornalisti e attori sociali che hanno aderito ci conoscono. Sono loro che purtroppo possono tradirci. 

Le organizzazioni internazionali che sostengono i giornalisti vi sono vicine ?

Quando i ribelli erano ancora sulla strada per Bukavu, a Ihusi, abbiamo allertato un’organizzazione internazionale di giornalisti. Ci hanno risposto e rassicurato: «Richiamateci quando i ribelli raggiungeranno Kavumu». Quando sono arrivati a Kabamba abbiamo richiamato, ci hanno chiesto di inviare i nomi dei giornalisti dei nostri media online. Quando sono arrivati a Kavumu, abbiamo chiamato di nuovo, non ci hanno risposto. Quando finalmente i ribelli sono arrivati a Bukavu, abbiamo richiamato e ci hanno detto che il nostro caso era ancora in fase di studio

Tutte le altre organizzazioni provano a chiamarci, a chiederci come stiamo, cosa stiamo facendo. Ce n’è una, cui siamo riconoscenti, che ha inviato un po’ di soldi a ciascun giornalista per comprare medicinali da tenere a casa. A livello nazionale non ho ricevuto nemmeno un messaggio, un’e-mail, che ci dicesse quali azioni intraprendere. 

Cosa chiedete al mondo?

Se si uccide la stampa allora si uccide la democrazia e, in un modo o nell’altro, la nostra umanità, perché il giornalista è l’occhio e l’orecchio della comunità. Se non ci sono più i giornalisti, significa che a un dato momento non sappiamo più cosa succede nella città, nella comunità, cosa si fa. Quando sono arrivati i ribelli, non ‘è stata nessuna trasmissione mediatica, per tre o quattro giorni tutti si chiedevano: «Cosa sta succedendo in città? Andiamo a lavorare o no?». 

Noi giornalisti dell’est della Repubblica Democratica del Congo ci troviamo in una situazione molto delicata e ci sarebbe necessaria la solidarietà internazionale. In alcuni casi siamo bloccati a causa della sottooccupazione. Non c’era possibilità di lasciare la città, la provincia. Non possiamo avere cose da pubblicare; vogliamo continuare a lavorare, restare, ma non sappiamo come fare, non abbiamo gli strumenti necessari nel nostro contesto. Potremmo fare interviste e video con strumenti miniaturizzati, ma ci mancano. Potremmo pubblicare informazioni a Kinshasa, ma non esiste tale solidarietà nazionale con le altre province. 

Chiediamo che i giornalisti di altre parti del mondo cerchino di parlare di ciò che sta accadendo qui. Che le organizzazioni che sostengono i giornalisti si rendano conto che non esiste un buon giornalista morto. Siamo giornalisti da vivi: è adesso che abbiamo bisogno di questa solidarietà, del loro sostegno, per continuare a lavorare nell’interesse delle comunità. È adesso che abbiamo bisogno di una guida, di un consiglio per poter sopravvivere nella situazione in cui viviamo.

E anche di un aiuto concreto. A Bukavu molti giornalisti e organi di informazione non hanno più risorse né finanziamenti. 

Ho visto tuttavia nei giornalisti di Bukavu con cui sono in contatto la volontà di continuare a lavorare. Abbiamo solo bisogno di questo acceleratore, di questo sostegno da parte di altri colleghi, di altri giornalisti in tutto il mondo, per continuare a servire la comunità.

Bukavu, 13.2.2025

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