[Pace] Di ritorno da Gaza: "I soldati israeliani respingono anestetici, incubatrici, bombole di ossigeno"
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- From: Alessandro Marescotti <a.marescotti at peacelink.org>
- Date: Sun, 17 Mar 2024 19:40:13 +0100
Gaza, la bomba più atroce
di Arturo Scotto
Condizioni igienico-sanitarie disastrose, blocco e inefficienza degli aiuti: a Gaza l’emergenza epidemica si somma ai bombardamenti. Senza un cessate il fuoco si prevedono altre 85.000 vittime nei prossimi sei mesi, mentre l’odio cresce in tutta la regione. Reportage dalla missione della delegazione parlamentare Pd, M5S, AVS
I numeri sono la chiave di tutto. Semplicemente perché la guerra, questa maledetta guerra a Gaza, si legge anche attraverso queste lenti che spiegano che il tempo è scaduto. Senza il cessate il fuoco, il bollettino attuale di morti e feriti sarà nulla a confronto dell’impatto che avranno le epidemie. Partiamo dal disastro del sistema sanitario, ormai totalmente saltato in aria: 342 i medici feriti o addirittura uccisi, 100 quelli arrestati o fermati, 106 le ambulanze distrutte o danneggiate, il 16% per cento dei bambini soffre di grave malnutrizione (ne sarebbero morti già dieci secondo UNICEF perché non mangiano e non bevono), 265.000 affetti da infezioni all’apparato respiratorio, 70.000 da malattie della pelle, 210.000 casi di diarrea, 80.000 i casi di epatite A. Le cause sono evidenti: si beve acqua inquinata, i servizi igienici non esistono più (l’OMS ci parla di un bagno ogni quattrocento persone, quando gli standard umanitari per i profughi ne prevedono uno ogni venti), sono rimasti in piedi solo 7 ospedali su 38. Da sempre le guerre sono accompagnate da bombe epidemiologiche.
Qui dove sono condensati ormai un milione e mezzo di profughi in un lembo di terra ridottissimo il colera non è più una possibilità remota. E dunque laddove non arrivano le armi, ci penseranno le malattie.
Se non si fermano le ostilità subito ci saranno 85.000 i morti in più nei prossimi sei mesi. Numeri che potrebbero scendere vertiginosamente a 6.000 – che comunque non sono pochi – se ci fosse il cessate il fuoco e ai convogli umanitari venisse data la possibilità di entrare. Durante il viaggio lunghissimo dal Cairo a Rafah – 9 ore e cinque check point – abbiamo visto file sterminate di camion che aspettano per giorni. Sono tra i 1.500 e i 2.000 i tir spiaggiati tra Al Arish e Rafah. Sono parcheggiati all’hub dell’Ocha (l’agenzia ONU delegata al coordinamento degli aiuti) e alcuni attendono da più di un mese. I tir, prima di oltrepassare il valico di Rafah, devono spostarsi a 15 km di lì, arrivare al valico di Kerem Shalom in Israele, dove vengono ispezionati accuratamente, e poi rispediti di nuovo al confine egiziano per poi mettersi in fila. Con il sole che comincia a picchiare anche il cibo in scatola, la farina, i pacchi di riso, i bidoni di acqua rischiano di essere danneggiati. Il potere della burocrazia significa rallentare il tempo e disporre della vita degli altri. Nel centro logistico della Mezzaluna rossa si stoccano le merci che non passano il vaglio di sicurezza di Israele. In un paio di capannoni troviamo una quantità di beni salvavita inviati da Arabia Saudita, Kuwait, Brasile, Germania, Francia, Australia, Indonesia, Singapore e ovviamente ONU e varie ong.
Respingono anestetici, incubatrici per bambini, bombole di ossigeno, generatori elettrici, toilette chimiche, pastiglie per la depurazione dell’acqua d’acqua, ma persino sedie a rotelle e pali per il montaggio delle tende da campo. Il timore di Israele è che possano avere una funzione dual use e dunque vengono sequestrate. E i paesi donatori non possono né protestare né chiederne lo sblocco. Ieri Biden ha implorato Israele di non ostacolare gli aiuti e ha annunciato l’invio di una nave a Gaza e la costruzione di un molo per far arrivare i beni. Sarebbe comunque importante perché l’air dropping (il lancio dagli aerei delle merci) è largamente inefficace oltre che pericoloso. Abbiamo denunciato questo scandalo e presenteremo una interrogazione parlamentare sia a livello italiano che europeo: i paesi donatori non possono tacere davanti a beni che sono pagati con i soldi dei contribuenti. E la trasparenza, la tracciabilità e la finalizzazione sono fondamentali quando si aiutano le persone in guerra. La verità è che è il sistema delle Nazioni unite a essere nel mirino. Dopo le frasi nette sulle responsabilità di Israele di Antonio Guterres all’inizio dell’assedio di Gaza il processo di delegittimazione delle agenzie umanitarie collegate all’ONU è stato fortissimo, fino a chiedere la chiusura dell’UNRWA. Una struttura che esiste dal 1949 e che si occupa esclusivamente dei rifugiati palestinesi in Siria, Giordania, Libano, West Bank, Gaza. Solo nella striscia ha tredicimila addetti stabili e diecimila a tempo determinato. È un’infrastruttura che in questo momento assiste un milione di persone senza la quale sarebbe già collassato tutto. È un’anomalia da cancellare perché testimonia ancora l’esistenza di una questione specifica palestinese e il diritto al ritorno che è presente in tutte le risoluzioni dell’ONU. L’Italia ha sospeso il contributo, l’UE solo tre giorni fa lo ha sbloccato per 50 milioni dopo mesi di indecisione, ora finalmente anche la Gran Bretagna. Sarebbero dodici i dipendenti ad aver partecipato agli attentati terroristici di Hamas il 7 ottobre secondo Israele. Si puniscano loro, ma chiudere l’intero programma avrebbe solo il sapore della vendetta. Anche perché non esiste alcuna struttura in grado di sostituire nell’immediato UNRWA. Si aprirebbe solo un vuoto pericoloso.
In tutti gli incontri che abbiamo fatto – con una delegazione parlamentare di tre gruppi politici diversi (Pd, M5S, AVS) e una folta delegazione di ong sotto il cappello di AOI (Associazione delle organizzazioni italiane di cooperazione e solidarietà internazionale) – la richiesta è stata quella di non adottare doppi standard rispetto alla crisi mediorientale. La presenza di un uso discriminatorio del diritto internazionale che spinge a intervenire solo su alcune guerre e non in altre attraverso gli strumenti della Corte penale internazionale rischia di creare precedenti gravissimi. L’attacco all’iniziativa del Sudafrica presso la corte dell’Aja è l’esempio più emblematico. Nel caso palestinese, rischia di allargare la faglia tra l’Occidente e la larga parte dei paesi che vivono Gaza come un turning point. Per questo occorre insistere sul cessate il fuoco, premessa fondamentale, per lo sblocco degli aiuti umanitari e per una ripresa di iniziativa politica. La politica ha battuto in ritirata in Medio Oriente. E mentre contempla la propria impotenza, ci sono ancora gli ostaggi israeliani nelle mani di Hamas e migliaia di vittime sotto le bombe, in prevalenza donne e bambini, la prospettiva di uno Stato palestinese sempre più remota. La punizione collettiva ideata e praticata da un leader screditato come Netanyahu rischia di moltiplicare ulteriore odio per le generazioni successive con effetti imprevedibili su tutta la regione come ci ha spiegato la Lega Araba. Non possiamo più restare con le mani in tasca.
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