Cardini è uomo di destra (quella vecchia e dura) e offre spesso
analisi particolari
http://www.francocardini.net/
Il puzzle siriano
13.9.2012
Credo che ormai le incaute speranze e i più ancor incauti
entusiasmi per le cosiddette “primavere arabe” si siano più o meno
volatilizzati. Il colpo decisivo ad esse è stato inferto da quel
che è emerso (ma purtroppo era noto anche da prima) a proposito di
Gheddafi: tiranno a lungo tollerato e perfino adulato dagli
occidentali, finché non ci si è cominciati ad accorgere che il
decisivo intervento della NATO contro di lui si era concretizzato
da quando egli aveva cominciato a intralciare gli interessi
francesi e britannici in Libia, mentre nel continente africano
stava lavorando per opporsi alle speculazioni di alcune
multinazionali nei lucrosi campi dell’acqua e della telefonia. Ci
si è inoltre resi conto – e anche lì con “inspiegabile” ritardo –
che quelle “primavere” erano state tacitamente e brutalmente
soffocate nei paesi della penisola arabica, alcuni governi dei
quali (e gli organismi mediatici che essi finanziano) sostengono
invece decisamente i gruppi fondamentalisti che hanno animato se
non addirittura egemonizzato altrove la rivolta. Ci siamo infine
accorti che – a parte l’iniziale “caso” tunisino, che aveva forse
preso di contropiede governi e imprenditori occidentali – la
rivolta si è invariabilmente indirizzata contro paesi musulmani
retti da regimi che, se non democratici, sono (o erano) comunque
grosso modo quel che noi – impropriamente – definivamo “laici”.
Nemmeno uno dei ricchi e feroci tirannelli degli emirati, quelli
che petrolio e turismo ha ormai resi arciopulenti e che sono
interlocutori preziosi di banche e di lobbies occidentali
è stato rovesciato, mentre fra i regimi arabi “laici” quello dei
militari algerini è rimasto indisturbato nonostante il responso
negativo delle urne; in Egitto non si è riusciti a salvare
Mubaraq, compromesso almeno quanto Ben Ali, ma ci si è poi dovuti
piegare alla constatazione che in fondo i “fondamentalisti
moderati”, i Fratelli Musulmani, restano il meno peggio del “nuovo
che avanza” (e allora, che cosa ci avevano raccontato fino a ieri
i nostri media?). Quanto alla Libia, i tragici fatti di
Bengasi del 12 settembre sono piuttosto eloquenti: e gettano
un’ombra inquietante sia con al leggerezza con al quale, pur di
rovesciare Gheddafi, si sono in passato sostenuti i gruppi
fondamentalisti, sia sul trend soprattutto statunitense
degli ultimi mesi, cioè da quando – sulla base dell’indirizzo
congiunto statunitense e saudita in senso anti-iraniano – sembra
riavviatasi la luna di miele tra USA e fondamentalisti sunniti,
come si nota dall’Iraq al Pakistan (giova ricordare che almeno
fino al 1995 il governo statunitense, in Afghanistan, appoggiava i
talibani la politica dei quali sembrava favorevole agli interessi
del colosso petrolifero californiano Unocal).
Questa premessa è credo indispensabile per aiutarci a guardar in
modo più obiettivo e ragionevole a quel che sta accadendo proprio
in questi momenti in un paese-chiave del Vicino Oriente, la Siria.
Già, la Siria: un grande paese, una grande civiltà. Storicamente,
l’area che fin dall’antichità era una delle più civili e popolose
del mondo – con “culture di villaggio” fino dal VII millennio
a.C. e fiorenti centri urbani come Ugarit e Mari dal III a.C. –
corrispondeva a al territorio oggi occupato dagli stati di Siria,
Israele, Giordania e Libano: un’immensa area di più di 310.000
chilometri, anche se in gran parte desertici, vivificata tuttavia
dai corsi dell’Eufrate, dell’Oronte e dal Giordano e coincidente
pertanto con gran parte della cosiddetta “fertile mezzaluna”, la
fascia fertile e popolata attigua a quei grandi fiumi. Ma oggi,
con la parola Siria s’intende un paese che l’impero ottomano aveva
organizzato in una provincia dipendente dal governatorato di Adana
e che dopo gli infausti accordi segreti Sykes-Picot del 1916 - in
violazione con gli accordi presi con le popolazioni arabe locali -
fu occupato tre anni dopo, nel ’19, dalle truppe francesi che vi
stabilirono un “mandato” purtroppo legittimato tra ’20 e ’22 dalla
Società delle Nazioni. Dopo oltre un quarto di secolo di dure
lotte, l’indipendenza fu conquistata solo nel ’46. Nacque così la
Repubblica Araba di Siria, 185.180 chilometri quadrati in gran
parte desertici, con una popolazione di oltre 22 milioni di
abitanti della quale più della metà concentrata nelle grandi città
di Damasco, Aleppo e Homs. Dopo l’effimera unione con l’Egitto
nella Repubblica Araba Unita, fra 1958 e 1961, dal ’63 lo stato
siriano è dominato dal regime monopartitico del Baath (“rinascita”),
a tendenza nazionalista e socialista originariamente nasseriana;
dopo la crisi della guerra arabo-israeliana del ’67, conclusasi
tra l’altro con l’occupazione da parte d’Israele delle alture del
Golan (che implica lo sfruttamento israeliano della sorgente
idrica di Baniyas e la perdita da parte della Siria dell’accesso
alle acque del lago di Tiberiade), dal ’70 il potere è nelle mani
della famiglia del generale Hafez el-Assad, deceduto dopo una
lunga infermità nel 2000 dopo aver assicurato il passaggio dei
poteri al figlio Bashar, il cui ruolo presidenziale è stato
confermato nel 2007 da un referendum.
Hafez el-Assad era stato un uomo duro (tristemente celebre la
repressione dei ribelli sunniti ad Homs) e le accuse che da parte
internazionale pesano sul governo siriano riguardano la violazione
dei diritti umani in politica interna, il costante atteggiamento
favorevole all’Iran in politica estera, l’atteggiamento egemonico
in Libano culminato nel 2007 nell’assassinio del presidente
libanese, il sunnita Hariri e nell’appoggio al partito Hizbollah.
Tuttavia, sotto altri aspetti, gli osservatori internazionali sono
finora stati concordi nel sottolineare alcuni caratteri non
negativi del governo di Bashar, che personalmente non ha certo
ereditato la spietatezza paterna. Lo stato sociale siriano si è
distinto per un buon funzionamento, le istituzioni e le strutture
pubbliche reggono bene, il sistema di welfare è
nettamente migliore di quanto non sia nella maggior parte dei
paesi vicino-orientali. Le sanzioni imposte dal 2004 alla Siria,
sulla base di presunte e mai ben precisate connivenze con il
“terrorismo islamico”, erano state finora debolmente applicate e
il clima diplomatico, anche rispetto agli USA, era nettamente
migliorato nel 2009. Diversamente vanno le cose con Israele,
rispetto al quale pesa il contenzioso per il Golan e i postumi del
raid aereo israeliano del 2007 contro presunte
installazioni nucleari siriane (la cui esistenza non è mai stata
comprovata).
Ma con queste premesse, a parte la “rivolta di popolo” (che è
sempre difficile capire quanto e in che misura sia spontanea e da
che punto in poi eterodiretta), quali sono le premesse della
situazione siriana? Per una sua più corretta comprensione, bisogna
valutare anzitutto quattro cose: la Siria è dagli Anni Sessanta le
più costante, sicura e valida interlocutrice-alleata in Vicino
Oriente dell’URSS prima, della Russia poi; il governo di Assad, di
famiglia alawita, controlla un paese all’80% di osservanza sunnita
(gli alawiti, non più dell’11%, sono piuttosto un gruppo
“sciita-ereticale”) ed è altresì stato sempre, dal ’79, in buoni
rapporti con il governo della repubblica islamica dell’Iran, paese
sciita; permane l’occupazione israeliana del Golan, con relativo
sfruttamento delle sue risorse idriche, nonostante le risoluzioni
dell’ONU al riguardo. A margine di questo, andrebbero messe in
conto anche l’annosa tensione tra Siria Turchia dovuta a questioni
tanto etnoreligiose quanto confinarie e idriche (le sorgenti
dell’Eufrate stanno in territorio turco), nonché la recente
scoperta di giacimenti sottomarini di gas nelle acque territoriali
turca, cipriota, libanese e siriana.
Ma soprattutto in questo momento, visti anche i “venti di guerra”
che sembrano soffiare sia dai paesi arabi e sunniti del Golfo sia
da Israele contro l’Iran, l’eliminazione del governo baathista
siriano isolerebbe ulteriormente il governo iraniano e
indebolirebbe l’influenza della Russia sul “Grande Gioco”
vicino-orientale. Da qui l’appoggio dei paesi arabi sunniti (i
quali in alcuni casi – come il Bahrein, il Qatar e l’Oman - hanno
al loro interno minoranze sciite nei confronti dei quali seguono
una politica ferocemente repressiva) al cosiddetto “esercito di
liberazione” siriano, in realtà una complessa galassia di gruppi
tra i quali sono presenti anche molti volontari non-siriani
impegnati nel jihad sunnita.
Una delle considerazioni più importanti da tener presente è anche
che gli alawiti chiamati anche nusayri (sciiti
“settimimani”, che a differenza degli iraniani riconoscono una
sequenza di soli sette imam discendenti di Ali cugino e genero di
Muhammad: a differenza della maggioranza sciita, “decimimana”, che
ne riconosce dodici ),nella cui dottrina musulmana sono presenti
anche elementi d’origine cristiana e mazdaica, hanno sempre avuto
tutto l’interesse a mantenere in Siria un clima costituzionale che
noi definiremmo “laico” in quanto temono l’egemonia sunnita: ciò
li ha portati tradizionalmente a fraternizzare con i cristiani che
in Siria sono distinti in varie Chiese che in tutto non vanno
oltre il 9%, cioè circa 2 milioni distinti tra cattolici
greco-melkiti, greco-ortodossi e siriaci d’origine monofisita
(ciascuna di queste tre Chiese ha un suo patriarca),
oltre a minoranze maronite, armene, e “caldee” che ormai hanno
aderito alla Chiesa cattolica ma hanno mantenuto i loro riti
liturgici. Il patriarca melkita Gregorio III Laham è più volte
intervenuto (autorevole, ma inascoltato dai media)
sull’attuale situazione, sottolineando che non risponde a verità
il fatto che i cristiani siano favorevoli al regime di Assad, ma
come tuttavia fino ad oggi la costituzione e il governo di Damasco
abbiano garantito libertà e tutela alle Chiese cristiane,
autentico “anello debole” della società civile siriana, e come
esse abbiano invece motivo di temere che, nel fronte ribelle,
possano prevalere i sunniti fondamentalisti tra i quali le istanze
anticristiane si sono di recente appesantite; inoltre egli ha
denunziato come all’interno di quel fronte forti siano le presenze
e le ingerenze straniere e occidentali. Insomma, una Siria 2012
che comincia stranamente a somigliare per certi versi alla Spagna
1936. Le Chiese cristiane si sono in generale dette favorevoli al
piano di pace proposto da Kofi Annan a nome dell’ONU e dalla lega
Araba e appoggiato da movimenti siriani non-violenti come
l’interreligioso Mussalah. Analoghe posizioni sono
nella sostanza sostenute da uno dei più seri e intelligenti
conoscitori italiani della questione siriana, il gesuita Paolo
dall’Oglio, che pure è stato sostanzialmente espulso dalla Siria
nel giugno 2012 dopo che vi viveva da trent’anni e vi aveva
fondato la bella comunità di Deir Mar Musa. Dall’Oglio è stato
espulso perché fino dall’inizio del movimento che noi definiamo
“primavera araba” ha sempre sottolineato la spontaneità e la
sincerità di tanti soprattutto giovani, che vogliono libertà e
chiedono un futuro migliore, nonché le menzogne e le violenze del
governo. Il quale ha ottenuto dalle autorità ecclesiastiche
cattoliche il suo trasferimento. Ma Dall’Oglio sottolinea in
un’intervista a “Jesus” del settembre 2012 come “il movimento di
massa, che all’inizio era di emancipazione civile, si è presto
colorato islamicamente”. Com’è successo in Libia e come potrebbe
succedere in Egitto. Dall’Oglio ha certo ragione quando contesta
la teoria del “complotto internazionale” sostenuto da americani,
europei e israeliani contro il regime di Damasco: una teoria
semplicemente ridicola, come sempre sono le teorie complottiste.
Egli denunzia anche il fatto che, messi alle strette, gli alawiti
ancora al governo (che rappresentano un paio di milioni di
persone) potrebbero puntare sulla resurrezione dello stato
autonomo alawita insediatosi nella zona attorno a Lattakya (nel
sud-ovest del paese), che la Francia aveva riconosciuto nel 1922 e
che fu eliminato con la fine del mandato francese del ’46: e
sostiene che ormai, messo alle strette, Assad che ha visto fallire
il suo primitivo progetto di semplice repressione del movimento
ribelle ha tutto l’interesse a prolungare la resistenza: cosa che
però rafforza, sul fronte ribelle, la pericolosa componente
sunnita fondamentalista.
La posizione del Dall’Oglio è onesta e ragionevole. Essa sembra
tuttavia sottovalutare due dati effettivi: primo, la forza e
l’intensità con la quale i paesi arabi sunniti si sono impegnati
per “islamizzare” la rivolta contro Assad, e che ormai appare
irreversibile; secondo, che per accelerare al massimo la soluzione
del conflitto occorrerebbe non l’invio di una forza ONU a sostegno
dei ribelli (come si è fatto in Libia, con le conseguenze che
conosciamo), bensì un accordo internazionale al quale per il
momento si oppone con la sua forza di veto al consiglio di
Sicurezza la Russia (appoggiata dalla Cina, ma anche da Brasile,
India e Sudafrica), in quanto essa chiede attraverso il suo
ministro degli esteri Sergheji Lavrov che le trattative si
conducano tenendo presenti anche le posizioni del governo di
Damasco anziché far di esso un pregiudiziale capro espiatorio. Ma
le posizioni russe sono presentate dai media come
“unilateralmente” ispirate da una diplomazia che per ragioni
legate alla geopolitica e al petrolio sono considerate
“unilateralmente” filoiraniane. In modo analogo, è passata sotto
silenzio la lettera con la quale l’inviato speciale delle Nazioni
Unite, Kofi Annan, ha denunziato il fatto che “si è insediata in
Siria una forza terroristica, ostile a ogni mediazione” e ha
smascherato la speculazione mediatica sul famoso massacro di Hula,
precipitosamente – e ormai a quel che pare ingiustamente -
attribuito alle forze governative (a Hula erano morti anche dei
bambini: ne sono morti purtroppo anche in altri casi e in altri
contesti: ma allora si è detto che la colpa era delle vittime
adulte, che se ne erano servite “come scudi umani”; in altri casi
e in altri contesti, i collateral damages e le “scuse”
sono sempre pronti a giustificare qualunque infamia).
Ora, sono proprio queste continue forzature interpretative a
scoprire una parte importante della realtà. Qui non si tratta
dell’isterico complottismo antiamericano giustamente denunziato
dal Dall’Oglio: si tratta della più che ragionevole ipotesi che
alla base dell’impegno teso ad eliminare il governo baathista
dalla scena politica vicino-orientale ci sia la volontà di alcuni
ambienti statunitensi e israeliani di portare un attacco militare
diretto contro le vere o supposte installazioni nucleari iraniane.
E anche quella è una forma d’isterismo complottista uguale e
contraria al complottismo antiamericano: solo ch’è molto più forte
politicamente e militarmente; e potrebbe prevalere se – Dio non
voglia – i repubblicani vincessero le elezioni statunitensi di
novembre.
Che le cose stiano così risulta chiaro da un’analisi pacata di
quel che è accaduto da un anno a questa parte: non a caso, il
numero 1 del 2012 di “Limes”, Protocollo Iran, collegava
già mesi fa correttamente il problema dell’atomica iraniana
(“minaccia o pretesto”?) alla questione dell’estrazione e del
commercio del petrolio (quindi alle tensioni arabo-iraniane nel
Golfo di Hormuz, minacciato dal blocco) e alla crisi siriana,
nonché ai “pasticciacci bbrutti” – come li chiamerebbe Carlo
Emilio Gadda - irakeno, afghano e pakistano.
Le effemeridi dell’accaduto parlano il linguaggio dell’evidenza.
Fin dalla primavera del 2011, quando sembrava che la “primavera”
fosse scoppiata in tutto il mondo arabo, gradualmente si
diradavano o cessavano le notizie sulle manifestazioni – e sulle
repressioni – dall’Algeria al Marocco alla penisola arabica,
mentre si sviluppava il “caso” egiziano (anch’esso almeno in parte
fuori del controllo occidentale, come lo era stato quello
tunisino) e si addomesticavano le rivolte mettendo in evidenza
quelle che servivano e facendo sparire le altre. Tutto bene,
quindi, dal Marocco all’Algeria allo Yemen all’Arabia saudita;
mentre le folle che chiedevano democrazia divenivano argomento
d’informazione quotidiana in Libia e in Siria.
Ma, per quest’ultimo paese, un piano di pacificazione tra
governo di Damasco ed “esercito di liberazione” proposto dalla
Lega Araba era stato ufficialmente accettato da Assad ai primi di
novembre 1011. Tuttavia, invece di dargli corso, si assisté all’escalation
nella diffusione di notizie unilaterali, garantite dalla sola
autorità del Consiglio Nazionale Siriano in esilio a Istanbul
(organizzazione dell’opposizione) sulle violenze governative e
sulle pretese basi nucleari nonché al successivo ritiro alla fine
del gennaio 2012 degli osservatori della Lega Araba dalla
missione internazionale in Siria in attesa delle decisioni dei
membri restanti (che, come osservava l’osservatore sudanese,
generale al-Dabi, non facevano il loro dovere perché per paura
restavano nei loro alberghi invece di recarsi sui luoghi dello
scontro). La lega Araba, ritirandosi, non trovava di meglio che
auspicare l’invio in Siria dei “caschi blu” dell’ONU.
Tra gennaio e febbraio, vista l’opposizione russa e cinese alle
prospettive d’intervento armato in Siria caldeggiato soprattutto
da francesi e britannici, i paesi occidentali intensificarono la
loro attività di sostegno diplomatico e finanziario alle
opposizioni (frattanto il governo italiano veniva indotto da
quello statunitense a stanziare 18 miliardi di euri per l’acquisto
di alcuni cacciabombardieri F 35), mentre al governo siriano
venivano regolarmente imputate anche azioni – come quella di Homs
durante al quale perse la vita il giornalista francese Jacque
Jacquier – ch’erano piuttosto frutto di attività “patriottiche”
(le quali in differenti contesti si sarebbero definite senza
dubbio “terroristiche”). Sempre ai primi di febbraio, il
“portale” Debkafile, vicino a Israele, annunziava che
truppe britanniche e qatariote sarebbero già entrate in Siria,
mentre dalla Libia “liberata” giungeva l’auspicio che fossero
formazioni turche ad entrare in Siria: trattandosi di musulmani
sunniti l’avrebbero accolti meglio che non i “caschi blu”. In
seguito al clima internazionale così instaurato, alla fine di
gennaio la Russia annunziava il suo rifiuto di partecipare la
“gruppo di contatto” sulla Siria previsto nel febbraio successivo
e nel quale si profilava addirittura l’eventualità di appoggiare
il progetto di un ufficiale siriano disertore in Egitto,
Hisamuddin al-Awk, che mirava a mettere insieme un corpo di
mercenari per spedirlo a combattere nel suo paese. Il tutto senza
tener conto del referendum indetto dal governo siriano, per il 26
gennaio 2012, che prevedeva una riforma costituzionale in senso
pluralistico: tale atto fu immediatamente derubricato con
noncuranza come demagogico, senza tener alcun conto del suo
significato distensivo. Intanto, i media occidentali
davano rilievo alle notizia sulle “fughe all’estero” dei capitali
dell’élite di governo e sulle defezioni di alcuni
collaboratori di Assad, come se tutto ciò non fosse normale in una
situazione come quella; e si trascuravano come del tutto
irrilevanti le denunzie dell’ambasciatore russo all’ONU, Vitaly
Churkin, sull’ingerenza libica nella crisi siriana e sui volontari
di al-Qaida addestrati in Libia.
Il piano di pace dell’ONU fu presentato tra 11 e 12 aprile 2012:
secondo l’Osservatorio Siriano sui Diritti Umani, organizzazione
dell’opposizione con sede a Istanbul, il governo siriano vi si è
subito opposto e le diplomazie francese e britannica hanno ripreso
acriticamente questa notizia. In realtà, una delle ultime scelte
del francese Sarkozy, prima di andarsene dall’Eliseo, fu quella
tesa a vanificare il piano di pace dell’ONU per favorire invece
“corridoi umanitari in modo da tenere in vita l’opposizione” ad
Assad (un gran bell’eufemismo, i “corridoi umanitari”). La
posizione francese è stata proseguita dal governo Hollande, con
l’appoggio concreto in fondi ed equipaggiamenti attraverso
l’associazione detta “Amis du Peuple Syrien”. Alla fine di maggio,
quando Kofi Annan giunse a Damasco, egli parlava di un
cessate-il-fuoco e di una concreta disponibilità governativa: ma
le diplomazie occidentali replicavano che ormai in Siria si era
alla guerra civile e si formulavano ipotesi unilaterali su no
kill zone in territorio siriano garantiti da Qatar e
Turchia. Nonostante la grande abbondanza d’informazioni
attingibili, i principali medi dell’Europa occidentale
hanno occhi e orecchie solo per il network “Al
Jazeera” e per alcuni commenti diffusi da Twitter, come
fa correttamente notare Eduardo Zarelli su “Diorama” del
luglio-agosto 2012, p.14. Tutto il resto non conta. Per esempio,
in Siria si sono tenute il 17 maggio 2012 le elezioni
amministrative con un’affluenza alle urne del 51,26% che, tenendo
conto del contesto, è molto alta: ma naturalmente tutto è a
priori “manipolazione”, “intimidazione”, “propaganda
governativa. Da Parigi Bernard Henri Lévy, con un linguaggio che
il Minculpop avrebbe trovato massimalista ma che “Il
Corriere della Sera” diffondeva il 29 maggio, definiva
“disfattismo” l’atteggiamento di tutti coloro che a proposito
della situazione siriana esigevano prudenza e maggiori
informazioni. Oltretutto, se la gente non avesse la memoria corta
e la disinformazione facile, il destino di certe Primedonne
sarebbe segnato. Il 29 maggio, appunto, Lévy definiva appunto
disfattisti “che si sono sempre sbagliati” quelli che “la vigilia
della caduta di Tripoli, prevedevano ancora un pantano”. I fatti
di Bengasi dell’11-12 settembre – con l’assassinio
dell’ambasciatore americano in Libia - dimostrano appunto che,
proprio nel caso di Lévy, cattivi profeti e profeti cattivi
coincidono sempre.
Insomma: Kofi Annan ha denunziato chiaramente che è impossibile
invitare le parti contrapposte a un confronto costruttivo in
quanto una di esse – le “forze di liberazione” – non ha una leadership
riconoscibile ed è fortemente inquinata da istanze
fondamentaliste. Le stesse che si rivelano sempre più importanti
in quella “nuova Libia democratica” che piace tanto a Bernard
Henri Lévi. Ma il sangue di un diplomatico statunitense in seguito
a una sconsiderata provocazione e a una feroce reazione è stato
sparso a Bengasi liberata dai democratici fondamentalisti libici,
di nuovo alleati dell’Occidente (come lo erano in Afghanistan nei
primi Anni Novanta), non dai servi del tiranno di Damasco: quegli
democratici che, appena qualche mese fa, erano stati aiutati
dalla NATO a liberarsi da un altro tiranno. E allora, Monsieur
Lévi, davanti all’ipotesi dei “Caschi Blu” che possano fare domani
in Siria quel che ha fatto ieri la NATO in Libia, col Suo permesso
sono un disfattista anch’io: anch’io chiedo prudenza e maggiori
informazioni.
Franco Cardini
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