La parola araba haqq ha due significati: verità e diritto, ignace e giampaolo
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- Date: Sat, 8 Sep 2012 12:01:19 +0200 (CEST)
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La parola araba haqq ha due significati: verità e diritto, nel senso di giustizia. Nessun’altra lingua, che io sappia, ha questa particolare ricchezza espressa da una sola parola. Per i popoli arabi non è forse una coincidenza significativa, e anche un impegno, che ci sia un legame così stretto tra verità e giustizia?». Per Ignace Youssif III Younan, dal 2009 patriarca di Antiochia dei Siri la cui sede è proprio nel quartiere siriano di Beirut, la capitale del Libano, «se la violenza è sempre un orrore in Medio Oriente lo è forse ancora di più». Parole che il patriarca pronuncia «con dolore», costatando quanto invece «la pace sia purtroppo al momento così tanto lontana dalla vita della nostra gente». Siriano di origine, il patriarca rilancia — nell’intervista al nostro giornale — la proposta di un tavolo per la pace per fermare le violenze e trovare una soluzione pacifica e condivisa che garantisca più democrazia e il rispetto dei diritti umani. E in questa prospettiva si aspetta molto dall’ormai imminente visita di Benedetto XVI, atteso a Beirut venerdì 14 settembre.
E proprio l’indissolubilità tra verità e giustizia, su cui lei sta
puntando tutto, sarà probabilmente anche il cuore del messaggio del
Papa.
Verità e giustizia non si possono separare: è un fatto che nel mondo arabo
dovrebbe essere sempre tenuto in considerazione assoluta ogni volta che si
pronuncia, consapevolmente, la parola haqq. È un’idea che ho rilanciato
intervenendo al Sinodo dei vescovi del 2008 dedicato alla Parola di Dio e
ripreso poi al momento di iniziare il mio servizio come patriarca. È sotto gli
occhi di tutti che non ci possa essere verità senza giustizia né giustizia senza
verità. Soprattutto è un linguaggio comprensibile a tutti in Medio Oriente.
Di diritti umani e giustizia, tracciando quasi un profilo della primavera
araba, ha trattato anche il Sinodo dei Vescovi sul Medio Oriente, nel 2010, di
cui lei è stato presidente delegato.
Il Sinodo per il Medio Oriente ha suscitato nuove speranze e non nascondo che
abbiamo forti aspettative per l’esortazione apostolica post-sinodale che il Papa
verrà a consegnarci personalmente. L’idea di fondo è semplice: riaffermare a
chiare lettere la volontà dei cristiani e dei musulmani di vivere insieme, in
pace, collaborando per costruire un sistema più democratico di convivenza
pluralista. Le religioni sono motivo d’incontro e non di scontro.
Quindi, secondo lei, in Medio Oriente dovrebbe essere impossibile, ancor
più che altrove, commettere violenze usando il nome di Dio.
Il Medio Oriente resta la culla delle civiltà e delle religioni dove tutti
abbiamo davanti un’unica strada: convivere pacificamente e lavorare insieme per
il bene della nostra gente. La religione non può mai essere
violenza.
Eppure ciò che sta avvenendo nella regione è ben lontano da prospettive
di convivenza pacifica. Lei è di origine siriana, come vede la situazione nella
Siria di oggi?
Con grande timore. Un timore purtroppo realistico, guardando anche
all’esperienza irachena. La necessità di trovare presto soluzioni che aprano la
strada al dialogo e a riforme di libertà e giustizia non è un’idea solo della
minoranza cristiana, ma di tutti i credenti e degli uomini di buona volontà. Le
violenze devono cessare e le parti in causa devono trovare il coraggio di
sedersi intorno a un tavolo di pace per ricercare insieme le soluzioni giuste
per tutti, nell’interesse della popolazione che chiede un futuro di pace. Si
aggiunga anche la questione terribile dei profughi. In Libano ne arrivano tanti
di cristiani in fuga: è sempre più complicato accoglierli e garantire loro una
vita dignitosa.
Ma cosa sta accadendo in Siria?
Duole confessarlo, in Siria lo scontro non è soltanto una questione politica
ma tocca anche le diverse confessioni religiose. Una constatazione che fa male
perché quella è una terra che ha visto fiorire una cultura importante, antica,
improntata all’accoglienza e alla tolleranza. I cristiani oggi sono una
minoranza esigua e più che mai vulnerabile. Il messaggio che portano alla
società, anche solo con la loro presenza, va infatti in senso contrario ai
progetti radicali che invece non tengono per niente conto del valore della
persona. Ancora una volta la questione di fondo è il riconoscimento e il
rispetto dei diritti umani. Ai cristiani, invece, vengono sistematicamente
negati i diritti più comuni.
Benedetto XVI sta per arrivare in Libano mentre tutto intorno divampano
focolai di violenza. Cosa si aspetta da questa visita?
È una visita che potrebbe aprire scenari nuovi, ora impensabili, e suscitare
speranze di pace e di riconciliazione per l’intero Medio Oriente. Ne sono più
che convinto. Così non è abuso, non è un’esagerazione, usare l’aggettivo
«storico» per questo tanto atteso pellegrinaggio. Il Papa visiterà il Libano, ma
è certo che il suo viaggio riguarderà l’intera regione. Il suo sguardo
abbraccerà tutti i popoli. Ecco che, in questa prospettiva, l’attesa principale
confluisce in una grande speranza di pace. Sì, Benedetto XVI viene innanzitutto
come messaggero di pace. Porta a tutti una parola di riconciliazione per
aiutarci a costruire relazioni di convivenza che siano sul serio rispettose dei
diritti delle persone, delle minoranze. I diritti umani devono essere garantiti
a tutti.
Potrebbe dunque contribuire a un progetto per un nuovo Libano e per
rilanciare prospettive di pace per l’intero Medio Oriente.
Sì, ne abbiamo urgente bisogno. La chiave di tutto è comprendere finalmente
che una convivenza giusta dev’essere fondata sul rispetto per l’altro, creato a
immagine e somiglianza dell’unico Dio. Noi cristiani, innanzitutto, aspettiamo
dal Papa una parola di incoraggiamento: attendiamo indicazioni pratiche per
provare a costruire relazioni migliori non solo tra noi, appartenenti ai diversi
riti e confessioni cristiane, ma anche con il grande oceano musulmano.
Nell’enciclica Caritas in veritate, al numero 56, il Papa afferma che
«nel laicismo e nel fondamentalismo si perde la possibilità di un dialogo
fecondo e di una proficua collaborazione tra la ragione e la fede religiosa». E
qui si torna anche al discorso che verità e giustizia non possono essere mai
separate. È una logica umana ancor prima che religiosa. Del resto basta anche
richiamarsi alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, alla Carta
delle Nazioni Unite.
Ma secondo lei il mondo musulmano ascolterà il Papa?
Credo di sì. Posso testimoniare che i leader islamici sono d’accordo
nell’impegno di accogliere il Papa con il rispetto che si deve al capo della
Chiesa cattolica. Sì, sono convinto che il Pontefice sarà ascoltato. E sono
anche sicuro che i leader musulmani più illuminati si aspettino da Benedetto XVI
un contributo che dia sostegno alle forze democratiche e pluralistiche che
lavorano per una vera democrazia e perché tutti vedano riconosciuti i propri più
elementari diritti.
E quale contributo pratico può dare la minoranza cristiana al processo di
pace in Medio Oriente?
La nostra testimonianza di cristiani è, per forza di cose, piccola ma
comunque importante. Chiaro che la visita del Papa è un passo di portata storica
proprio perché il suo messaggio potrà raggiungere tutti. A mio parere, di forte
impatto sarà l’Esortazione Apostolica post-sinodale che Benedetto XVI ci
consegnerà in Libano. Sarà un segno concreto dell’attenzione della Chiesa per i
veri problemi del Medio Oriente, per le questioni irrisolte, per le speranze e
le attese concrete della gente. Non è un discorso che riguarda solo i cristiani.
È certo, però, che noi cristiani dalla visita del Pontefice e dall’Esortazione
Apostolica dobbiamo ripartire con ancora più slancio per dare il nostro
contributo, aperto a tutti. Una missione che possiamo portare avanti solo
partendo da un rinnovamento spirituale interiore, da un’esperienza di
conversione e di approfondimento della nostra fede. In una parola, la nostra
speranza deve divenire lavoro per la realizzazione del piano divino di salvezza
per tutti.
Tornando al duplice significato della parola haqq, con quale spirito oggi
la pronunciano i cristiani mediorientali?
Cercando di non perdere mai la speranza, di non cedere alla tentazione dello
scoraggiamento, di credere sempre e comunque nella verità e nella giustizia
anche quando i nostri progetti sembrano umanamente irrealizzabili. In
particolare negli ultimi quattordici secoli i cristiani, divenuti minoranza,
sono stati duramente provati nella loro testimonianza di fede, fino al martirio.
Però restiamo fedeli all’insegnamento del Signore che ha offerto la salvezza a
tutti, anche a coloro che si oppongono al suo messaggio d’amore universale. Così
anche oggi la nostra unica strada è continuare a vivere, coraggiosamente, il
messaggio del Signore e proclamare senza alcun timore la verità nella vera
carità. Serve tanta, tanta speranza.
È speranza la parola chiave?
Noi cristiani che viviamo nella tormentata regione mediorientale abbiamo diritto a sperare. E la fede è inseparabile dalla speranza. È il Signore stesso a rassicurarci: «Non temere, piccolo gregge». Non dobbiamo aver paura di annunciare Colui che ha detto di sé: «Io sono la via, la verità e la vita». È proprio seguendo Cristo che possiamo testimoniare come solo la verità nella giustizia ci renderà liberi.
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