Siria, la "guerra" dei pacifisti.Per il governo italiano unico interlocutore il cns.



Il governo italiano continua a considerare unico interlocutore il CNS che ha addirittura fatto da tramite per i finanziamenti tra Qatar e Arabia Saudita e Esercito Libero Siriano (da La Stampa). L' Esercito Libero Siriano ha rivendicato l' attentato ai vertici dello stato siriano che ha ucciso anche il ministro della difesa.
 
Il nostro paese non e' spettatore nella crisi siriana, ha una sua posizione.Io credo che sia una posizione di appoggio a chi da mesi e' impegnato a fare crescere l' intensita' dello scontro armato.
 
Io penso che debba essere proposta una posizione diversa.
 
Ho le mie opinioni sulla crisi siriana e non pretendo che siano condivise da tutti, mi piacerebbe pero' che anche chi ha idee diverse dalle mie proponesse un' altra politica al governo italiano,
 
che appoggia,secondo me, in maniera evidente chi da mesi organizza gruppi armati (dove anche per media occidentali  potrebbero combattere anche non siriani) e rifiuta ogni dialogo e trattativa anche con Kofi Annan.
 

--- Lun 23/7/12, lorenz.news at yahoo.it <lorenz.news at yahoo.it> ha scritto:

Da: lorenz.news at yahoo.it <lorenz.news at yahoo.it>
Oggetto: [pace] Siria, la "guerra" dei pacifisti
A: pace at peacelink.it
Data: Lunedì 23 luglio 2012, 03:27

Siria. La guerra dei pacifisti
di
ANDREA GLIOTI
Tra gli attivisti siriani che combattono contro Assad ci sono ancora giovani
che rifiutano le armi. «Chi imbraccia il fucile fa il gioco del regime, che
vuole presentarsi al tavolo come una delle parti in conflitto»

Non è impossibile restare pacifisti in mezzo a una guerra. A 16 mesi
dall’inizio della rivoluzione siriana, chi manifestava contro il regime è
stato costretto dalla repressione governativa a imboccare la via della lotta
armata, ma anche tra i più fieri oppositori di Bashar al Assad c’è chi non
ha digerito il passaggio da Gandhi a Che Guevara.
Shadi Abu Karam di Sweida, nella Siria sud occidentale, e Rami Suleiman di
Damasco rientrano in questa categoria. Shadi, il più giovane, sembra il
prototipo del cyberattivista, impegnato ad aggiornare febbrilmente il suo
“status” sui social network. Il trentenne Rami, invece, si presenta come un
riflesso nostalgico della sinistra panarabista, tra barba incolta e nubi di
fumo. A Beirut ovest ci raggiunge anche Nalin*, 27 anni, siriana di origini
curde, che fa la spola tra la capitale libanese e Damasco per distribuire e
raccogliere “fondi” per la rivoluzione. Con Tareq Abdul-Haqq, invece,
bisogna parlare via skype. È un ventisettenne di Jisr as-Shughur, città
della provincia conservatrice nord occidentale di Idlib, la più martoriata
dalle truppe governative. Ho conosciuto Tareq nel campo profughi al confine
turco-siriano, dove è impossibile incontrare qualcuno che non sostenga
l’Esercito libero siriano (Esl), il principale gruppo di resistenza armata.
Sempre tramite skype, si unisce a noi Abu Zayd, 35 anni, attivista
palestinese del campo profughi damasceno di Yarmuk.

I rischi della lotta armata
«La paura che le armi non vengano deposte, una volta rovesciato il regime,
esiste», ammette Shadi, ma sostiene anche che «molti civili hanno
imbracciato le armi solo per difendersi e l’Esl svolge tuttora la funzione
di proteggere i manifestanti». Tareq, ad esempio, sostiene di esser passato
dalla videocamera al fucile per pura autodifesa. «Molti accettano di
militare in falangi di orientamento fondamentalista non perché ne
condividano le idee, ma per la violenza patita dalle loro famiglie», spiega
la curda Nalin, che si dice assolutamente contraria alla resistenza armata.
«All’esercito basta trovare una persona con una pistola per giustificare la
repressione nelle forme più violente». Tareq, invece, non è più un
pacifista. Oggi non riconosce alcun ruolo alla rivolta senza armi: «Non
posso manifestare senza preoccuparmi della mia sicurezza». Eppure c’è ancora
chi sostiene che la violenza possa pregiudicare l’esito di una rivoluzione.
«Il partito Ba’th, che governa la Siria da 50 anni, prese il potere con un
golpe militare, nel 1963. Non vogliamo che la storia si ripeta». Nalin fa
riferimento a un episodio inquietante: una velata minaccia che l’Esl avrebbe
rivolto a Rima Dali, la promotrice siriana del movimento nonviolento
“Fermiamo le uccisioni”. L’Esercito di liberazione le avrebbe intimato di
non diffondere le sue idee nelle aree controllate dai rivoluzionari.
«È vero che siamo entrati in una fase in cui l’Esl riceve aiuti in termini
di armamenti, tant’è che i ribelli dispongono ormai di un arsenale
competitivo - spiega Rami – ma a Damasco e Aleppo il movimento di resistenza
civile riscuote un successo maggiore. E c’è anche un motivo strategico per
combattere senza armi: non puoi lanciare in città lo stesso genere di
operazioni militari compiute nelle campagne disabitate… Cosa vuoi fare a
Damasco, bombardare l’autostrada di Mezzeh?!». Rami esclude categoricamente
che la lotta armata possa riuscire a rovesciare il regime e sostiene che
l’Esl non disponga ancora di un’artiglieria efficace sulla lunga distanza.
«Con le loro armi puoi colpire dei posti di blocco, realizzare degli
assassinii mirati, vincere mille battaglie, ma non la guerra».

La strategia degli attivisti
Ma quali sarebbero quindi le potenzialità della società civile e dei metodi
non-violenti? «Molti commercianti di Damasco e Aleppo si sono ritrovati ad
aiutare gli sfollati di Homs (la città più devastata dalla repressione
governativa, ndr) e in seguito si sono sviluppate nuove forme di
solidarizzazione», spiega Shadi. Il 28 maggio, lo sciopero dei mercanti di
Damasco ha riscosso adesioni su scala nazionale e la Camera di Commercio
della capitale non è riuscita a imporre l’apertura dei negozi. Si tratta di
una svolta epocale, se si pensa a come Hafez al-Asad, il padre di Bashar,
fosse riuscito a placare un’iniziativa simile – in supporto dei moti
islamici degli anni 80 – cooptando il Presidente della Camera di Commercio
di allora.
Secondo Shadi, il movimento pacifista sta avendo un impatto sul cittadino
medio, quello che non partecipa alle manifestazioni ma è ormai frustrato
dalla crisi economica, dall’incapacità del governo di ristabilire la
sicurezza con i suoi metodi sanguinari e da un servizio di leva che continua
a falcidiare le vite dei più giovani. Ma secondo Rami il movimento pacifista
soffre ancora di carenze strategiche e deve muoversi per “piccoli passi”
verso l’obiettivo dell’occupazione delle piazze siriane. «Piccoli passi
significa chiedere che dieci strade di Damasco vengano intitolate ai martiri
caduti durante la rivoluzione, cosicché tutti, neutrali e lealisti compresi,
tengano in considerazione quel nome». Al contrario, Tareq di Jisr as-Shughur
non riconosce alcuna importanza al coinvolgimento dei cosiddetti segmenti
“silenziosi” della società siriana: «Dopo un lasso così lungo di tempo,
chiunque taccia di fronte ai crimini perpetrati dal regime è un lealista».
Rami, l’attivista damasceno, ritiene invece che la polarizzazione militare
vada incontro agli interessi del regime, che ha più difficoltà a
relazionarsi con movimenti pacifisti. Pur evitando di porre sullo stesso
piano truppe governative e Esl, il palestinese Abu Zayd la pensa nello
stesso modo: «L’obiettivo del regime è quello di trasformare il conflitto
nella contrapposizione tra due fronti, per prolungare la sua permanenza al
potere e imporre una soluzione all’interno della quale il governo sia una
delle parti coinvolte, non un oppressore da processare».

Tra speranze e pessimismo
L’ottimismo di Rami, alla luce delle violenze siriane, è difficile da
comprendere. Forse è dettato dalla percezione – da parte dei movimenti
civili - di avere acquisito una maggiore influenza sulle organizzazioni
politiche anti regime. «Noi giovani attivisti avevamo chiesto di
rappresentare il 50 per cento dei partecipanti alla conferenza
dell’opposizione al Cairo (2-3 luglio). Ci è stato concesso il 33 per cento,
ma si tratta comunque di una vittoria - afferma entusiasta Rami –
l’opposizione “tradizionale” sa di essere impotente senza di noi!». Abu Zayd
è più disilluso, conscio di come gli interessi delle potenze coinvolte
possano imporre scenari più militarizzati. «La comunità internazionale vuole
la guerra civile per poi intervenire come garante della sicurezza dei
confini israeliani - afferma il palestinese – il protrarsi del conflitto in
Siria preserverà la sicurezza dello Stato ebraico proprio come durante la
guerra civile libanese». Guerra tua, vita mea.

*alcuni nomi sono stati cambiati per ragioni di sicurezza

left 28 - 14 luglio 2012


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