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Hormuz-mania

Redazione 2 febbraio 2012

di Michael T. Klare   - 1 febbraio 2012

Fin dal 27 dicembre, nubi di guerra si stanno addensando sullo Stretto di Hormuz, la stretta via d’acqua che collega il Golfo Persico con l’Oceano Indiano e i mari più in là. In quel giorno il vicepresidente iraniano Reza Rahimi ha avvertito che Teheran avrebbe bloccato lo Stretto e gettato lo scompiglio nei mercati mondiali del petrolio se l’Occidente avesse imposto nuove sanzioni economiche al suo paese.

“Se impongono sanzioni alle esportazioni iraniane di petrolio” ha dichiarato Rahmi, “allora nemmeno una goccia di petrolio potrà passare dallo Stretto di Hormuz.” Affermando che una tale mossa costituirebbe un attacco a vitali interessi degli Stati Uniti, il presidente Obama risulta aver informato il leader supremo dell’Iran, Ayatollah Ali Khamenei, che Washington userebbe la forza per mantenere aperto lo stretto. A sostegno delle loro minacce entrambe le parti hanno rinforzato le proprie forze nell’area ed entrambe hanno condotto una serie provocatoria di esercitazioni militari.

Tutto ad un tratto lo Stretto di Hormuz è diventato il punto più infiammabile del pianeta, il luogo più probabile in cui assistere a un grande conflitto tra avversari bene armati. Perché, tra tutti gli scenari questo ad essere diventato così esplosivo?

Il petrolio, naturalmente, costituisce la parte principale della risposta ma – e ciò può sorprendervi – solo una parte.

Il petrolio resta la fonte di energia più cruciale del mondo e circa un quinto delle forniture di petrolio del pianeta passa su cisterne attraverso lo stretto. “Hormuz il punto di congestione del petrolio più importante del mondo a motivo del suo flusso quotidiano di petrolio di circa 17 milioni di barili nel 2011,” ha osservato il Dipartimento USA dell’Energia al finire dell’anno scorso. Poiché nessun’altra area è in grado di sostituire questi 17 milioni di barili, qualsiasi chiusura estesa produrrebbe una carenza globale di petrolio, un picco dei prezzi e indubbiamente un concomitante panico e disordine economico.

Nessuno sa quanto salirebbero i prezzi del petrolio in circostanze simili, ma molti analisti dell’energia ritengono che il prezzo al barile potrebbe immediatamente balzare a 150 dollari e più. “Si avrebbe una reazione internazionale che sarebbe non solo elevata, ma irrazionalmente elevata,” dice Lawrence J. Goldstein, uno dei direttori della Fondazione di Ricerca sulla Politica Energetica.  Anche se gli esperti dell’esercito presuppongono che gli Stati Uniti utilizzeranno la propria schiacciante potenza per liberare lo stretto da mine e ostruzioni iraniane in pochi giorni o settimane, il caos a seguire nella regione potrebbe non terminare rapidamente, mantenendo i prezzi del petrolio alti per molto tempo.  In effetti alcuni analisti temono che i prezzi del petrolio, già sospesi sopra i 100 dollari al barile, raddoppierebbero rapidamente a più di 200 dollari, cancellando qualsiasi prospettiva di ripresa economica negli Stati Uniti e nell’Europa Occidentale, e forse precipitando il pianeta in una rinnovata Grande Recessione.

Gli iraniani sono ben consapevoli di tutto questo ed è che con un simile scenario da incubo che, quando minacciano di chiudere lo stretto,  cercano di dissuadere i leader occidentali da ulteriori sanzioni economiche e da altre azioni più mascherate.  Per acquietare tali timori i dirigenti statunitensi sono stati ugualmente cristallini nella sottolineare la propria determinazione a mantenere aperto lo stretto.  In circostanze simili, di accresciuta tensione, un passo falso di una delle due parti potrebbe rivelarsi una calamità e trasformare la reciproca belligeranza retorica in un conflitto concreto.

Signori militari del Golfo Persico

In altri termini il petrolio, che fa ronzare l’economia mondiale, è il fattore più ovvio nell’erompere di discorsi bellici, se non di una guerra vera e propria.  Di significato almeno uguale sono fattori politici connessi, che possono avere radici nella geopolitica del petrolio ma possono aver acquistato vita propria.

Poiché così tanto del petrolio mondiale più accessibile è concentrato nella regione del Golfo Persico, e poiché un flusso costante di petrolio è assolutamente essenziale per il benessere degli Stati Uniti e dell’economia mondiale, è da lungo tempo politica statunitense evitare che potenze potenzialmente ostili acquistino la capacità di dominare il Golfo o di bloccare lo Stretto di Hormuz.  Il presidente Jimmy Carter articolò per primo questa posizione nel gennaio 1980, dopo la Rivoluzione Islamica in Iran e l’invasione sovietica dell’Afghanistan. “Qualsiasi tentativo di una forza esterna di ottenere il controllo della regione del Golfo Persico sarà considerato un attacco agli interessi vitali degli Stati Uniti d’America,” dichiarò a una sessione congiunta del Congresso, “e un simile attacco sarà respinto con tutti i mezzi necessari, compresa la forza militare.”

In conformità a tale precetto Washington si è designato signore  militare del Golfo Persico, dotato della potenza militare in grado di superare qualsiasi potenziale sfidante. All’epoca, tuttavia, l’esercito statunitense non era bene organizzato per attuare l’iniziativa presidenziale, nota da allora come la “Dottrina Carter”.  In risposta il Pentagono creò una nuova organizzazione, il Comando Centrale USA (CENTCOM) e lo dotò rapidamente dell’occorrente per schiacciare qualsiasi potenza rivale o potenza della regione e per mantenere aperte le vie marittime sotto il controllo statunitense.

IL CENTCOM entrò in azione la prima volta nel 1987-88 quando le forze iraniane attaccarono le cisterne petrolifere kuwaitiane e saudite durante la guerra Iran-Iraq, minacciando il flusso di forniture di petrolio attraverso lo stretto. Per proteggere le petroliere il presidente Reagan ordinò che fosse loro cambiata la bandiera in quella statunitense e che fossero scortate da navi da guerra statunitensi, mettendo per la prima volta  la Marina in potenziale conflitto con gli iraniani.  Da questa azione derivò il disastro del Volo 655 dell’Iran Air, un aereo civile sul quale viaggiavano 290 passeggeri e i membri dell’equipaggio, tutti morti quando l’aereo fu colpito da un missile proveniente dalla nave USA Vincennes, che lo scambiò per un aereo da combattimento ostile; una tragedia da lungo tempo dimenticata negli Stati Uniti ma che provoca tuttora profondo risentimento in Iran.

L’iraq fu l’alleato di fatto degli Stati Uniti nella guerra Iran-Iraq, ma quando Saddam Hussein invase il Kuwait nel 1990 – ponendo una minaccia diretta al dominio di Washington sul Golfo – il primo presidente Bush ordinò al CENTCOM di proteggere l’Arabia Saudita e di cacciare le forze irachene da Kuwait.  E quando Saddam ricostruì le sue forze, e la sua stessa esistenza tornò a rappresentare una minaccia latente al dominio statunitense nella regione, il secondo presidente Bush ordinò al CENTCOM di invadere l’Iraq e di eliminare completamente il suo regime (il che, come nessuno probabilmente dimenticherà, si tradusse in una serie di disastri).

Se il petrolio è alla base del ruolo dominante di Washington sul golfo, nel tempo tale ruolo si è trasformato in qualcosa di diverso: un’espressione potente dello status degli Stati Uniti come superpotenza globale. Diventando signori militari del Golfo e autonominati guardiani del traffico del petrolio attraverso lo Stretto di Hormuz, gli Stati Uniti hanno detto al mondo: “Noi, e noi soltanto, siamo quelli che possono garantire la sicurezza delle vostre forniture quotidiane e perciò prevenire il collasso economico globale.” In effetti, quando finì la Guerra Fredda – e con essa il senso di orgoglio e di identità statunitensi come bastione contro l’espansionismo sovietico in Europa e in Asia – la protezione del flusso del petrolio del Golfo Persico divenne la maggiore rivendicazione degli Stati Uniti al ruolo di superpotenza, e lo rimane ancor oggi.

Ogni opzione su ogni tavolo

Dopo la cacciata di Saddam Hussein nel 2003 l’unica potenziale minaccia al dominio statunitense nel Golfo Persico restava, naturalmente, l’Iran. Anche sotto lo Scià, appoggiato dagli Stati Uniti, l’uomo da sempre di Washington nel Golfo, gli iraniani aveva cercato di essere la potenza dominante nella regione.  Ora, sotto un regime islamico sciita militante, si sono dimostrati non meno decisi e  – chiamatela ironia – grazie al rovesciamento di Saddam e all’ascesa di un governo dominato dagli sciiti a Baghdad, sono riusciti ad estendere la loro portata politica nella regione.  Con in mente il destino di Saddam, hanno anche costruito il proprio potenziale militare difensivo e – secondo molti analisti occidentali – si sono imbarcati in un programma di arricchimento dell’uranio con il potenziale di fornire materiale fissile per un’arma nucleare, nel caso la dirigenza iraniana decida un giorno o l’altro di compiere quel passo fatale.

L’Iran pone così una doppia sfida allo status professato da Washington nel Golfo.  Non è soltanto un paese ragionevolmente ben armato con un significativa influenza sull’Iraq e altrove, ma promuovendo il suo programma nucleare minaccia di complicare parecchio la capacità futura degli Stati Uniti di respingere attacchi punitivi come quelli lanciati contro le forze israeliane nel 1991 e nel 2003.

Anche se, a voler essere generosi, il bilancio militare dell’Iran è modesto e le sue potenzialità militari convenzionali non si approssimeranno mai ad essere alla pari con le forze superiori del CENTCOM in un confronto diretto, il suo potenziale perseguimento di armi nucleari complica di molto il calcolo strategico nella regione.  Anche senza compiere il passo finale di produrre veri componenti della bomba – e non è emersa ancora alcuna prova che gli iraniani siano arrivati sino a questa fase critica – lo sforzo nucleare iraniano ha allarmato grandemente altri paesi del Medio Oriente e messo in discussione la robustezza del dominio regionale statunitense.  Dalla prospettiva di Washington, una bomba iraniana – reale o meno – pone una minaccia esistenziale al mantenimento dello status di superpotenza degli Stati Uniti.

Come prevenire che l’Iran non solo passi al nucleare ma mantenga la minaccia di passare al nucleare, è diventata negli anni recenti l’ossessione della politica estera e militare statunitense. I dirigenti statunitensi hanno preso in considerazione di continuo piani per l’uso della forza militare per paralizzare il programma iraniano mediante attacchi aerei e missilistici a strutture nucleari note o sospette.  I presidenti Bush e Obama hanno entrambi rifiutato di “togliere dal tavolo” tali azioni, come ha chiarito Obama più di recente nel suo Discorso sullo Stato dell’Unione.  (Gli israeliani hanno indicato anch’essi ripetutamente di desiderare di intraprendere una simile azione, possibilmente come uno sprone a Washington per completare il lavoro).

Gli analisti più seri hanno concluso che l’azione militare si dimostrerebbe estremamente rischiosa, causando probabilmente numerose perdite civili e invitando l’Iran a una feroce rappresaglia. Potrebbe non conseguire nemmeno l’obiettivo voluto di fermare il programma nucleare iraniano, la maggior parte del quale è realizzata in strutture sotterranee profonde. Di qui l’opinione generale tra i dirigenti statunitensi ed europei è stata che invece si dovrebbero impiegare  le sanzioni economiche  per costringere gli iraniani al tavolo dei negoziati, dove potrebbero essere indotti ad abbandonare le proprie ambizioni nucleari in cambio di vari benefici economici. Ma l’intensificazione delle sanzioni, che sembra stia causando crescenti sofferenze economiche agli iraniani comuni, è stata descritta dai dirigenti del paese come un “atto di guerra” che giustifica le loro minacce di bloccare lo Stretto di Hormuz.

Ad aggiungere tensioni, i dirigenti di entrambi i paesi sono sotto estrema pressione per contrastare vigorosamente le minacce della parte opposta.  Il presidente Obama, in vista della rielezione, è sotto fieri attacchi, da far persino rizzare i capelli, da parte dei candidati repubblicani che gli contendono la presidenza (eccettuato, ovviamente, Ron Paul) per non aver fermato il programma nucleare iraniano, anche se nessuno di loro ha un piano credibile per farlo.  Egli, dal canto suo, ha assunto una posizione sempre più dura a proposito del problema.  I dirigenti iraniani, per parte loro, sembrano sempre più preoccupati per il deterioramento delle condizioni economiche del loro paese e, senza dubbio temendo una sollevazione popolare nello stile della “Primavera Araba”, si stanno facendo sempre più bellicosi nella loro retorica.

Dunque il petrolio, il prestigio del dominio mondiale, l’urgenza dell’Iran di essere una potenza regionale e fattori politici interni convergono tutti in una miscela esplosiva che rende lo Stretto di Hormuz il posto più pericoloso del pianeta.  Sia per Teheran sia per Washington gli eventi sembrano muoversi inesorabilmente verso una situazione in cui errori e calcoli sbagliati potrebbero divenire inevitabili.  Nessuna delle due parti può mostrare di cedere terreno senza perdere prestigio e forse persino la sua posizione.  In altre parole è ora in corso una verifica esistenziale di volontà a proposito del dominio geopolitico  in una parte critica del globo e su entrambi i lati sembrano esserci sempre meno porte con la scritta “USCITA”.

In conseguenza lo Stretto di Hormuz resterà indubbiamente il piano zero del potenziale conflitto mondiale nei mesi a venire.

Michael T. Klare è professore di studi sulla pace e la sicurezza mondiale all’Hampshire College; scrive regolarmente su TomDispatch ed è autore, più recentemente, di ‘Rising Powers, Shrinking Planet[Poteri che s’ingrossano, pianeta che avvizzisce]. Il suo nuovo libro ‘The Race for What’s Left: The Global Scramble for the World’s Last Resources’ (Metropolitan Books) [La corsa a quel che rimane: la lotta globale per le ultime risorse del mondo] sarà pubblicato in marzo.

Questo articolo è comparso inizialmente su TomDispatch, un blog del Nation Institute, che offre un flusso costante di fonti, notizie e opinioni alternative a cura di Tom Engelhardt, per lungo tempo direttore editoriale e co-fondatore dell’American Empire Project, autore di ‘The End of Victory Culture’ [La fine della cultura della vittoria] e di un romanzo ‘The Last Days of Publishing’ [Gli ultimi giorni di pubblicazione]. Il suo libro più recente è ‘The American Way of War: How Bush’s Wars Became Obama’s (Haymarket Books) [La via statunitense alla guerra: come le guerre di Bush sono diventate di Obama].

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