Domenica
11 Settembre 2011 04:45 Uri Avneri
Il
Manifesto, 4 Settembre 2011
In paranoia - Ecco il terribile settembre che fa
tanta paura agli israeliani, simbolo di un pericolo tremendo, di una minaccia
esistenziale
CANI DI GUERRA - Le manovre di Tel Aviv per l'attesa
proclamazione dello stato palestinese
L'esercito e i coloni alimentano il
timore di una nuova intifada. E distolgono l'attenzione verso gli indignados
Cani
così terrificanti non si vedevano da «Il mastino dei Baskerville». Sono stati
allevati da un ardente ammiratore del defunto «rabbino» Meir Kahane, bollato
come «fascista» dalla Corte suprema israeliana e il loro compito è proteggere
gli insediamenti e attaccare i palestinesi. Sono cani-coloni o, piuttosto,
coloni-cani.
Tutte le nostre televisioni hanno
parlato a lungo di loro, lodandone l'efficacia e l'ardore. Tutto in vista di
«settembre». Settembre non è solo il nome di un mese, il settimo secondo l'antico
calendario romano. È il simbolo di un pericolo tremendo, di una minaccia
esistenziale inenarrabile. Nelle prossime settimane, i palestinesi chiederanno
alle Nazioni Unite di riconoscere lo Stato palestinese e all'Assemblea generale
sono riusciti già a mettere assieme un'ampia maggioranza. Dopodiché, secondo le
previsioni ufficiali del nostro esercito, scoppierà l'inferno: moltitudini di
palestinesi si ribelleranno, attaccheranno il Muro «di separazione»,
prenderanno d'assalto gli insediamenti, si scontreranno con le truppe,
scateneranno il caos. «L'autorità palestinese sta pianificando un bagno di
sangue» ha dichiarato allegramente (il ministro degli esteri israeliano, ndt)
Avigdor Lieberman. E quando Lieberman prevede violenza, sarebbe imprudente ignorarlo.
Da mesi il nostro
esercito si prepara a una simile eventualità. Questa settimana ha annunciato
che sta addestrando anche i coloni. Una conferma di quello che tutti sapevamo
già: non esiste alcuna netta distinzione tra i militari e i coloni, molti settler
sono funzionari dell'esercito e molti funzionari militari vivono negli
insediamenti. «L'esercito difende tutti gli israeliani, ovunque si trovino», è
la linea ufficiale.
Uno degli scenari ai
quali i soldati si stanno preparando - è stato reso noto - è che i palestinesi
possano sparare a militari e coloni «dall'interno di manifestazioni di massa».
Un'affermazione inquietante. Ho partecipato a centinaia di cortei e non ho mai
visto nessuno sparare «dall'interno di una manifestazione». Se una persona facesse
una cosa simile, sarebbe un pazzo irresponsabile, perché esporrebbe a una
rappresaglia letale tutti coloro che gli stanno intorno. Ma in realtà si tratta
solo della ricerca di un comodo pretesto per poter sparare a manifestanti non
violenti. E la dichiarazione suona così minacciosa perché in passato si è già
materializzata. Dopo la prima intifada, considerata un successo palestinese
(perché portò agli Accordi di Oslo), il nostro esercito spianò diligentemente
la strada alla seconda: i cecchini furono lo strumento scelto a tal fine.
La seconda intifada
(«di al-Aqsa») iniziò dopo il fallimento della Conferenza di Camp David del
2000 e la visita, programmata e provocatoria, di Ariel Sharon al Monte del
Tempio. I palestinesi tennero manifestazioni di massa non violente. L'esercito
rispose con omicidi mirati. Un cecchino accompagnato da un funzionario si
posizionava lungo il percorso della protesta e il funzionario indicava gli
obiettivi selezionati, manifestanti che apparivano come «agitatori». E questi venivano
uccisi.
Questa tattica si
rivelò molto efficace: rapidamente le manifestazioni non violente terminarono e
furono seguite da azioni molto violente («terroristiche»). Grazie a queste
ultime l'esercito tornò su un terreno a esso favorevole. In tutto, durante la
seconda intifada, furono uccisi 4564 palestinesi, tra i quali 882 bambini,
contro 1044 israeliani, 716 dei quali civili, tra cui 124 bambini.
Temo che i
preparativi per la terza intifada che - è stato anticipato - scoppierebbe il
mese prossimo, stiano procedendo nella stessa direzione. Ma le circostanze
sarebbero diverse. Dopo ciò che è accaduto in Egitto e Siria, i manifestanti
palestinesi questa volta potrebbero rispondere in maniera diversa, e il «bagno
di sangue» potrebbe essere molto più grave. E così le reazioni arabe e e
internazionali. Già m'immagino i poster che condannano Binyamin al-Assad e
Bashar Netanyahu.
Ma molti israeliani
non sono preoccupati, perché credono che l'intero scenario sia un'invenzione di
Netanyahu, un trucco per porre fine al movimento di protesta sociale che sta
scuotendo Israele. Come ha detto uno dei colonnelli (in pensione): «I giovani
dimostranti chiedono giustizia sociale e welfare, come i bambini pretendono il
gelato mentre il disastro è in agguato dietro l'angolo»
In questo scenario i
settler e i loro cani occupano una posizione di primo piano. Ed è abbastanza
logico, dal momento che i coloni ora giocano un ruolo chiave nel conflitto.
Sono loro che bloccano qualsiasi accordo di pace o qualsiasi negoziato di pace
costruttivo.
È abbastanza semplice: qualsiasi pace tra Israele e il popolo
palestinese dovrà basarsi sulla cessione della Cisgiordania, di Gerusalemme est
e della Striscia di Gaza al futuro Stato di Palestina. Su questo esiste un
consenso a livello mondiale. L'unico problema è dove correrà esattamente il
confine, dal momento che c'è accordo anche sul fatto che dovranno esserci
piccoli scambi di territorio concordati. Ciò significa che la pace richiederà
la rimozione di un gran numero di colonie e l'evacuazione dei settler
attraverso la Cisgiordania.
I coloni e i loro alleati dominano il governo di coalizione
in carica in Israele. Sono contrari a cedere anche un solo pollice quadrato di
territorio occupato del paese che Dio ci ha promesso (anche i coloni che non
credono in Dio, ritengono che Dio ci abbia promesso la terra). È per questo che
non c'è alcun negoziato di pace, nessun congelamento della costruzione degli
insediamenti, nessun passo di qualsivoglia tipo verso la pace.
I coloni furono spediti nei posti in cui
attualmente si trovano in Cisgiordania proprio per questo motivo: creare «una
realtà sul terreno» che avrebbe impedito la nascita di un vero Stato
palestinese.
Quindi è irrilevante se siano i coloni che impediscono la
restituzione dei territori occupati in cambio della pace o il governo che li
usa per questo fine. Il risultato è lo stesso: i coloni bloccano qualsiasi
tentativo di raggiungere la
pace. Come direbbero gli americani: «Sono i coloni, stupido».
Ma alcuni bravi israeliani si stanno muovendo proprio come degli sciocchi, o lo
sono davvero.
In certi circoli è
diventato di moda «abbracciare» i coloni, in nome dell'unità nazionale. Gli
ebrei non devono litigare tra loro - dicono - attingendo all'antica saggezza del
Ghetto. I coloni sono persone come noi.
Tra i sostenitori
più influenti di quest'idea c'è Shelly Yachimovitch, membro della Knesset (il
parlamento israeliano, ndt) e tra i sei candidati alla presidenza
dell'agonizzante partito laburista. Per anni ha svolto un buon lavoro in difesa
della giustizia sociale, senza sprecare mai una parola sulla pace,
l'occupazione militare, gli insediamenti, la Palestina e simili quisquilie. Ora
- come parte della sua campagna - ha scoperto di amare i coloni. Come ha detto lei
stessa: «Certamente non considero l'impresa dei coloni un peccato né un
crimine. A quei tempi, fu assolutamente consensuale. Fu il partito laburista
che promosse gli insediamenti nei territori. Questo è un fatto, un fatto
storico».
Alcuni credono che Yachimovitch
stia solo fingendo di pensarla così, per raccogliere i voti dei moderati per
impadronirsi del partito, e che intenda fondere ciò che resta dei laburisti con
Kadima, da cui proverebbe a cacciare Tzipi Livni, e forse addirittura diventare
primo ministro. Forse. Ma sospetto che creda davvero in ciò che dichiara.
Ma, seriamente, non
esiste un modo per abbracciare i coloni e battersi nello stesso tempo per la
giustizia sociale. Semplicemente non si può fare, anche se, per tattica, alcuni
leader della protesta sociale sostengono il contrario.
Non ci può essere
stato sociale in Israele mentre la guerra continua. Gli incidenti di frontiera
delle ultime due settimane mostrano quanto sia facile distrarre l'opinione
pubblica e mettere a tacere la protesta quando viene sventolata la bandiera
della sicurezza. E quanto sia semplice per il governo prolungare qualsiasi
incidente.
La semina della
paura di «settembre» rappresenta un altro esempio in tal senso. Ma le ragioni
dell'impossibilità di separare la giustizia sociale dalla sicurezza sono più
profonde. Delle vere riforme sociali richiedono soldi, molti soldi. Anche dopo
una riforma del sistema fiscale - una tassazione diretta più «progressiva», una
indiretta meno «regressiva» - e dopo aver spezzato il cartello dei «magnati»,
serviranno ancora decine di miliardi di dollari per salvare le nostre scuole, i
nostri ospedali e i nostri servizi sociali.
Questi miliardi non
possono che arrivare dal bilancio per l'esercito e gli insediamenti. Nelle
colonie sono investite somme immense, non soltanto in edilizia agevolata per i
settler (una percentuale molto più alta rispetto alla popolazione normale) ma
anche per le strade, elettricità, fornitura d'acqua e per la gran quantità di
soldati necessari per difenderle. I preparativi per «settembre» rivelano ancora
una volta i costi di tutto ciò.
Ma anche così la
storia non è ancora completa. Oltre tutti questi fatti, c'è un motivo
principale per la deformazione di Israele: il conflitto stesso.
A causa del
conflitto siamo obbligati a mantenere un enorme apparato militare. Ognuno di
noi paga per le forze armate molto di più dei cittadini di qualsiasi paese
occidentale. Israele, un paese di solo 7,5 milioni di abitanti, mantiene il
quarto o quinto apparato militare del mondo. Gli aiuti militari statunitensi ne
pagano soltanto una piccola parte.
Quindi porre fine al
conflitto rappresenta la necessaria precondizione per ogni serio tentativo di
trasformare Israele in uno stato sociale «scandinavo», caratterizzato dal
massimo di giustizia sociale possibile. Il conflitto non è soltanto un oggetto
tra i tanti che devono essere presi in considerazione. È l'oggetto
principale.
Si possono amare gli
insediamenti o odiarli, contrastarli o sostenerli quanto si vuole. Resta il
fatto che rappresentano l'ostacolo principale verso la pace e lo stato sociale.
A differenza dei
segugi dei Baskerville, i cani degli insediamenti stanno abbaiando forte. È il
suono della guerra.
traduzione di Michelangelo Cocco
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