L'esercito italiano oggi professa una IDEOLOGIA PACIFISTA ma la cosa seria
la dice il generale Mini: prima definivamo un tempo di guerra, oggi viviamo il
tempo della guerra. E come Orwell in 1984 la chiamiamo pace.
Flavio Lotti
dovrebbe "rimproverare" al generale Caporini le donne e i bambini che arrivano
da morti e da feriti nell'ospedale di Emergency. Anzi arrivavano perchè
quell'ospedale di testimoni scomodi è stato fatto chiudere nel modo che
sappiamo...
L'ideologia pacifista però non è ancora stata adottata dalle
potenze leader della coalizazione in Afghanistan che chiamano "guerra"
quell'intervento...
Non accettano la nostra ipocrisia di forza armata
che sta nella retrovia per reggere il sacco ai massacri altrui (sotto
protezione iraniana, finchè dura).
Io non lo vedo Flavio Lotti fare
domande scomode con spirito di verità.
Immagino piuttosto una
riedizione del 1999, quando il Nostro accolse con tutti gli onori D'Alema -
tutti i riflettori mediatici bene accesi - che aveva le mani grondanti di
sangue dei bombardamenti "umanitari" su Belgrado fatti per difendere
(sic) gli albanesi del Kossovo!
Dialogare è importante, va fatto anche
con i militari, ma va fatto - ripeto - su basi di verità. Ed un dialogo
serio è come la carità: essa è autentica quando non si fanno risuonare le
trombe pubblicitarie dinanzi a sè...
Auguri a chi va fare da comparsa
alla sceneggiata mediatica della Perugia-Assisi.
IL
GENERALE E IL PACIFISTA 11/5/10
Il
capo di stato maggiore della Difesa Vincenzo Caporini. alla vigilia
della marcia Perugia-Assisi, incontra oggi pomeriggio il direttivo della
Tavola della pace, l'associazione più nota tra i pacifisti
italiani |
da "Lettera 22" -
Ritanna Armeni, Emanuele Giordana
Martedi' 11 Maggio
2010
Che il generale Vincenzo Camporini, capo di stato maggiore
della Difesa, vada nella sede di Libera, l'associazione contro le mafie di
Don Ciotti, non è cosa che accada tutti i giorni. Ma c’è un’altra più
importante notizia. Ci andrà per incontrare, alla vigilia della marcia
Perugia-Assisi, il direttivo della Tavola della pace, l'associazione più
nota tra i pacifisti italiani, quella che organizza da qualche lustro la
camminata pacifista forse più nota al mondo. Il diavolo e l'acqua santa? Una
provocazione? O semplicemente il segno che i tempi stanno cambiando?
Aver
accettato l'invito dei pacifisti italiani, o almeno di una rappresentativa
parte di quel mondo, indica che qualcosa è cambiato, che due mondi fino a
ieri diversi e antagonisti si annusano e si vogliono conoscere. Quel che ne
verrà fuori – se scontro o dialogo – si vedrà.
L'incontro di lunedì è
solo un segno dei tempi. Se i pacifisti italiani si interrogano sui
militari, è evidente che anche i soldati non sono più quelli di un tempo. Lo
rivela l'inchiesta che inizia con questo articolo.
Tutto è nato da
uno zaino. Lo zaino di un soldato in partenza per l’Afghanistan. Lo aveva
aperto davanti a noi in aeroporto per tirarne fuori guide, romanzi, saggi
sul paese che stava per raggiungere in “missione di pace”. Quello zaino
rompeva uno schema e cancellava uno stereotipo. Chi lo portava non era il
militare rozzo e incolto che avevamo visto in tanti film di guerra, carne da
macello e inconsapevole esecutore di scelte tragiche, inviato in un paese di
cui non conosceva nulla.
E allora sono cominciate le domande . Chi
era allora il soldato che andava in guerra nel mondo globalizzato dove i
conflitti sono asimmetrici e l’esercito in divisa si scontra con nuovi
spesso inafferrabili nemici? Chi era il militare che non deve più difendere
i confini nazionali dall'invasore ma - se mai - deve tutelare interessi
economici planetari o – stando alle parole degli stessi militari - valori
universali, quali pace, convivenza civile, sicurezza globale? E ancora:
quanto è diverso il militare di oggi, che sceglie un lavoro cui accede per
concorso o riceve una paga cospicua se impiegato all’estero, da chi era
costretto alla leva obbligatoria? E – infine - che differenza c’è fra le
battaglie di ieri, che per dirla con Fabio Mini definivano un “tempo di
guerra”, e quelle di oggi che si svolgono “nel tempo della guerra”?
Se si
guarda alle Forze armate italiane le differenze in pochi anni sono diventate
talmente profonde che si parla senza reticenze di una rivoluzione. Lunga,
silenziosa in gran parte sconosciuta, ma imponente. Lo affermano con una
punta di orgoglio generali e soldati. Lo conferma lo stesso Vincenzo
Camporini che, pur avendo le doti del grande comunicatore, certamente non
ama la retorica. E che ammette; “I cambiamenti dall'89 sono stati tanti che
si può parlare di rivoluzione” .
Naturalmente l’affermazione può essere
accolta con diffidenza. Le guerre ci sono e, per quanto un esercito possa
essere cambiato, ci sono le vittime. Spesso innocenti. Tuttavia il
cambiamento, per quanto sicuramente denso di limiti e ambiguità, è evidente.
Quel soldato carico di libri e la testa piena di curiosità, che parte “in
missione di pace” sia pure in una zona di guerra, ha un volto ed un’
ideologia diversa da quella del passato. E allora, con tutta la prudenza e
quella vigile diffidenza che deriva da una cultura antimilitarista e
pacifista così largamente diffusa nel mondo e in Italia, vale la pena di
indagare quel cambiamento. E per non farsi ingannare dalle sensazioni,
cominciare dai dati oggettivi.
Fino al 1989 le Forze armate costituivano
una barriera difensiva nel caso di una invasione dell’Armata rossa. La
guerra, per quanto fredda, richiedeva un esercito e un nemico. Dopo il 1989
il nemico però scompare e la difesa del suolo patrio non può più essere il
collante ideologico delle Forze armate. Era necessario un nuovo ruolo, una
nuova ideologia, comportamenti diversi dal passato. Il cambiamento è stato
per così dire obbligato dal rivolgimento del mondo. L’esercito del passato è
crollato col muro di Berlino.
In secondo luogo dal 2004 è cambiato
l’arruolamento. Non più di leva obbligatoria, tributo che ogni giovane –
maschio – doveva pagare. La scelta del servizio militare è diventata
volontaria. Chi la compie soprattutto al sud è spinto dalla disoccupazione.
Ma alla ricerca del lavoro si aggiunge quella del ruolo: il desiderio di
trovare senso e ordine alla propria esistenza. “I giovani – affermano i
comandanti - vengono da noi spesso perché non hanno altre possibilità, ma ci
restano perché trovano un luogo nel quale coltivano interessi e
ideali”.
Il terzo cambiamento strutturale è il livello culturale di chi
sceglie di lavorare nelle Forze armate. I soldati, laureati o diplomati,
conoscono le lingue, hanno interessi e spirito critico. Vengono addestrati,
ma non solo, all’uso delle armi. Li affiancano psicologi e insegnanti di
lingue. Una leva di giovani molto diversi da quelli che, secondo Angelo Del
Boca, durante la guerra di Libia “ vedevano gli avversari come
bestie”.
Ma la vera novità è costituita da un collante ideologico
che permea la vita nell’esercito. Paradosso dei paradossi il collante
ideologico è oggi la pace Il militare italiano si vive e si concepisce come
soldato di pace. Questa è la sua missione, il motivo per cui, carico di
libri, va in Libano, in Afghanistan, Kossovo. Conquistare la pace,
preservarla conservarla, difenderla: è da questa convinzione, non sappiamo
quanto profonda o imposta, sicuramente proclamata, che discendono
comportamenti e approccio sul terreno. Da questa convinzione nasce la
cosiddetta “diversità italiana” e il nocciolo duro di quella che è chiamata
“rivoluzione”. E’ in effetti che cosa ci può essere di più rivoluzionario
rispetto ai millenni passati di un soldato che non ha nemici e dice di
lottare per la pace?
anche su Il
Riformista