Sulla cisgiordania



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07/04/2010
 
Chi non muore di fame muore di terrore
 di
Caterina Donattini
 
 
 
L'esercito israeliano uccide due ragazzi palestinesi nel villaggio di
Awarta. Li hanno spacciati per terroristi, raccoglievano metallo per vivere
 
Awarta è un piccolo villaggio di contadini sulle pendici di antiche colline,
incorniciato da ulivi che non hanno la voce per raccontare le storie di
queste valli in Cisgiordania, a otto chilometri da Nablus. Awarta è il
villaggio natale di due ragazzi, Mohammad e Salah Qawariq, entrambi 19enni.
 
Mohammed e Salah erano cugini, cresciuti insieme tra questi campi, uccisi
insieme a sangue freddo sulla terra rossa, su cui il loro sangue si è
sparso, la mattina del 21 marzo 2010. E la macchia rimane. La prima versione
fornita dalla stampa israeliana parlava di ragazzi travestiti da contadini
che brandivano forconi e bottiglie rotte contro i soldati in modo
minaccioso, come riportato dal sito Ynet News lo stesso 21 marzo scorso. Il
giorno dopo, però, lo stesso giornale doveva ammettere : "E' stata aperta
un'indagine militare sull'incidente dei forconi vicino a Nablus. Ricerche
circa gli eventi di sabato rivelano discrepanze nei rapporti militari.
Solamente a 24 ore dall'incidente di Awarta è già chiaro che la dinamica dei
fatti non pare lineare come descritto dai soldati".
Sono stata ad Awarta
sabato scorso. Siamo in piena West Bank: il villaggio sorge sulle pendici di
una dolce collina e rimane chiuso tra da due insediamenti -Itamar e Gideon-,
un grosso check point che chiude la strada principale, e una base militare.
Osservando dal promontorio dove sorge il cimitero si vedono i due grandi
insediamenti israeliani sovrastare quelle terre che appartenevano fino agli
anni Sessanta interamente ai contadini palestinesi e sono oggi confiscate al
60 percento: in parte perché occupate dalle due colonie israeliane, in parte
perché i coloni e l'esercito ne impediscono l'accesso agli abitanti.
Il capo del consiglio comunale di Awarta mi spiega che oggi i contadini
devono richiedere un permesso speciale alle autorità israeliane in modo da
poter coltivare i propri campi o raccoglierne i frutti. Quel permesso
Mohammed e Salah lo avevano ottenuto e per questo quella mattina si erano
recati di buon mattino a raccogliere le olive dei propri alberi, muniti di
due piccole bottiglie di plastica che contenevano l'acqua per la giornata.
Avevano inoltre approfittato per raccogliere alcuni pezzi d'acciaio e di
ferro nelle terre adiacenti, un tempo usate come discarica dal paese. Molti
ragazzini si occupano della raccolta dei metalli abbandonati e da essi
ricavano pochi spiccioli con cui sostenere le spese di famiglie ridotte alla
fame per via di un tasso di disoccupazione che è al 70 percento. In
particolare dagli anni Ottanta in poi, quando l'insediamento di Itamar fu
costruito, gli spostamenti dei contadini divennero molto difficili e
ostacolati da diversi attacchi dei coloni e dalla presenza costante dei
militari israeliani. Da allora molte famiglie persero la propria principale
fonte di sostentamento e vivono strangolati in un villaggio che non da vie
d'uscita. Sulle pendici delle colline alcuni ragazzini vagano tra la
spazzatura, cercando pezzi di metallo: un'immagine assurda, se si pensa che
queste sono terre fertili di coltivazioni il cui accesso viene negato ai
proprietari.
Il padre di Mohammed ci ha accolti distrutto dal dolore nella propria casa
spoglia di ogni ricchezza. Quasi cieco, il volto deformato, i piedi portano
i segni della mina che l'ha colpito quando aveva 13 anni. Attorno a lui la
sua famiglia, che racconta degli attacchi dei coloni, che almeno una volta
al mese invadono il villaggio per visitare un luogo nel centro del villaggio
che loro ritengono sacro. In quell'occasione arriva l'esercito e dichiara il
coprifuoco. Dopo due ore arrivano i coloni, invadono la cittadina e
distruggono le tombe del cimitero, adiacenti al luogo sacro, sparano contro
la scuola vicina al sito, che oggi è stata spostata per motivi di sicurezza.
Un altro parente, Mohammad Abed Ar-Rahman Qawariq, è stato ucciso. Il 22
ottobre 2009, mentre tornava dai propri campi, la sua gip venne spinta in un
dirupo da un gruppo di militari israeliani. Sulla sua morte sono ancora in
corso indagini. Raccontano di Mohammed e Salah, della loro povertà, entrambi
figli di disoccupati. Ci raccontano della macchia di sangue sulla terra, che
loro hanno visto, e delle due bottiglie di plastica ritrovate appoggiate al
tronco di un ulivo, insieme ad un mucchio di pezzi di ferro. I loro corpi
sono stati colpiti diverse volte: i militari hanno continuato a sparare
anche dopo averli uccisi. Sono state trovate almeno venti pallottole sul
luogo dell'omicidio. Secondo la famiglia i medici dell'ospedale di Nablus
hanno certificato che gli hanno sparato dall'alto in basso, a neanche un
metro di distanza. Raccontano degli sforzi di Mohammed e Salah per studiare
all'università di Nablus e allo stesso tempo lavorare nei campi, raccogliere
metalli nelle discariche. La madre di Mohammed ci accoglie in un'altra
stanza. Dimentico le mie domande, lei scoppia in lacrime e mi mostra i
pantaloni nuovi che gli aveva comprato il giorno prima della morte, un paio
di jeans neri: disperata vi affonda il volto. Il figlio più piccolo la ferma
e lei si lancia contro l'armadio e scaraventa fuori due libri di letteratura
araba, ancora nuovi, intonsi, li apre e piange:  "Vedi, non è nemmeno
riuscito a studiarli!".