Roma 29 novembre 2008, una grande
chiave capeggia il corteo, sorretta da donne e uomini. Tante chiavi
scosse all'unisono anticipano il suono della pioggia che di lì a poco
cadeva. La gente che è in piazza in solidarietà con il popolo
palestinese, cammina lenta e rumorosa. Migliaia di bandiere, una
immensa, sorretta da decine di persone attorno alla quale non si smette
di ballare guidati da una musica ridondante e bellissima. Tante sigle,
tanti striscioni, cartelli. Il solito corteo, o forse no, con qualche
grigio slogan aggressivo, con tante facce, molto spesso le stesse, ma
con molte che non si conoscono. Questo è il primo risultato di una
manifestazione che riesce a mettere, per una volta, da parte le
divergenze politiche e a chiamare insieme realtà che lavorano sulla
Palestina con approcci, storie e analisi diverse. Una manifestazione
difficile da organizzare perché difficile è il tema. Un tema che non
porta in piazza folle oceaniche, né è coperto dai media tradizionali.
Migliaia di macchine fotografiche e centinaia di videocamere immerse
nella folla a raccontarsi la notizia, come ormai sempre più spesso
accade. Quasi una garanzia di legittimità e di visibilità: non si va in
onda, né sulle prime pagine dei giornali. Ci si va solo se succede
qualcosa di brutto, se ci sono scontri, feriti, bandiere israeliane
bruciate: Bad news are good news. E allora ci si organizza per
raccontare. "Purtroppo" alla manifestazione non accade niente che possa
fare brutta, e quindi buona, notizia. L'unica che appare sui giornali è
che un gruppo di membri della comunità ebraica romana - presente in
piazza Venezia per ascoltare e monitorare gli interventi dal palco
allestito per l'occasione - denuncia alcuni cori "ignobili e parole
vergognose" contro Israele partiti dal corteo. Il resto è nulla. Sui
media si tace dei motivi, sugli altri linguaggi e sulle rivendicazioni
della manifestazione, ma è prassi.
Tante chiavi fra le mani della gente e una chiave immensa simbolo del
ritorno, della memoria e dell'appartenenza ad una storia scritta male.
Scritta omettendo una parte di verità. Scritta a metà. Una storia
mutilata. Una storia che nasce nella legittimità (la nascita dello
Stato d'Israele) per presentarsi oggi, dopo sessanta anni come un
racconto assurdo, carico di negazione e violenza: l'occupazione
militare, il muro, la proliferazione delle colonie, i morti,
l'espropriazione delle terre palestinesi, l'embargo economico e
politico di Gaza, i bombardamenti e le incursioni dell'esercito
israeliano, i missili su Israele, gli attacchi suicidi. 1948: la gioia
per una nascita è per altri l'inizio di una tragedia: la Nakba, la
catastrofe del popolo palestinese. Espulso dalla propria terra, più di
530 villaggi evacuati e distrutti. Altrove, lontano dalle proprie case,
vivendo nei campi profughi. Alcuni fuggono nei paesi limitrofi intorno
alla Palestina, altri all'interno della Palestina stessa. Altri ancora
si disperdono nel mondo. Oggi i rifugiati palestinesi, stando ai dati
del UNWRA (United Nations Relief and Works Agency for Palestinian
Refugees in the Near East), sono circa cinque milioni.
Il 29 novembre non è una data a caso, ma scelta per il significato
simbolico che ha per il popolo palestinese. Quello stesso giorno del
1947 l'Assemblea delle Nazioni Unite adotta la risoluzione 181 (II),
nota come Risoluzione sulla Partizione che stabilisce la creazione in
Palestina di uno Stato "Ebraico" e uno "Arabo" con Gerusalemme come
cuore simbolico e politico, sottoposta ad un regime internazionale
speciale. Dei due, solo Israele vede la luce. Sotto il cielo plumbeo di
Roma, fra migliaia di teste, girando tra la folla si sente la voce
della gente, le opinioni, i cori e lì la questione politica rientra
prepotentemente dalla finestra. I manifestanti si spostano lungo il
corteo a seconda della propria piattaforma. Si cerca un parcheggio
"rappresentativo", così come in ogni manifestazione che sia sul
precariato, sull'Alitalia o sulla Palestina. "Vita terra e libertà per
il popolo palestinese", queste le parole sullo striscione portato dalle
comunità palestinesi in Italia. In via Cavour al passaggio del corteo
viene calato il grande telo firmato Sport Sotto l'Assedio. Dall'inizio
alla fine della manifestazione si raccolgono foto per la campagna "Uno
Scatto Contro l'Assedio". Piazza dell'Esquilino diventa per un giorno
piazza Yasser Arafat. Manifestazioni di solidarietà arrivano dal
presidente dei Partigiani del Lazio Rendina. Comitati, organizzazioni
di base, centri sociali, associazioni, ong si ritrovano insieme in
piazza per ascoltare gli interventi degli organizzatori e soprattutto
dei due giovani palestinesi provenienti da realtà significative come
Gaza e Chatila.
Ma 5000 persone sono tante o poche? Tante, se si considera l'omissis
della politica italiana, di buona parte della sinistra e dell'assoluta
negazione della questione palestinese del Partito Democratico come tema
fondamentale in politica estera. Tante, se si considera il silenzio
della comunità internazionale sulla "normalizzazione" dell'occupazione
israeliana e sull'occultamento del diritto del popolo palestinese ad
avere uno Stato. Esiste un involucro fatto di ipocrisia democratica che
distingue nei media e nei programmi politici dell'occidente pacificato
violenze e occupazioni "giuste" o "sopportabili" e altre da annientare
in nome della pace e della democrazia. Sotto le chiavi che cadono dal
cielo si è tornati a casa.