di Antonio Mazzeo
I vertici dell’Unione Europea, bypassando il Parlamento, varano una
flotta aeronavale per la lotta alla pirateria nelle acque somale. Da
dicembre si affiancherà alla forza navale della Nato che opera da
giorni nel Corno d’Africa. Dietro il paravento dell’“aiuto umanitario”,
Stati Uniti e partner occidentali sono pronti ad intervenire
direttamente nel conflitto che ha dilaniato la Somalia.
L’Unione Europea è pronta ad inviare in Somalia una forza aeronavale
per combattere la “pirateria”. Lo ha dichiarato all’agenzia Reuters
l’Alto rappresentante Ue per la Politica estera e la Sicurezza comune,
Javier Solana, già segretario generale della Nato dal 1995 al 1999. La
task force sarà attivata entro il mese di dicembre sotto il comando del
vice-ammiraglio della marina britannica, Philip Jones. Il quartier
generale della forza militare dell’Unione sarà a Londra; all’operazione
parteciperanno unità navali e reparti aerei di Belgio, Cipro, Francia,
Germania, Gran Bretagna, Lituania, Olanda e Svezia. Secondo quanto
riferito dal ministro della difesa tedesco, Franz Josef Jung, saranno
attivati tre fregate, una nave appoggio e tre pattugliatori, che
opereranno con ignote regole d’ingaggio in un’area compresa tra il
Canale di Suez e le coste della Somalia e dello Yemen.
“Sono certo che questa forza navale darà un contributo importante al
World Food Program delle Nazioni Unite, nella protezione delle navi che
transitano a largo della Somalia, e alla lotta contro la pirateria”, ha
dichiarato Javier Solana. “La pirateria si è insediata nelle coste
della Somalia; quest’anno sono state assaltate una trentina di navi e
sono stati causati danni economici per 18-30 milioni di dollari. Ciò ha
trasformato l’area nella più pericolosa via marittima del mondo”.
Ma per gli aiuti c’è gia la flotta Nato sotto comando italiano
La decisione di trasferire nel Corno d’Africa una propria forza
militare (la prima nella storia dell’Unione), è stata presa
dell’esecutivo Ue senza investire il Parlamento di Strasburgo e senza
un confronto politico tra i paesi membri sugli obiettivi e le modalità
dell’intervento armato. Di certo, sono stati i ministri esteri di
Francia e Spagna, nel giugno 2008, a presentare la proposta di una
forza navale europea, mentre la formalizzazione della costituzione è
giunta contemporaneamente al varo dello “Standing Naval Maritime Group
2” (SNMG2), il gruppo navale Nato che il 15 ottobre si è installato
nelle coste somale. Sotto comando della Marina italiana, l’SNMG2 è
composto da sette unità militari di Germania, Gran Bretagna, Grecia,
Italia, Turchia e Stati Uniti; anche ad esso sono demandate non meglio
specificate “operazioni anti-pirateria” e la “protezione” delle navi
del World Food Program (WFP) che trasportano il cibo
destinato alle popolazioni vittime del conflitto.
Nonostante la missione Nato in Corno d’Africa estenda a dismisura e
pericolosamente il raggio d’azione e le finalità operative
dell’alleanza (proprio come nel caso dell’istituzione “cugina”), non si
può proprio dire che essa sia stata al centro di approfondite analisi
tra gli strateghi di Bruxelles. L’invio dello “Standing Naval Marittime
Group” è stato discusso solo durante il vertice dei ministri della
difesa Nato di Budapest, l’11 ottobre 2008. In realtà i partecipanti si
sono limitati a ratificare l’impegno che il generale Jaap de Hoop
Scheffer (segretario della Nato), aveva assunto con il segretario
generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon, nel corso di un incontro a
New York, il 25 settembre 2008. All’ordine del giorno l’estensione e il
rafforzamento del mandato della missione ISAF in Afghanistan e la
“cooperazione Onu-Nato” in Kosovo, così al tema delle scorte militari
Nato agli aiuti alla Somalia fu riservata
solo una manciata di minuti a margine dell’incontro.
La richiesta di Ban Ki-Moon è stata comunque colta al volo non fosse
altro perché permetteva di legittimare in ambito Onu i programmi di
penetrazione e controllo militare del continente africano, nel nome
della “lotta al terrorismo internazionale”. Così, con un tempismo senza
precedenti, il 7 ottobre, su richiesta della Francia e di altri 19
paesi (tra cui Italia e Stati Uniti), il Consiglio di Sicurezza ha
adottato la risoluzione n. 1838 sulla “pirateria marittima”,
autorizzando la comunità internazionale all’uso della forza, anche in
acque territoriali, per contrastare “la crescente pirateria al largo
delle coste della Somalia che colpisce la navigazione commerciale, le
navi da diporto e i pescherecci”.
Miti e minacce dei pirati nel XXI secolo
Sulle cause e le dimensioni del fenomeno della “pirateria marittima”,
le ricerche e le analisi di valore scientifico sono veramente poche.
Gli unici indicatori quantitativi sono quelli forniti
dall’International Maritime Bureau: nei primi nove mesi del 2008,
sarebbero stati 32 gli attacchi a navi straniere effettuati da “pirati”
di nazionalità somala nelle acque dell’Oceano Indiano e del Golfo di
Aden. Un numero non impressionante, considerato che sono centinaia e
centinaia le navi che attraversano quotidianamente le vie marittime
prospicienti le coste somale. Qualche perplessità desta poi
l’affermazione di fonte Onu-Nato-Ue che ci si trovi di fronte ad una
insostenibile “impennata” nel numero degli assalti: secondo la Camera
Internazione per il Commercio di Londra, gli incidenti registrati in
quest’area nel 2005 furono in tutto 35. E davanti alla Somalia, nella
speciale classifica dei paesi sottoposti alla minaccia della pirateria,
c’è l’Indonesia, arcipelago d’isole che sino ad oggi nessuno ha pensato
di “difendere” con l’invio di portaerei, sottomarini, fregate e
lanciamissili.
Le cifre non spiegano comunque le ragioni politiche, sociali ed
economiche che starebbero alla base del “crescente” fenomeno della
pirateria in Somalia, paese in cui l’assenza di controllo statuale è in
buona parte imputabile alle scellerate scelte di Washington e dei suoi
alleati europei ed africani. In un lucido e provocatorio articolo sul
settimanale “The East African” di Nairobi (12 ottobre 2008), il noto
analista ugandese Charles Onyango-Obbo scrive che “senza un’economia
funzionante e con una quantità infinita di persone impossibilitate a
trovare lavoro, la pirateria diventa l’unica fonte di sopravvivenza per
alcuni somali”.
“La soluzione alla pirateria in Somalia – aggiunge Onyango-Obbo – non
s’incontra in alto mare. Essa sta all’interno del paese. (…) La
presenza delle forze etiopi in Somalia ha fatto crescere il
risentimento nazionalista e così si sviluppa l’estremismo e la
continuazione del conflitto. Se gli etiopi se ne andranno, il governo
di transizione collasserà e gli islamisti ritorneranno al potere. Essi
sono l’unica forza in grado di gestire il ritorno dell’ordine in
Somalia e possono soffocare la pirateria. Per gli interessi dei paesi
dell’Africa orientale c’è una sola possibile soluzione: che i mullah
ritornino a Mogadiscio”. Proprio ciò che Stati Uniti e partner Ue e
Nato non vogliono, il ritorno delle Corti islamiche, a costo di
minacciare un terzo fronte di guerra (dopo Afghanistan ed Iraq) in
Corno d’Africa. Il “Rapporto sullo stato del terrorismo”, presentato
nell’aprile 2008 dal Dipartimento di Stato, ha enfatizzato che
“le più serie minacce agli interessi statunitensi sono rappresentate
dalle operazioni di al Qaeda in Somalia”, prefigurando un’estensione
delle “guerre preventive” al continente africano.
Unione Europea ed Alleanza Atlantica sulla scia delle portaerei Usa
Se quattordici navi da guerra Ue e Nato (a cui va aggiunto l’enorme
potenziale bellico rappresentato dalla 5^ e dalla 6^ flotta Usa attive
tra il Mediterraneo e l’Oceano Indiano), non giustificano la
protezione di circa 35.000 tonnellate di aiuti alimentari che il WFP
invia mensilmente in Somalia, flotte con due (o tre) differenti
bandiere, aldilà della dubbia legittimità delle operazioni
“anti-pirateria”, causeranno una duplicazione degli sforzi e lo spreco
di ingenti risorse finanziarie. Gli alti comandi dell’Alleanza
Atlantica ci hanno tenuto a precisare che “la Nato si coordinerà
strettamente con l’Unione Europea e le operazioni navali
anti-terrorismo dirette dagli Stati Uniti”, ma tutto sembra indicare
che ai vertici della catena di comando dell’intervento internazionale
in Somalia ci sarà il Pentagono, magari attraverso il nuovo comando
Africom insediato l’1 ottobre a Stoccarda.
La risoluzione anti-pirateria del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni
Unite e l’attivazione delle flotte Nato ed Ue sono infatti successive
alla richiesta degli Stati Uniti di “condividere la lotta al
terrorismo” in Africa. Mentre poi il cosiddetto “contrasto militare
della pirateria” è da anni al centro dell’attenzione degli strateghi di
Washington, all’appuntamento nei mari somali Ue e Nato arrivano senza
alcun dibattito interno. La Marina militare Usa avviò le attività di
addestramento “anti-pirateria” nell’ottobre 2004, anno in cui gli
attacchi registrati in Somalia furono solo due. L’ottobre 2005, il
“Maritime Liaison Office” dell’Us Navy, con base in Bahrain, attivava
un servizio definito in codice “MARLO”, per monitorare le “attività
sospette in mare particolarmente nel Golfo Persico e ad est delle coste
della Somalia”.
La prima vera operazione contro i pirati fu realizzata il 21 gennaio
2006 dal cacciatorpediniere “Uss Winstor Churchill”: fu liberata una
nave mercantile sequestrata da dieci cittadini somali che furono poi
consegnati alle autorità keniane per essere giudicati da un tribunale
di Mombasa. Il successivo 18 marzo, un incrociatore e una fregata
statunitensi ingaggiarono nel Corno d’Africa un vero e proprio
combattimento contro una piccola imbarcazione “pirata”, colpendo a
morte una delle persone che si trovavano a bordo. Meno di un mese dopo,
due unità navali di Usa e Olanda, appartenenti ad una flotta
multinazionale inviata nel Golfo Persico in appoggio alle operazioni in
Iraq, venivano dirottate verso la Somalia nel tentativo, infruttuoso,
di liberare un peschereccio sud-coreano sequestrato a 60 miglia dalla
costa.
Le cronache dei due anni successivi registrano interventi anti-pirati
poco significativi. Ciononostante, nel maggio 2008, alla vigilia cioè
dell’escalation militare in Corno d’Africa, il portavoce della 5^
Flotta degli Stati Uniti con base in Bahrein, Stephanie Murdock,
annunciava la “destinazione di numerose risorse della Marina Usa per
combattere la pirateria, un problema che si sta attenzionando
seriamente. Ufficiali e marinai si stanno addestrando duramente per
queste missioni. La pirateria non è solo una questione che riguarda la
Marina, o gli Stati Uniti d’America; essa richiede il coinvolgimento
internazionale di molte agenzie e governi”. Washington, intanto,
attraverso il Comando per le operazioni in Africa (Africom), decideva
il trasferimento nelle acque del continente delle unità della Coast
Guard, in funzione anti-pirateria e di “difesa” delle zone di pesca.
A seguito del sequestro del cargo ucraino “Faina” con a bordo una
trentina di carri armati e munizioni destinati al conflitto in Darfur,
la Marina Usa ha posizionato nel Corno d’Africa l’incrociatore “Howard”
ed altre due unità militari minori. Ma a largo delle coste somale,
oltre alle navi statunitensi e a quelle dello “Standing Naval Maritime
Group 2” Nato, sono pure presenti una fregata lanciamissili russa e una
nave portaelicotteri indiana. Quando a dicembre arriverà in Somalia la
flotta dell’Unione europea, la stretta militare sarà realmente
imponente.
La catastrofe somala di Onu ed Unione africana
Pur di partecipare in posizione subalterna alle avventure africane
dell’amministrazione Bush, l’Unione Eeuropea e la Nato rischiano di
precipitare nell’inferno somalo senza che a medio termine s’intravedano
vie d’uscite dal conflitto. Gli ultimi mesi hanno segnato una rapida
escalation dei combattimenti, con centinaia di morti tra la popolazione
civile di Mogadiscio. I miliziani dello Shabaab (l’ala più radicale del
movimento fedele alle Corte Islamiche cacciate dalla capitale con i
bombardamenti di Stati Uniti ed Etiopia del gennaio 2007), avrebbero
già conquistato alcune città meridionali. Secondo Peacereporter,
dall’inizio dell’anno le vittime sarebbero già 1.238, mentre gli
sfollati sarebbero più di un milione. Sempre più somali tentano intanto
di abbandonare il paese via mare affidandosi ad imbarcazioni di fortuna
o ad organizzazioni criminali. Secondo una stima diffusa da un gruppo
di ricerca che fa capo all’Alto
commissariato dell’Onu per i rifugiati (Acnur) e all’Organizzazione
internazionale per le migrazioni (Oim), nei primi nove mesi del 2008,
almeno 33.600 persone (per due terzi somali, il resto etiopici
costretti a fuggire dalla siccità che ha colpito la regione) hanno
raggiunto le coste dello Yemen, con un picco di 8.500 arrivi solo a
settembre. Sempre secondo il rapporto Acnur-Oim, almeno 230 persone
sono morte durante la traversata del golfo di Aden, mentre 365
risultano disperse. Un flusso migratorio senza precedenti, che
certamente preoccupa Stati Uniti-Nato-Unione Europea - perlomeno quanto
la sedicente “pirateria” - la cui “regolazione” è forse una delle
ragioni per spiegare l’iperattivismo militare in Corno d’Africa.
A rendere ancora più complessa e delicata l’odierna fase del conflitto
c’è poi l’attiva partecipazione agli scontri dei militari etiopi
presenti in Somalia nel quadro della missione dell’Unione Africana,
Amisom (oltre 3.400 militari di Burundi, Etiopia ed Uganda).
Un’operazione di “peacekeeping” assai controversa, avviata formalmente
su mandato del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ma che in
realtà è sotto il coordinamento della “Joint Task Force JTF-Horn of
Africa” delle forze armate statunitensi, con base a Camp Lemonier,
Djibouti. Ad Amisom non è mancato pure il contributo diretto della
Nato: aerei da trasporto dell’alleanza hanno assicurato il
trasferimento in Somalia di reparti e mezzi dei paesi africani
partecipanti (gli ultimi due aerei cargo sono atterrati l’11 ottobre
scorso a Mogadiscio rinforzando la “peacekeeping force” con 400
militari del Burundi).
Operatori umanitari nel mirino dei signori della guerra
Non essendo più possibile distinguere tra occupanti etiopi,
“peacekeepers” dell’Unione Africana e comandi o mezzi Usa-Nato, Amisom
si è trasformata in uno degli obiettivi privilegiati dell’offensiva
insorgente. Non è un caso che nei giorni scorsi i combattimenti abbiano
interessato le aree circostanti l’aeroporto di Mogadiscio, dove la
missione africana ha la sua sede. A ciò si aggiungono i sempre più
numerosi attentati con bombe ed esplosivo ai danni dei velivoli o di
singole unità della forza Ua. Le stesse milizie dello Shabaab, secondo
fonti occidentali, avrebbero minacciato di estendere le operazioni
militari al vicino Kenya, nel caso in cui venisse confermata
l’intenzione del governo di Nairobi di addestrare 10.000 uomini
dell’esercito somalo.
Ciò che oggi accade, dovrebbe fornire più di un motivo di riflessione
alle agenzie delle Nazioni Unite. L’intervento umanitario e di
“imposizione” della pace, sotto la direzione di eserciti e flotte
navali, sono stati del tutto fallimentari, ma soprattutto hanno
prodotto gravissime perdite di vite umane tra gli organismi governativi
e le ONG che operano a fianco delle popolazioni somale. Secondo fonti
Onu, quest’anno 14 operatori umanitari sono già stati assassinati nel
paese africano. L’ultimo omicidio è avvenuto poco meno di una settimana
fa nella città meridionale di Hudur, provincia di Bakool, e ha avuto
come vittima Muqtar Mohammed Hassan, responsabile del programma idrico
e sanitario del Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia (Unicef). Un
funzionario del World Food Program, Abdinasir Aden Muse, era stato
colpito a morte un paio di giorni prima nella città di Merca,
all’uscita di una moschea.
C’è da chiedersi se in tema di interventi in aree di conflitto e
militarizzazione degli aiuti, il neocoordinatore Onu-Unione Africana
per lo sviluppo e le iniziative di pace del continente africano, Romano
Prodi, vorrà o potrà fare un’inversione di rotta. I segnali, purtroppo,
vanno in senso contrario. L’Unione Africana ha deciso d’istituire una
forza multinazionale d’intervento rapido nelle zone di guerra,
l’African Standby Force, con 5 brigate, affidandone l’addestramento
alle forze Usa di Camp Lemonier e del Comando Africom di Stoccarda.