Il disastro nella mente dei reduci di Nassiriya



Il problema dei gravi disturbi post-traumatici nei reduci dalle guerre in Iraq e in Afghanistan non è stato certo rimosso negli Stati Uniti. Di certo a livello ufficiale è stato affogato dalla retorica della "assistenza ai nostri ragazzi al ritorno" ma il problema, che causa migliaia di invalidi e centinaia di suicidi l'anno, non è stato nè rimosso nè mimizzato. Trasmissioni sulle principali catene televisive americane, dibattiti scientifici e classificazioni di malattie mentali come il PTSD "post-traumatic stress disorder" che servono per il riconoscimento dell'invalidità. Hollywood ha sceneggiato diversi film su questi fenomeni, il più recente "Nella valle di Elah" termina con il rovesciamento della bandiera a stelle e strisce sul pennone simbolo della resa, mentale prima ancora che militare, della superpotenza americana agli effetti collaterali della guerra.
In Italia i reduci dalle missioni in Iraq e in Afghanistan non possono avere un riconoscimento pubblico simile ai loro commilitoni americani. Il motivo è semplice: ufficialmente sono in missione di pace quindi ammettere pubblicamente l'esistenza di casi di post-traumatic stress disorder implica l'ammissione del fatto che i militari italiani si trovano in teatro di guerra, il tipico scenario che produce questo genere di ferite della mente.
La Repubblica nell'articolo "La guerra di Piero non è finita" (domenica 2 marzo 2008 pg.32) è andata ad intervistare un carabiniere reduce dall'Iraq che testimonia di essere affetto da PTSD assieme ad altri colleghi che hanno fatto la stessa esperienza di Nassirya.
Il brigadiere in congedo, per PTSD, Pietro Follesa racconta: "Mi sveglio di notte con uno scatto improvviso, colpisco chi sta al mio fianco, mi metto a correre nel buio della stanza e grido chiamando i miei compagni di Nassirya. Per questo da tre anni non dormo più nella stanza con mia moglie".
Giova dire che il brigadiere Follesa è sotto cura da una psicoterapeuta per sua iniziativa, non è stato seguito in questo percorso di cura nè dall'esercito nè dall'arma dei carabinieri, corpo a cui appartiene e dal quale si è posto volontariamente in congedo.
I casi come quello di Follesa sono invece seguiti dall'Osservatorio militare di Firenze una associazione non profit che era stata inizialmente fondata per seguire i casi di malattie di servizio da uranio impoverito. Per i militari affetti da PTSD recita l'articolo di Repubblica, pur schierato a favore delle missioni, dopo il congedo c'è un solo destino "uomini come Pietro Follesa..per l'Arma sono diventati dei fantasmi".
Insomma lo stato italiano che ufficialmente è in paesi lontani per "esportare" la democrazia e "ricostruire" la società civile in realtà non riesce nemmeno ad assistere i propri soldati per ricostruire la propria mente.
Resta una domanda. I reduci da una teatro operativo come l'Afghanistan non li intervista nessuno?
Con una televisione rigidamente circoscritta ad occuparsi dei fatti di cronaca nera, una sanità pubblica lontana dal far emergere di questi temi, un cinena italiano interessato al colore della panchina di Nanni Moretti, ci vorranno anni per tracciare un bilancio realistico dei veri disastri delle "missioni" italiane all'estero. E nel frattempo nessuno ha mai pubblicato un bilancio esaustivo dei danni provocati dai bombardamenti degli italiani nella guerra contro la Jugoslavia del '99 e di quelli causati agli stessi soldati italiani con l'uranio impoverito. Che dire? Avanti con la prossima avventura bellica e speriamo che interessi a Forum della Dalla Chiesa su Canale 5 tanto per riempire qualche spazio pubblicitario.

per Senza Soste, Nique la police

3 marzo 2008

http://www.senzasoste.it/content/view/3669/70/