Articolo di Wittner su movimento pace in Usa come può vincere
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- Date: Thu, 28 Jun 2007 10:05:54 +0200
LAWRENCE S. WITTNER COME IL MOVIMENTO PER LA PACE (in Usa) PUÒ CONSEGUIRE LA VITTORIA Il movimento per la pace costituisce una parte importante della vita americana. In modo del tutto analogo al movimento operaio, a quello per la giustizia razziale e al movimento femminista, il movimento per la pace è costituito da un gran numero di organizzazioni e da milioni di sostenitori. Esso conserva una visibile presenza pubblica attraverso incontri, manifestazioni, veglie, volantini, lettere al direttore, annunci sui giornali, opere d’arte ed esecuzioni musicali, pressioni in alto loco, e azioni occasionali di disubbidienza civile. Inoltre esso ispira la solidarietà e l’appoggio di personalità culturali di primo piano, di intellettuali e di uomini politici. E molti dei suoi scopi fondamentali, come, ad esempio, porre fine alla guerra in Iraq, promuovere la collaborazione internazionale e assicurare il disarmo nucleare, hanno un vasto sostegno popolare. Perché, allora, il movimento per la pace non riesce ad imporsi? La popolazione degli Stati Uniti ha inflitto, nelle elezioni di mezzo termine del novembre 2006, un severo rovescio all’irresponsabile avventura militare in Iraq dell’amministrazione Bush. Eppure essa continua a intensificare la guerra e il Congresso democratico si dimostra riluttante a staccare la spina al suo sovvenzionamento. Questo persistente militarismo non è semplicemente un riflesso dell’esigenza di “sostenere le truppe”, qualunque cosa ciò possa significare. Le spese militari degli Stati Uniti continuano a crescere, il Pentagono appresta forze militari statunitensi per nuove guerre (come quella all’Iran), e il governo degli Stati Uniti continua a mantenere in condizioni di efficienza circa 10.000 armi nucleari, alcune migliaia delle quali sono tuttora pronte a un uso immediato. Accordi fondamentali per il controllo degli armamenti e per il disarmo – come il Trattato ABM e il Trattato per la messa al bando totale degli esperimenti nucleari – sono stati abbandonati e lasciati cadere. Infatti l’amministrazione Bush ha rivelato di recente l’esistenza di piani per il “Complex 2030”, un’operazione massiccia di rinnovamento e di potenziamento dell’arsenale nucleare statunitense. A parte la vistosa eccezione del deputato Dennis Kucinich, i candidati alla presidenza degli Stati Uniti non criticano questi sviluppi, e anzi propugnano un ulteriore rafforzamento dell’apparato militare americano. Così, per quanto vigoroso e diffuso sia stato il movimento americano per la pace nel corso degli anni recenti, esso non è riuscito a sviluppare la forza necessaria per imporsi. Perché? Alcune spiegazioni Una spiegazione della debolezza del movimento per la pace negli Stati Uniti, formulata sovente dagli scettici nei confronti della natura umana, è quella secondo la quale i demagoghi che declamano slogan di propaganda patriottica abbindolano con estrema facilità le perone sprovvedute. Vi è qualcosa a favore di questa tesi, ma che non basta a renderla del tutto soddisfacente. La gente può essere convinta a raccogliersi “intorno alla bandiera”, ma non in ogni occasione e per una durata di tempo indefinita. Sia la guerra del Vietnam che quella in corso nell’Iraq forniscono esempi eloquenti del fatto che il sentimento popolare può volgersi sempre di più verso l’estremo rappresentato dalle “colombe” man mano che le conseguenze di una guerra diventano chiare agli occhi di tutti. Un’altra spiegazione, avanzata dai sostenitori del partito ambientalista e da esponenti assortiti della sinistra, è quella secondo la quale il Partito democratico è una specie di vampiro reazionario che progetta, con successo, di succhiare il sangue del movimento per la pace e di altre forze progressiste. Prima le seduce, e poi le pianta in asso (o qualcosa di simile). Ma questa spiegazione elude la sostanza del problema. Dopo tutto, se il movimento per la pace fosse abbastanza forte, si può pensare che il Partito democratico avrebbe il coraggio di abbandonarlo? Forse la base elettorale pacifista è in realtà un serbatoio di voti fra i tanti, che viene corteggiato all’epoca delle elezioni, ma che è troppo disorganizzato e precario per avere un’influenza più che marginale sulla politica pubblica. Una terza spiegazione dell’inefficienza del movimento per la pace è quella secondo la quale le élites delle grandi “corporations”, dei mezzi di comunicazione di massa e del mondo della politica, favoriscono le direttive politiche del militarismo e dell’imperialismo. Inoltre, dal momento che queste èlites esercitano un’influenza e un potere sproporzionati sulla vita americana, esse possono opporre una resistenza vittoriosa all’urto delle pressioni popolari contro le loro direttive politiche. Questa spiegazione presenta molti elementi a suo favore. Ma, anche se è corretta, che cosa può fare il movimento per la pace per attenuare gli effetti di questo fenomeno? Le organizzazioni progressiste hanno cercato per secoli di sfidare e di contestare il dominio delle élites. Oggi, è vero, esse sono impegnate in campagne intese a porre un freno alle “corporations”, ad assicurare l’accesso di tutti ai mezzi di comunicazione di massa e ad ottenere il finanziamento pubblico delle spese elettorali. Ma, anche se queste campagne avessero successo, non è probabile che ciò si possa verificare prima di qualche tempo. Fino ad allora il movimento dovrà fronteggiare la spiacevole realtà che il semplice fatto di assicurare un sostegno maggioritario ai propri programmi non sarà sufficiente a procurargli la vittoria. Uno sguardo
introspettivo C’è, tuttavia, un’altra fonte di debolezza del movimento, che quest’ultimo può controllare più facilmente, e cioè quella rappresentata dalla sua stessa struttura e dal suo scopo fondamentale. Come chiunque sia stato a una manifestazione o abbia ricevuto numerosi messaggi per cause degne di essere perseguite non può fare a meno di riconoscere, il movimento per la pace non è unito. Infatti esso soffre del grande malanno americano dell’individualismo, dell’atomizzazione e del settarismo spinti all’estremo. Ciò di cui esso ha bisogno è la pratica dell’azione collettiva e della solidarietà reciproca. E ciò che invece lo caratterizza è l’esistenza di migliaia di gruppi, per lo più piccoli, ciascuno dei quali persegue i suoi propri progetti e va per la propria strada. Non c’è quindi da meravigliarsi che il movimento non sia così potente come si compiace di credere, e che i politici non lo prendano sempre molto sul serio. Viceversa, quando il movimento è stato relativamente unitario e accentrato su un processo specifico, esso è stato efficiente e ha ottenuto importanti risultati.. Durante la maggior parte degli anni cinquanta del ‘900, quasi tutto ciò che esisteva del movimento per la pace negli Stati Uniti era una collezione di piccoli gruppi di orientamento pacifista, religioso e scientifico, ciascuno dei quali aveva i propri programmi e i propri obbiettivi. Ma, nel 1957, un gruppo di attivisti per la pace di primo piano diede vita al “National Committee for a Sane Nuclear Policy (SANE)”, ed ecco che, tutt’a un tratto, si venne a formare un movimento di massa. Incentrato sul problema di porre fine agli esperimenti nucleari, il SANE divenne rapidamente il gruppo più vasto del movimento per la pace negli Stati Uniti. E la sua agitazione diffusa e capillare contro la corsa alle armi nucleari non solo contribuì a spingere altri gruppi pacifisti nella stessa direzione, ma, nell’autunno del 1961, portò alla formazione di un’altra organizzazione di massa, “Women Strike for Peace” ( Donne in sciopero per la pace). Lavorando insieme, le due organizzazioni svolsero un ruolo vitale nel conseguimento del primo accordo sul controllo delle armi nucleari che abbia avuto luogo nella storia del mondo: il “Trattato per il bando parziale degli esperimenti” del 1963. Una vittoria molto importante del movimento per la pace, che non avrebbe mai avuto luogo senza la sollevazione popolare contro gli esperimenti nucleari generata dall’azione del SANE. Un’altra vittoria di carattere epocale del movimento per la pace si verificò grazie alla formazione della “Campagna per il congelamento delle armi nucleari” negli ultimi anni settanta. Randy Forsberg, una giovane studiosa dei problemi della difesa e del disarmo, che intratteneva stretti rapporti coi gruppi pacifisti, era disturbata dal fatto che essi fossero divisi dal punto di vista organizzativo e perseguissero ciascuno la propria agenda programmatica. Essa colse l’occasione di un raduno dedicato alla “Mobilitazione per la Sopravvivenza”, che ebbe luogo nel 1979, per proporre che questi gruppi si unificassero in vista di un solo e medesimo scopo: un arresto bilaterale della sperimentazione, dello sviluppo e del dispiegamento di armi nucleari. L’idea fece presa rapidamente, e presto un’altra campagna di massa – questa volta molto più grande di quella che si era verificata negli ultimi anni cinquanta e nei primi anni sessanta – travolse la nazione. Durante i primi anni ottanta, il Congelamento (“the Freeze”), come venne chiamato, sviluppò le proprie sezioni (“chapters”) locali, la raccolta fondi e la propria struttura organizzativa, e trasformò l’opinione pubblica e la politica americana. Esso lavorò con il SANE negli Stati Uniti e con un numero crescente di imponenti movimenti per la pace in altri paesi del mondo, quali la “Campagna per il Disarmo Nucleare” (CND) in Gran Bretagna, il “Consiglio interecclesiale per la pace” in Olanda, “No alle armi nucleari” in Norvegia e in Danimarca, e il “Movimento per la pace” in Nuova Zelanda. Appoggiandosi a questa rete robusta in patria e all’estero, il “Freeze” riuscì effettivamente a rovesciare l’agenda di politica estera dell’amministrazione Reagan da una prospettiva di accumulazione indefinita e di guerra nucleare a quella del disarmo nucleare e della pace. In contrasto con la campagna per il congelamento delle armi nucleari, la lotta condotta negli Stati Uniti contro la guerra del Vietnam fu molto più divisa, e riscosse minori successi. A dispetto del fatto che il movimento contro la guerra mobilitasse un gran numero di persone, la loro enorme energia fu dissipata in una larga varietà di iniziative, delle quali almeno alcune si rivelarono del tutto controproducenti. Per la maggior parte, il movimento contro la guerra fu privo di “leader” riconosciuti; vi presero parte, è vero, migliaia di gruppi, ma essi mancarono di una direzione centrale o anche solo di un programma comune. Nonostante il fatto che si manifestassero, nel corso di questa campagna, un certo numero di tentativi di coalizione, essi si rivelarono di breve durata. Per la maggior parte, gli attivisti impegnati in essa facevano ciascuno gli affari propri. Da ultimo, questo caos organizzativo non si rivelò un modo molto efficace di porre termine al massacro nel Vietnam. Infatti quel conflitto sanguinoso continuò a imperversare un anno dopo l’altro, portando via con sé milioni di vite. Da ultimo, esso si dimostrò la guerra più lunga che sia stata mai combattuta dagli Stati Uniti. In una certa misura, le iniziative di coalizione prese durante la guerra irachena hanno avuto più successo nel procurare una certa coesione al movimento contro la guerra. “United for Peace and Justice”, “Win Without War” e “International ANSWER” sono riusciti a coinvolgere parti sostanziali del movimento americano (peraltro molto frammentato) a favore della pace, specialmente in vista di grandi manifestazioni di massa. Ma il tono settario e lo stile belligerante, di “sinistra”, proprio di ANSWER, hanno dato luogo a conflitti con gli altri due gruppi. Per giunta, queste coalizioni sono strutture molto labili – uffici a livello nazionale caratterizzati da un grado minimo di partecipazione diretta dei membri, di presenza articolata alla base e di fedeltà personale alla sigla. Sembra improbabile che esse possano sopravvivere alla guerra irachena, se essa durrerà a lungo. Modelli di unità Un altro e più promettente modello per una maggiore unità organizzativa e una maggiore chiarezza negli obiettivi è quello di una potente organizzazione a carattere nazionale. Il movimento delle donne ha raggiunto questo scopo nella forma della “National Organization for Women (NOW)”, il movimento per la giustizia nei rapporti fra le razze nella forma della NAACP (National Association for the Advancement of Colored People), e il movimento sindacale nella forma della AFL-CIO (l’organizzazione scaturita dalla fusione delle due grandi centrali sindacali). Ciascuno di essi ha, naturalmente, dei competitori sul territorio nazionale. E molti di questi concorrenti, come i numerosi piccoli gruppi pacifisti presenti negli Stati Uniti, fanno un ottimo lavoro. Cionondimeno, il NOW, la NAACP e l’AFL-CIO assicurano un grado considerevole di continuità organizzativa, di forza e di direzione centrale ai rispettivi movimenti di massa. Il movimento americano per la pace sembrava indirizzato in questo senso quando, nel l987, il Freeze e il SANE si fusero per dare vita al SANE-Freeze, una potente organizzazione nazionale più tardi ribattezzata “Peace Action”. Avendo assunto l’impegno di superare la divisione organizzativa del passato, i sostenitori della fusione propugnarono la formazione di “un solo grande movimento per la pace”, e, per un momento, fu proprio ciò che riuscirono a realizzare. Ma, come il movimento generale per la pace si dissolse negli anni novanta, anche “Peace Action” non potè fare a meno di subire la stessa sorte. Durante l’amministrazione di Bush jr, però, essa ha fatto un sostanziale ritorno, e può ora proporsi di raggiungere un centinaio di migliaia di membri in circa cento sezioni e gruppi di affiliati su base statale in tutto il paese. Esso ha anche un programma suscettibile di esercitare un fortissimo appello: la pace attraverso la cooperazione internazionale e l’affermazione dei diritti umani. Tutti questi elementi messi assieme fanno di “Peace Action” la nave ammiraglia del movimento americano per la pace, di gran lunga la più vasta organizzazione pacifista presente negli Stati Uniti. Ma, nonostante tutto questo, essa non ha la stessa capacità di procurare, ai suoi aderenti, la coesione organizzativa e la direzione programmatica che sono in grado di produrre e di esercitare, nell’ambito dei loro gruppi di sostenitori, il NOW, la NAACP e l’AFL-CIO. Ma cosa accadrebbe se le celebrazioni per il cinquantesimo anniversario di “Peace Action”, ricorrente quest’anno sulla base del rapporto con la fondazione di SANE nel 1957 (l’organizzazione a cui, come abbiamo visto, si ricollega direttamente), potesse fornire l’occasione di un allargamento molto consistente dei suoi ranghi? Che cosa succederebbe se molti dei piccoli gruppi pacifisti, indipendenti gli uni dagli altri, di questo paese – e, in particolare, di quelli che operano esclusivamente a livello locale – la smettessero di restare attaccati alla loro splendida autonomia e si unissero ad essa come sezioni? Che cosa succederebbe se molte, molte migliaia di individui affatto indipendenti che hanno partecipato alle manifestazioni contro la guerra, o che sono rimasti semplicemente a casa a rodersi il fegato in preda alla frustrazione in cui li ha gettati l’indirizzo militaristico della politica estera degli Stati Uniti, si unissero ad essa in qualità di membri? Se le cose prendessero questa piega, “Peace Action” potrebbe avere facilmente delle sezioni in ogni città e cittadina di questa nazione, totalizzando la cifra di un milione o anche più di membri su scala nazionale! Anche nell’eventualità di questo aumento sensazionale delle sue basi di militanti “Peace Action” si troverebbe di fronte ad alcune difficoltà nella sua lunga marcia verso l’obiettivo dell’efficacia. Ironicamente, una delle difficoltà attualmente presenti riflette da vicino il problema strutturale che affligge il più vasto movimento per la pace: “Peace Action” detiene un grado minimale di autorità centrale effettiva. Benché l’ufficio nazionale di “Peace Action” tenga le sezioni e i singoli membri al corrente delle priorità organizzative e degli sforzi fondamentali da compiere, le sezioni locali e le organizzazioni affiliate dei vari stati usufruiscono di un grado molto elevato di indipendenza e di flessibilità. In effetti, la maggior parte delle quote di iscrizione a “Peace Action” affluisce alle sezioni locali e alle organizzazioni affiliate di ogni singolo stato lasciando l’ufficio nazionale in uno stato di relativa povertà di mezzi e nella necessità di arrabattarsi per far fronte alle spese di gestione indispensabili. Naturalmente gli americani che aspirano alla pace e che dissentono dalle pratiche ordinarie del loro governo – in particolare in questi ultimi decenni, in cui la struttura autoritaria dei partiti comunisti è stata oggetto di un crescente discredito – diffidano dell’autorità accentrata e preferiscono porre l’accento sul lavoro di base e sui problemi locali. Ciò nondimeno la struttura lasca di “Peace Action” le impedisce di realizzare pienamente il potenziale che dovrebbe essere proprio di un’organizzazione di carattere nazionale. D’altra parte, poiché dispone sia di un ufficio nazionale dotato di ottimi quadri (sito a Silver Spring, nel Maryland, nelle immediate vicinanze di Washington, DC) che di una vigorosa presenza nelle comunità locali, “Peace Action” è stata capace di associare una strategia di azione a livello parlamentare all’impegno di costruire un movimento di base in stretti rapporti con la gente comune. Quando operano fuori dall’ufficio nazionale, i membri dello “staff” di “Peace Action” lavorano a stretto contatto con i rappresentanti del Congresso impegnati per la pace, organizzandosi strategicamente con essi e con i loro collaboratori per ottenere il taglio dei fondi per la guerra in Iraq, scongiurare la guerra con l’Iran e bloccare i programmi delle armi nucleari. Nello stesso tempo gli attivisti operanti su scala locale non si limitano a fare pressioni sui membri del Congresso nei loro distretti di appartenenza, ma tengono pubbliche riunioni, sponsorizzano manifestazioni, preparano veglie, organizzano campagne di petizioni, reclutano nuovi membri, e, in generale, fanno in modo che la gente si mobiliti nelle città e nei centri minori di tutto il paese. Un altro dilemma a cui “Peace Action” si trova di fronte riguarda il modo di superare il carattere tradizionalmente “bianco” del movimento per la pace. Per anni “Peace Action” ha consapevolmente cercato di costruire un’organizzazione multirazziale, ma con risultati alterni. Il suo “staff” comprende ora un numero consistente di persone di colore, così come accade nel suo direttivo nazionale, di cui è copresidente un americano di origine africana. “Peace Action” intrattiene, inoltre, eccellenti rapporti con membri del Congresso afroamericani, quali i deputati John Conyers e Barbara Lee. Ciò nondimeno, come altre organizzazioni pacifiste presenti negli Stati Uniti, “Peace Action” è costituita, nella sua grande maggioranza, da bianchi. Ma, sulla base di una crescita consistente dei suoi aderenti, l’organizzazione potrebbe, com’è ovvio, diventare più simile, nella sua composizione, alla popolazione degli Stati Uniti nel suo complesso. Ma anche questa espansione del movimento potrebbe non essere sufficiente a far sì che “Peace Action” possa essere in grado di prevalere sui “falchi” negli Stati Uniti. Dopo tutto, l’istituzione della guerra risale a migliaia di anni nella storia umana, e l’attuale “complesso militare-industriale” negli Stati Uniti ha potenti sostenitori e istituzioni su cui appoggiarsi. Ma la questione di fondo è che, se gli attivisti per la pace si propongono seriamente di rintuzzare le forze del militarismo, essi dovrebbero riconoscere che un movimento composto di gruppi pacifisti ristretti e indipendenti gli uni dagli altri e di un vasto numero di individui non affiliati non è semplicemente all’altezza di questo compito. Per raggiungere una coesione organizzativa, una forza sufficiente e una direzione programmatica il movimento ha bisogno di una potente organizzazione nazionale pacifista, che possa contare su una partecipazione e adesione di massa. Soltanto allora esso sarà in condizione di sfidare effettivamente i signori della guerra, di persuadere i politici e di indirizzare gli Stati Uniti verso un nuovo corso pacifico nella trattazione degli affari mondiali. Lawrence S. Whittner è professore di storia presso l’Università dello Stato di New York ad Albany. Il suo ultimo libro è Toward Nuclear Abolition: A History of the World Nuclear Disarmament Movement, 1971 to the Present (Stanford University Press). Fa parte del Comitato direttivo di “Peace Action”. Articolo originale: How The Peace Mouvement Can
Win, 26 aprile
2007 Traduzione di Renato Solmi per il Centro Studi Sereno Regis, Torino |
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