intervento Deiana - Afghanistan




<http://www.camera.it/chiosco.asp?position=Deputati\La%20Scheda%20Personale&cp=1&content=deputati/Composizione/leg15/NuoveSchede.asp?IdPersona=300478>ELETTRA
DEIANA. Signor Presidente, in apertura di questo mio intervento voglio
anche io ricordare che in Afghanistan si prepara una campagna di primavera
nelle forme guerreggiate di una guerra asimmetrica, in cui la forza degli
uni, della NATO e del Pentagono per quanto riguarda la


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parte più orientale del paese, è affidata ai bombardamenti e alla
tecnologia più sofisticata, mentre quella degli altri, dei taleban e dei
loro supporter, è affidata ai kamikaze suicidi.
Voglio ricordare anche che l'Italia, insieme ad altri paesi della NATO, fra
cui la Germania e la Spagna, è sottoposta da altri paesi dell'Alleanza - in
primis dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, ma anche dal Canada -
nonché dal segretario generale dell'Alleanza, Jaap de Hoop Scheffer, ad un
ostinato pressing perché riduca o annulli le clausole di restrizione
nell'ingaggio e metta i nostri militari a completa disposizione dei comandi
NATO.
Chiedo al collega Fontana, che nel suo intervento ha sostenuto che la
dignità e la credibilità del nostro paese sul piano internazionale
dipendono - o dipenderebbero, non ho capito bene - dalla capacità e dalla
disponibilità a dire sempre «sì» ai diktat degli Stati Uniti, cosa abbiano
in comune Italia, Germania e Spagna per essere sottoposti a questo
pressing. Non credo che la Germania di Angela Merkel subisca i
condizionamenti di una sinistra radicale.
Inoltre, voglio ricordare che dall'Afghanistan giungono in questi giorni
notizie, non solo di un crescendo di rischi di attentati o di veri e propri
attentati, anche in zone ritenute fino a ieri più tranquille, come la
provincia di Herat, sotto il controllo italiano, ma anche di un
coinvolgimento diretto di unità speciali italiane in azioni di contrasto
alla guerriglia.
Oggi su El Pais c'è la notizia che il Governo spagnolo ha deciso l'invio di
nuove truppe per timore di uno sfondamento nelle zone ad ovest del paese,
dove sono impegnati i nostri militari nel Prt di Herat.
Credo che si debba fare la massima chiarezza su tutto ciò, perché il
Parlamento ed il paese devono conoscere realmente la posta in gioco e le
responsabilità che il Governo dell'Unione si assume di fronte ad una
evidentissima escalation delle dinamiche di guerra in Afghanistan.
Voglio infine ricordare che nella realtà afghana di oggi le azioni di
guerra della NATO - e nella parte orientale del paese le azioni
direttamente messe in atto dai militari statunitensi - sono condotte contro
le popolazioni civili, i pashtun in particolare, come gli episodi terribili
di questi giorni dimostrano. Si tratta di un problema enorme, quello degli
effetti collaterali che colpiscono le popolazioni inermi, povere,
sottoposte ad una situazione di straordinario disagio.
Come Rifondazione Comunista-Sinistra Europea, abbiamo posto con grande
nettezza - e continueremo a farlo - la questione di un disimpegno militare
del nostro paese dall'Afghanistan. La ricerca di soluzioni alternative alla
gestione bellica della NATO, ricerca che riteniamo indispensabile e
doverosa, non può non partire dalla consapevolezza che la permanenza di una
situazione di conflitto rende remota, se non impossibile, ogni altra
soluzione. La guerra, il conflitto militare come elemento costitutivo e i
continui rischi di escalation, come sta accadendo, aggravano e non
risolvono i problemi endemici di quel paese. L'accentuazione del carattere
militare della missione Isaf, messa sotto il comando della NATO, non
risponde certamente alle esigenze delle popolazioni, né rappresenta un
efficace strumento di contrasto al terrorismo.
Al contrario, essa aggrava l'adattamento e la dipendenza delle popolazioni
locali dai signori della guerra - quei war lord dell'alleanza del nord che
sostengono, con molte eccezioni, il Governo Karzai e controllano il
territorio, standosene, con il ruolo di eletti, nella Wolesi Jirga - e dai
taleban, che stanno riprendendo quota e consensi nella zona pashtun.
La guerra aggrava la dipendenza dei contadini dalla coltivazione dell'oppio
e concede massima libertà di azione ai narcotrafficanti. Infine, la guerra
aggrava i processi di corruzione degli apparati, l'inefficienza delle
esilissime istituzioni promosse dall'Isaf, il caos sociale, civile,
l'insoddisfazione crescente della popolazione locale.
Riteniamo che l'impegno del Governo italiano a lavorare nei prossimi mesi
per una Conferenza internazionale sull'Afghanistan


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sia un passo importante, per la cui attuazione abbiamo dato e diamo, come
gruppo parlamentare, un contributo decisivo: esso è il motivo di fondo
della nostra decisione di votare a favore del provvedimento, nonostante il
giudizio negativo sulla missione, che permane. Altrettanto importante sarà
l'iniziativa del ministro degli esteri D'Alema, che mi sembra si sia
impegnato, stando alle dichiarazioni dei giorni scorsi, a sollevare in
tutte le sedi internazionali, a cominciare dal Consiglio di sicurezza in
ambito NATO, la questione della insostenibilità di questo impegno e della
necessità di cercare altre strade.
Si tratta di un lavoro propedeutico per la conferenza di pace assolutamente
necessario, perché tale conferenza può nascere soltanto all'interno di una
discussione internazionale che affronti con chiarezza e determinazione
tutti gli aspetti della vicenda.
In ogni caso, la decisione di un impegno italiano per una conferenza
internazionale sarebbe importante, qualora venisse sancito dal Parlamento,
perché servirebbe a rompere la logica claustrofobia dell'escalation
militare a tutti costi, invocata dalla presidenza Bush. Inoltre, chiama
tutti a misurarsi su un terreno diverso e decisivo per il nostro futuro: le
politiche di pace contro le politiche di guerra, in una fase storica, come
quella che viviamo, in cui conflitti e focolai di guerra sembrano destinati
a moltiplicarsi. Dopo l'impegno per il Libano, che, insieme al ritiro delle
truppe italiane dall'Iraq, ha segnato un parziale passo di discontinuità in
politica estera, rispetto alla pedissequa osservanza del Governo Berlusconi
alle linee guida dell'amministrazione Bush, anche questa nuova iniziativa
può e deve concorrere a ridisegnare un profilo dell'Italia ispirato al
primato della diplomazia, del ruolo delle istituzioni e del diritto
internazionali, della pace e della condivisione di responsabilità fra i
diversi paesi, rilanciando contemporaneamente il ruolo dell'ONU e
dell'Europa.
Tuttavia, non possiamo e non voglio io nascondere i punti di divergenza.
Voglio qui mettere a tema alcuni aspetti di fondo, che stanno alla base del
nostro giudizio negativo sulla missione in Afghanistan e su come noi
intendiamo affrontare, ed affrontiamo, alcuni snodi fondamentali della
politica internazionale.
Voglio cominciare dal punto più lontano e più ostico, che ci rimanda all'11
settembre e alle strategie di contrasto del terrorismo, che da lì
partirono. L'attentato alle Torri gemelle dettò, come era giusto che
avvenisse, una dura presa di posizione delle Nazioni Unite contro il
terrorismo, una presa di posizione che fu definita e argomentata nella
risoluzione n. 1368 del 12 settembre 2001. Nel preambolo di quella
risoluzione, il Consiglio di sicurezza, oltre ad invitare tutti gli Stati
ad incrementare la cooperazione e l'azione contro il terrorismo, si
dichiarava pronto ad intraprendere tutti i passi necessari per rispondere
agli attacchi terroristici dell'11 settembre e per combattere tutte le
forme di terrorismo, in conformità alle sue responsabilità secondo la Carta
delle Nazioni Unite.
Tuttavia le Nazioni Unite non poterono fare nessun passo in questa
direzione. Non ebbero il tempo di verificare responsabilità e fatti.
Nessuna verifica fu possibile circa il coinvolgimento, nell'attacco alle
Torri gemelle, del regime di Kabul o di settori di quel regime. Com'è noto,
l'iniziativa unilaterale degli Stati Uniti - la missione di guerra contro
Kabul, denominata Enduring freedom - ruppe gli indugi e aprì una nuova
pagina nella politica internazionale, che via via si configurò come
unilateralismo, violazione del diritto internazionale, teoria della guerra
preventiva. Si affermò in quell'occasione un'impostazione strategica da
parte della Presidenza Bush tesa ad affermare e a consolidare la supremazia
globale degli Stati Uniti: solo loro erano legittimati ad operare in nome
dell'ordine mondiale e fecero la guerra in modo unilaterale per difendere i
propri interessi. L'emarginazione degli organismi internazionali fu
decisiva ed era funzionale a questa visione del mondo e del potere globale.
Gli USA, come sappiamo, non hanno retto alla prova dei fatti ed oggi ne vediamo


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i frutti nefasti, oltre ad assistere al tentativo della Casa Bianca di
coinvolgere tutti gli alleati nelle avventure militari, vecchie e nuove,
programmate in funzione di questa impostazione strategica, nei fatti
sconfitta, come stanno a dimostrare i vari pantani di guerre mai concluse,
che tuttavia la Presidenza Bush non vuole abbandonare, continuando a
riporre su di esse l'idea di una rivincita. Emblematico, al riguardo, il
modo in cui alla Casa Bianca viene affrontata la questione dell'Iran.
L'emarginazione dell'ONU dopo l'11 settembre fu una scelta calcolata e gli
organismi internazionali vennero concepiti - Bush in realtà ancora li
considera così - come mere casse di compensazione della politica degli
Stati Uniti, sotto il loro esclusivo controllo. Kaplan, teorico delle
strategie «bushane», ipotizzava una ristrutturazione dell'ONU che
ridimensionasse gli europei ed escludesse i paesi disordinati,
potenzialmente «canaglia», o comunque ininfluenti nel decidere le sorti del
mondo.
La decisione di organizzare la missione Enduring freedom fu realizzata,
voglio ripeterlo, con tempi così accelerati, che non permisero alle Nazioni
Unite di capire quali fossero in quelle circostanze i suoi compiti e i
passi più efficaci da compiere. Il 12 settembre, cioè il giorno dopo
l'attentato, il Consiglio atlantico si riunì e convenne che l'attacco
subito dagli Stati Uniti dovesse essere considerato come coperto
dall'articolo 5 del trattato, quello che parla di autodifesa di un paese
colpito da un nemico e dell'aiuto degli alleati a questo paese. Le prove
della colpevolezza, non solo dei terroristi di Al Qaeda ma del regime di
Kabul, vennero rapidamente fornite il 4 ottobre dall'ambasciatore
statunitense ai ministri degli esteri e della difesa dei paesi alleati, e
non fu necessario altro che quel rapporto, su cui nessuno chiese
delucidazioni, per dare il via ai bombardamenti su Kabul. L'Italia
partecipò fin dall'inizio alla coalizione di Stati a guida statunitense, in
un primo tempo con un gruppo navale d'altura con il ruolo di controllo nel
Golfo persico e successivamente, dal 15 marzo al settembre del 2003, con la
task force Nibbio sul confine tra l'Afghanistan e il Pakistan.
L'ampiezza della coalizione che partecipò ad Enduring freedom non
giustifica a nostro avviso l'assenza di condizioni di legittimità nel
procedere con un'azione violenta di guerra per affrontare una vicenda di
terrorismo internazionale - sia pure di vaste proporzioni come quella che
colpì gli Stati Uniti, che richiede, invece, modi e mezzi tutt'affatto
differenti -, contemporaneamente estendendo la responsabilità dell'atto
terroristico ad un intero popolo, oltre che al regime dominante in quel
paese. I cosiddetti effetti collaterali sono stati in questi anni
numerosissimi - sono stati ricordati anche in questo dibattito - e
continuano ad esserlo: sono la cifra della guerra in Afghanistan.
Dunque, per noi l'origine della guerra in Afghanistan ebbe una forte
connotazione di unilateralismo ed arbitrarietà. Tale arbitrarietà risulta,
a mio giudizio, evidente anche dai continui spostamenti interpretativi sul
perché si fosse andati in Afghanistan, dai continui espedienti
giustificativi della guerra, che vanno dall'idea, reiterata in più
occasioni, di esportare la democrazia, di insegnare agli afghani ad essere
civili e moderni - dopo tutti i silenzi e le complicità che gli Stati Uniti
intrattennero con i taleban - all'ideologia della liberazione delle donne
dal burka.
L'ONU fu chiamata successivamente ad autorizzare quanto era stato fatto. La
risoluzione n. 1386 del dicembre 2001 autorizzò la costituzione di una
forza di intervento internazionale (ISAF), con il compito di garantire
l'area di Kabul e di tutelare l'autorità provvisoria afghana. Si trattò con
tutta evidenza di un'autorizzazione ex post, con lo scopo di contenere e
circoscrivere il ruolo delle truppe occupanti, vigilare sul destino del
paese - salvaguardandone per il futuro l'indipendenza e la sovranità
territoriale -, coinvolgere la comunità internazionale nella ricerca di una
soluzione in tal senso, non dissimile nella logica ispiratrice, se non
nelle soluzioni concrete, dalle analoghe risoluzioni che il Consiglio di
sicurezza


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avrebbe votato nel 2003 sull'Iraq. La risoluzione n. 1483 del 22 maggio
2003 ribadiva, per esempio, i principi della tutela dei diritti di
indipendenza e sovranità dell'Iraq, riconosceva l'autorità provvisoria e
faceva appello alla comunità internazionale a che concorresse alla
soluzione dei problemi. Il minor ruolo che l'ONU ha avuto direttamente in
Iraq è dipeso in larghissima misura dalla difficoltà a consolidare una sua
presenza continuativa in quel territorio. Le autorizzazioni ex post
rimandano a compiti delle Nazioni Unite diversi da quello di assumersi la
responsabilità di intervenire direttamente per dirimere le controversie
internazionali secondo il capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite,
come è stato nel caso Libano.
Tanto più valgono queste mie osservazioni se pensiamo che nel 2003 in
Afghanistan è subentrata la NATO per una decisione maturata a Washington,
che con l'ONU non ha molto a che vedere e che mette in scena un uso
spregiudicato dell'Alleanza atlantica da parte degli Stati Uniti. Siamo,
cioè, di fronte a quella strategia a «geometria variabile» che ha dominato
la scena internazionale dopo l'attentato alle Torri gemelle. In Italia,
l'entrata della NATO nel teatro afghano non è stata minimamente discussa in
sede parlamentare e questo è un altro elemento di forte dissenso da parte
nostra.
È tempo di riaprire una discussione di fondo sulla NATO, non astrattamente,
non come storia, non come realtà di alleanza tra paesi europei e tra paesi
europei e gli Stati Uniti, ma nella sua funzione concreta, nell'evoluzione
che essa ha avuto al riparo da discussioni negli organismi delle
rappresentanze democratiche, nella relazione che intercorre oggi tra
l'Europa e gli Stati Uniti, in rapporto alle questioni della difesa e della
politica internazionale, e tra gli Stati europei. In altre parole, noi non
accettiamo come un fatto normale che la NATO esca dai confini disegnati dal
trattato del 1949 e vada in giro per il mondo a risolvere i problemi
strategici degli Stati Uniti d'America, coinvolgendo tutti gli alleati
nell'azione, in quanto decisione della NATO stessa. Il problema afghano è,
oggi, tutt'uno con quello della NATO. Il destino di quest'ultima, che, per
la prima volta, nella logica del nuovo concetto strategico messo a punto
nel summit di Washington del 1999 - anche in questo caso una rivisitazione
fatta al di fuori dei Parlamenti - si proietta in un territorio
extraeuropeo, con compiti di risoluzione di un aspro completo bellico, in
una regione, il Centroasia, di primaria importanza geopolitica, il destino
della NATO, lo ripeto, dipende da come essa uscirà dalla vicenda afghana,
da come riuscirà a risolvere la questione. Vi è una sovradeterminazione
della NATO rispetto alle decisioni dei paesi che sono coinvolti nella
vicenda militare, che deve essere interrotta; altrimenti non se ne uscirà
mai.
Non siamo, infatti, soltanto noi ad essere sottoposti a pressing, perché
diamo l'assenso ad un libero uso dei nostri contingenti. Il problema è,
dunque, cosa sia oggi la NATO, cosa sia dal punto di vista degli Stati
Uniti e cosa sia per l' Europa. Per gli Stati Uniti, sicuramente, la NATO -
che il Pentagono e le autorità militari statunitensi, non a caso, chiamano
organizzazione e non alleanza - costituisce un utile magazzino di risorse
militari. Oggi, essa concorre a tenere sotto controllo il teatro afghano,
mentre gli Stati Uniti sono costretti ad impegnarsi sempre più in quello
iracheno; per il Pentagono rappresenta, insomma, una struttura al servizio
della sicurezza nazionale e delle proiezioni internazionali. Per l'Europa è
un grande equivoco: andrebbe chiarita l'alleanza tra l'Europa e gli Stati
uniti, che nessuno vuole mettere discussione; essa deve essere ridefinita
su basi completamente nuove, perché la NATO, proprio per le ragioni che ho
esposto, rappresenta un organismo obsoleto, il quale impedisce che decolli
seriamente, in Europa, una discussione approfondita sulle scelte di
politica internazionale dell'Europa stessa e sull'idea di difesa europea
del nostro continente.
Ho colto, nelle relazioni del presidente Ranieri e della presidente Pinotti
il segno di una riflessione che, se non è critica, certo mostra forti
preoccupazioni sull'evoluzione


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delle vicende in quel territorio. Mi auguro, ed auguro al Governo che
sosteniamo, che la riflessione sia veramente ampia e la spinta a cercare
soluzioni diverse, attraverso l'impegno per la Conferenza internazionale e
la discussione in tutte le sedi internazionali competenti, dia frutti
positivi in tempi ragionevoli, tali da giustificare il voto a favore del
provvedimento che noi, come Rifondazione Comunista-Sinistra Europea,
esprimeremo domani (Applausi dei deputati del gruppo Rifondazione
Comunista-Sinistra Europea).