da Jasmina Tesanovic: un processo per crimini di guerra



3, 4 Ottobre 2006, Belgrado (processo del Fiume Prosciugato)
DOVE SONO I VOSTRI AMERICANI ORA?
Blog di Jasmina Tesanovic - http://blog.b92.net/blog/22

Oggi, nel tribunale speciale per crimini di guerra, a Belgrado, 8
poliziotti paramilitari sono stati accusati di tortura, assassinio,
saccheggio e dispersione della popolazione civile albanese nel marzo del
‘99, quando sono cominciati i bombardamenti della NATO contro la
Jugoslavia di Milosevic.
Questo processo specifico concerne 48 membri della famiglia Berisha,
giustiziati in poche ore in un villaggio chiamato Fiume Prosciugato. I
morti comprendono donne, bambini, vecchi: dai neonati ad una nonna di
100 anni. Fiume Prosciugato è sanguinante e pieno di lacrime.
8 dei 10 accusati (2 sono morti nel frattempo) sono seduti in aula di
fronte a noi. Hanno un’aria così normale e ordinaria che, in confronto a
loro, i loro avvocati sembrano dei mostri. Sono uomini, con una giovane
bionda ricciuta, con una camicetta come la mia.
Stamattina, ci ho pensato due volte prima di vestirmi per essere ammessa
nell’aula delle udienze. I miei vestiti semplicemente non si adattano a
questo paese e alla sua cupa storia; quel che ho potuto trovare di
meglio è stata una T-shirt nera con la parola inglese REVOLUTION scritta
a grandi lettere rosa luminose.
Uno degli avvocati assomiglia a Albert Einstein e l’altro a Seselj,
l’orrendo bastardo incriminato per
crimini di guerra ed ora incarcerato all’Aya. Il principale avvocato
della difesa, che ha presieduto come giudice di Milosevic i processi
contro molti Albanesi imprigionati, assomiglia a un prete e si comporta
come se fosse Dio. Egli tenta di ricusare il giudice e di buttare fuori
dal tribunale Natasa Kandic, che rappresenta le vittime. Questa tattica
è una forma di ostruzionismo legale deliberata, e così aspettiamo tutta
la mattina che i 3 giudici che presiedano trovino una via nella giungla
legale.
Mentre noi aspettiamo nel fumoir, due cameriere commentano un altro
orribile massacro, di cui sono a conoscenza perché i corpi sono stati
trasportati in un camion frigorifero e bruciati nella periferia di
Belgrado. Sono costernate ma devono parlare a bassa voce.
Il mio idolo gay, Milos, che recentemente ha osato presentare
pubblicamente le sue scuse a degli Albanesi per la perdita di bambini
albanesi non nati, ha fatto amicizia con un giovane Albanese, studente
di diritto, molto carino.… Le mie amiche stanno circondando un Albanese
slanciato incredibilmente bello, le cui 4 sorelle e la madre sono state
ammazzate. Assomiglia a un attore del cinema e sorride senza sosta. Mi
fa paura, è troppo bello e gentile ed è a Belgrado. Al suo posto, io ora
sarei una bestia.
Mi sento dolorosamente colpevole e so che la vita continua, ma egli dice:
eravamo una famiglia molto gioiosa, che danzava e faceva musica, ora
raccontiamo ai nostri figli le storie del passato. Qui in Serbia noi
continuiamo a creare ostacoli alla giustizia e raccontiamo  menzogne ai
nostri figli sulla nostra storia.
Nella hall del tribunale, chiacchieriamo come ad un cocktail party. Noto
una donna vestita alla moda: mi saluta seriamente. Mio Dio, riconosco la
donna del parco dove ho passato anni con la mia bambina. Lei era una
giudice. Suo marito era il principale legislatore per lo stato criminale
di Milosevic. Ora è qui al tribunale come assistente per i criminali e i
loro avvocati.  Mi ricordo che sua figlia, dell’età della mia, veniva in
classe con graziosi vestiti, portata da un autista, mentre altri bambini
svenivano per la fame. Mi ricordo che la maestra le ha chiesto
gentilmente di smettere questa pratica perché sua figlia era talmente
detestata dagli altri bambini. Mi ricordo che provavo pietà per questa
bambina che vedevo come un’innocente su cui pesava l’immoralità dei suoi
genitori. Ora mi chiedo: perché questa donna frequenta ancora sempre i
tribunali serbi? E’ questa  la democrazia, è questa la riconciliazione
della verità e della giustizia?
Il primo accusato si dichiara NON COLPEVOLE, dicendo che egli aspettava
la promozione a generale ed invece è stato arrestato, 11 mesi fa. Ha già
ricevuto molte medaglie e la sua famiglia ha versato sangue per lo stato
durante la Seconda guerra mondiale. Racconta dunque la sua versione
della storia: gli Albanesi erano contro i Serbi, e la NATO, in nome di
tutto il mondo, era anche contro i Serbi. Egli ha dunque combattuto
contro tutto il mondo.
Nell’atto d’accusa, si cita uno dei soldati che avrebbe detto ammazzando
gli Albanesi « E DOVE SONO I VOSTRI AMERICANI ORA PER DIFENDERVI?». Ora,
essi sono in Irak, ma hanno provato a difendere gli Albanesi durante gli
anni di Clinton. Gli Americani non potevano certo proteggerli tutti, e
solo ora, anni dopo, i massacrati del Kosovo ricevono il loro stato come
ricompensa. E’ una perdita traumatizzante per la Serbia nazionalista.
L’accusato dice con fierezza: Tutto è pubblico ora, com’era allora. Noi
abbiamo combattuto in una guerra giusta e non abbiamo mai toccato un
civile. I nostri ordini erano: meglio morire che fare del male a un
civile.
Come può, in nome del cielo, quest’uomo dire cose simili dopo l’apertura
delle fosse comuni? E ugualmente mi meraviglio: come può il Congresso
americano votare per la legalizzazione della tortura e per porre i
soldati americani al di sopra dei civili? Stanno semplicemente
legalizzando una serie di torture e crimini da infliggere agli Americani
e al popolo americano.
Il generale fallito descrive con fierezza i dettagli alla moda della sua
uniforme di guardia paramilitare, della sua tasca anti-proiettili, del
suo elegante berretto… Dice: voglio raccontarvi chi sono io in realtà.
Noi ci annoiamo a morte, oltre al disgusto per la sua dichiarazione
estremamente piatta. Sono questi i tipi che dirigono ancora il mio paese
e rovinano la mia vita? Lui parla come Milosevic ed è fiero del suo
leader morto e del suo stato fantasma. Il fenomeno dei cloni di
Milosevic in tutta la Serbia batte la mania di Napoleone. Gli altri
poliziotti in tribunale, che custodiscono gli 8 accusati, hanno un
sorriso acido sul volto, ascoltando questi vaneggiamenti. Il nostro
quasi generale rivendica con fierezza come le sue truppe organizzate
dallo stato all’inizio degli anni ‘90 fossero anche incaricate di
reprimere le manifestazioni di civili a Belgrado. A quell’epoca, noi
manifestanti non sapevamo che i poliziotti che ci picchiavano venivano
dal Sud, dai rifugiati serbi del Kosovo, molto ben pagati e addestrati a
uccidere. Sono tutti più giovani di me, ma dimostrano il doppio dei loro
anni. Il crimine non va bene per il look in uniforme.
Il bell’Albanese mi dice: se qualcosa salverà la Serbia, saranno queste
donne giudici. Sì, quasi tutte le donne in questi processi politici
sembrano giovani e piuttosto carine. Da dove vengono, mi chiedo?  Esse
stanno tentando di provare che si trattava di un crimine di guerra
organizzato dallo stato, e che il marciume è sempre qui perché la Serbia
non è mai riuscita a dare un taglio netto al suo passato criminale.
Ho sperato che queste altre donne sapessero cosa stavano facendo, perché
io stessa ero pronta a dileguarmi.
E così, ho lasciato il tribunale per andare a prendere una birra.

3 ottobre 2006
Quando si arriva alla sua fierezza e ai compiti che l’hanno ridotto in
manette invece del rango di generale, il primo colonnello accusato nel
processo di Fiume Prosciugato non parla mai della «Serbia» ma piuttosto
della Jugoslavia. Slobodan Milosevic, suo capo, aveva cominciato a
infastidire il Kosovo dichiarando ad un raduno, «nessuno picchierà dei
Serbi qui». La Jugoslavia ha perso tutte le sue guerre su questo stesso
campo di battaglia, ed è stata ridotta a nient’altro che un nome.
Quando gli 8 accusati entrano di nuovo in aula, noi ci sediamo di nuovo a
fianco della famiglia delle vittime. Uno degli uccisori sorride e saluta
con la testa un membro della famiglia. Sono stupefatta, chiedo attorno a
me: l’ha fatto apposta, l’ha fatto spontaneamente? Perché? L’uomo che ha
risposto al saluto, che ha avuto 48 membri della sua famiglia uccisi da
questo tipo, dice: eravamo vicini. Ci conoscevamo da anni. Per tutti
questi anni hanno vissuto fianco a fianco, talvolta anche insieme, e poi
Milosevic, inventando uno slogan, fa che un uomo uccida tutta la
famiglia del suo vicino. Mi sfugge qualcosa?
Il primo accusato termina il suo interrogatorio oggi: ripete fermamente e
solennemente: ha sentito alla TV satellitare e da Boris Eltsin che i
banditi della NATO stavano per bombardare il Kosovo serbo.  E’ quel che
sa della guerra: non ha mai visto alcun Albanese profugo né le lunghe
file di persone che si trascinavano oltre le frontiere, terrorizzate
dalla polizia serba, che egli stesso comandava. Non ha mai dato questo
ordine, la sentenza di morte, per la quale è accusato qui in questo
tribunale: bruciate, saccheggiate, picchiateli e
uccideteli…Cos’aspettate, che io lo faccia? Egli scende dal banco con un
atteggiamento più eloquente del suo discorso per difendersi. Non ha mai
menzionato il nome di Milosevic, nemmeno una volta.
I suoi avvocati si accapigliano con l’accusatore generale: la temperatura
sale e il processo diventa un campo di battaglia dove le ferite e le
passioni sono personali e pericolose. Come questi giorni brucianti in
Serbia, quando il parlamento vuol far passare una nuova costituzione per
i «Serbi» e «altri che vivono in Serbia» incluso il Kosovo.
Il secondo accusato era il comandante della polizia locale. E’
direttamente accusato di aver dato gli ordini di eseguire la sentenza
citata prima.
Queste le prime parole: io credo in questo tribunale e nella sua
giustizia, che non sarà politica; attendo un verdetto rapido e chiaro
sulla mia innocenza. Tutto quel che ho fatto in quei giorni è scritto
come un rapporto, un diario.
Mentre ascolto, sono colpita dal fatto che a quell’epoca, anch’io
scrivevo il mio «diario di un’idiota politica» iniziato quando le prime
sommosse sono cominciate in Kosovo. Lui ed io, scrivevamo dei diari
paralleli.
Lui dichiara di non sapere niente dei massacri che si svolgevano nel suo
villaggio, vicino alla stazione di polizia che dipendeva da lui.
Dichiara di conoscere l’ex-sindaco della città e altri membri della sua
famiglia. Dice che i massacri sono stati commessi da qualche pazzo, ora
morto, che lui non se n’è immischiato e che tutto è scritto nel suo
diario che ha trasmesso ai suoi superiori quando tutto è finito.
Il mio «Diario» è stato pubblicato in molte lingue, ma il suo è ancora
top secret in questo paese dove il Generale Mladic si nasconde ancora,
forse nella mia stessa via. Il capo della polizia locale ammette di aver
raccolto i corpi e di averli sepolti -  come si deve con tutti gli
onori. Ammette di aver trascurato il suo lavoro, poiché non ha mai
chiesto quanti corpi erano stati sepolti in fosse comuni, ma nega di
aver mai commesso un crimine.
Il membro della famiglia seduto accanto a me geme pesantemente.

4 ottobre 2006
Mi piace sempre quando delle persone in questo tribunale pronunciano una
frase che mi fornisce il titolo per il mio testo. Questo cancella il
fastidio di stare seduta in quest’aula polverosa ad ascoltare i dettagli
di orribili crimini, a sopportare l’audacia disgustosa delle menzogne
lampanti degli accusati, che ridicolizzano la nostra presenza in questo
mondo e nel loro, un mondo dove delle persone uccidono per divertirsi e
non si pentono mai. Questi poliziotti serbi del Kosovo lo rifarebbero,
forse con più vigore, anche se non glielo ordinano. Il loro unico
rimpianto è di non aver  fatto di più e meglio. Che il loro regime abbia
perduto la guerra. Hanno dovuto fuggire invece di uccidere tutti gli
Albanesi. Come il 10% della popolazione del Kosovo, hanno dovuto
abbandonare le loro  proprietà alla maggioranza del 90%. Erano ortodossi
e serbi, la razza superiore, nel loro paese sacro, vivendo in
un’aggressione paranoica senza fine da secoli.
Il terzo ex-poliziotto accusato ha detto oggi: «Lui non era NIENTE.
Proprio come una donna».
Alludeva al suo collega, un giovane «infantile e individuo tenero»
(parole sue) che è il testimone protetto di questo processo, che li ha
denunciati, che non poteva continuare a vivere con questo crimine sulla
coscienza. Nel corridoio, ho sentito un avvocato dire a sua moglie,
battendole sulla spalla: piano piano, distruggeremo la credibilità dei
testimoni. Lei ha sorriso, rassicurata: mi chiedo se lei, come donna, ha
realizzato di non essere niente?
Altri parenti in aula non riescono a tenere a freno il loro odio quando
Natasa Kandic, questa eroina dei nostri giorni bui, interroga il
testimone e lo fa balbettare e sembrare stupido. Natasa gli pone
semplicemente domande di buon senso. Lei non è nemmeno un’avvocata, è
una militante dei diritti umani. Questi tipi non hanno bisogno della
legge per essere accusati. Loro e i loro parenti sembrano poveri e
ignoranti. Sono stati ridotti ad essere miserabili profughi criminali da
un regime criminale che ha fatto guerra a tutto il mondo. E tuttavia
loro lo rifarebbero, soprattutto oggi, perché ora non hanno niente da
perdere né un posto dove andare. Tutto il mondo dovrebbe tremare davanti
a loro e averne paura.
Il padre di una ragazza assassinata è qui: silenzioso, fiero, un signore
dai capelli bianchi con un abito scuro. Mi meraviglio della sua pazienza
e del suo atteggiamento posato. L’accusato lo saluta – di nuovo, come
una provocazione. L’arroganza della falsità evidente ci uccide tutti in
quest’aula:  menzogne ben preparate, ben organizzate avallate da un
gruppi di avvocati rumorosi. Il tipo oggi afferma che non era là, che
non sapeva niente, che non ha visto niente… allora CHE DIRE DEI CORPI
nel piccolo villaggio dove viveva e lavorava come capo aggiunto della
polizia? Una casa piena di persone è stata incendiata davanti a lui. Lui
non se n’è accorto, afferma, parlando con molti dettagli della sua
giornata piena, di quel che ha mangiato, dei pensieri banali che aveva
avuto. Tutto ciò nei primi giorni dei bombardamenti massicci sul Kosovo,
di cui tutti noi ricordiamo molto poco tranne il panico negli occhi di
ciascuno. Lui comincia il suo discorso dichiarando: come genitore, giuro
sulla vita dei miei figli che non ho avuto niente a che fare con il
crimine.
Dopo ciò sono tentata tutto il tempo di credergli fin quando realizzo che
lui non smette di parlare di un giorno sbagliato, citando ore sbagliate,
saltando leggermente in pochi secondi il momento del massacro, come se
non ci fosse mai stato. Il suo trauma, in quel giorno sinistro, veniva
dal fatto che il suo comandante l’aveva rimproverato. Lo stesso
comandante che, solo due giorni fa, aveva detto al tribunale che egli
non era affatto là. Anche il comandante infatti non aveva visto  niente
e niente ha fatto durante il massacro che non c’è mai stato.
Quando Natasa ci ricorda i corpi pazientemente trasportati in Serbia, uno
dei giudici perde la pazienza, dicendo: non posso proprio comprendere
come osate testimoniare così! La giudice che presiede replica: Si tratta
sempre di una difesa legale.
Non si è mai fatto ricorso a forze speciali in Kosovo, afferma l’accusato
n.4, tranne per assicurare la sicurezza di una star del turbofolk in
Kosovo. E questa star cantante era un piccolo niente di donna – non era
nemmeno Ceca, la compagna di Arkan, il Signore della guerra delle Tigri
e l’eminenza degli Skorpion.