Fw: Per un dibattito nel movimento contro la guerra



 
 

Il movimento contro la guerra, il militarismo bipartizan e la politica estera italiana.

Di cosa vogliamo discutere?

 

di Mauro Casadio*

 

E’ tempo che i parametri e le scelte concrete della politica estera del governo italiano entrino di forza dentro al dibattito nel movimento contro la guerra e della sinistra. Il “periodo di prova” concesso fino ad oggi è scaduto da tempo e l’azione politica non può continuare a trastullarsi sugli auspici o su aperture di credito che chiedono ormai una riscossione “brevi manu”. In questi mesi abbiamo visto in azione un militarismo decisamente bipartizan che sta pesantemente ipotecando la politica e la società nel nostro paese. Il rischio di concentrarsi sull’albero perdendo di vista la foresta è un fattore che il movimento contro la guerra e le forze della sinistra non possono più permettersi.

 

1)      L’Italia ha ritirato i suoi militari dall’Iraq. Il governo Prodi ha mantenuto gli impegni presi con i suoi elettori ma lo ha fatto esattamente nei tempi annunciati e scanditi dal governo Berlusconi. Siamo fuori dal mattatoio iracheno ma non lo siamo del tutto. A settembre il Parlamento ha votato unanimemente un documento che rivendicava come “missioni di pace” e aderenti al dettato costituzionale tutte le missioni militari italiane all’estero, inclusa e non esclusa, quella in Iraq. Nelle ultime settimane, il Presidente della Repubblica e le massime autorità del governo hanno riaffermato e non smentito il carattere di “pace” della missione Antica Babilonia. Dunque o ci eravamo sbagliati noi che siamo scesi in piazza contro la partecipazione dell’Italia alla guerra in Iraq oppure molti nostri compagni di strada che oggi siedono in Parlamento o fanno parte della coalizione di governo ci hanno preso per i fondelli. Delle due l’una e un po’ di chiarezza (anche postuma) su questo non sarebbe male.

 

2)      L’Italia mantiene il suo contingente militare in Afghanistan inquadrato nella missione NATO denominata ISAF. In questi giorni, il Ministro degli Esteri D’Alema ha riconfermato al Senato la giustezza della missione militare in Afghanistan. Il governo italiano ha cercato di rendere politicamente biodegradabile questo impegno militare dentro il progetto di una Conferenza internazionale poggiata esclusivamente sulle potenze NATO impegnate in Afghanistan e sul governo fantoccio di Karzai. Non solo. Il vertice di Riga ha mandato un messaggio esplicito a tutti i membri dell’alleanza atlantica. L’Afghanistan è il banco di prova del nuovo ruolo globale della NATO e non può permettersi un fallimento. Ciò significa non solo l’escalation militare ma anche un maggiore coinvolgimento bellico delle potenze impegnate sul terreno. I limiti dietro cui si è trincerato fino ad oggi il governo italiano (le truppe restano a Kabul ed Herat) difficilmente resteranno tali ancora a lungo. E’ difficile a tale riguardo dimenticare che la “difesa preventiva” dichiarata in Parlamento nel 1999, corrispondeva in realtà alla partecipazione attiva degli aerei italiani ai bombardamenti sulla Jugoslavia. Lo si è scoperto a fatti compiuti.

 

3)      L’Italia si appresta a fare il “lavoro sporco” in Libano. Lo avevamo denunciato alla vigilia della missione militare italiana e siamo su questo entrati in collisione politica con molti ambiti della sinistra italiana e dello stesso movimento contro la guerra. Ma oggi i fatti – anche se non sono precipitati dal punto di vista militare – lo confermano dal punto di vista politico. Solo i più distratti ed ottimisti (o i complici) non sono riusciti a scorgere che dietro la Risoluzione ONU nr.1701 si nascondeva la precedente Risoluzione dell’ONU, la 1559, unico caso al mondo con cui il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha inteso condizionare l’assetto costituzionale interno di un paese. Non era e non è sbagliato affermare che la 1701 sia stata la “prosecuzione della guerra attraverso la politica”. L’obiettivo dichiarato era quello di depotenziare con ogni mezzo necessario la resistenza libanese rivelatasi capace di tenuta militare di fronte all’aggressione israeliana ma anche di una grande capacità di azione politica e di massa nel paese.

Il governo Prodi insieme a quello francese, spagnolo, tedesco (e USA) sostengono apertamente il governo di Fuad Siniora assicurandogli un appoggio che ha reso questo esecutivo - non più rappresentativo di tutta la società libanese – più arrogante nei rapporti interni con le altre componenti. Si palesa concretamente non solo il rischio di una nuova guerra civile in Libano ma anche il rischio che l’Italia entri dentro questo conflitto schierandosi politicamente e militarmente con una delle due parti (la coalizione che sostiene Siniora) contro l’altra coalizione (Hezbollah, Partito Comunista, nazionalisti etc.). La “missione di pace” diventa così non solo una missione militare sul campo ma diventa anche il concreto contributo italiano a quella “destabilizzazione” del Medio Oriente teorizzata dagli Stati Uniti e da Israele e in via di attuazione in Iraq, in Libano e in Palestina.

In Libano la partita che si gioca è impregnata di veleno fin negli interstizi. Le potenze europee intendono approfittare delle difficoltà statunitensi (rivelatesi con le elezioni di medio termine e con l’impantanamento in Iraq e Afghanistan) per ridisegnare i rapporti di forza con l’alleato USA. Il multilateralismo si rivela così non una democratizzazione delle relazioni internazionali ma una redistribuzione dei poteri e delle aree di influenza tra le principali potenze aderenti alla NATO. Dal punto di vista delle ambizioni e dello status delle varie potenze (rivendicato da Parisi in una emblematica lettera estiva al Corriere della Sera) ciò introduce dei cambiamenti. Dal punto di vista degli iracheni, dei libanesi o degli afgani ciò non introduce alcun cambiamento. All’inizio del XX° Secolo, prima di scannarsi nelle trincee sulla Marna o sulle Alpi, le maggiori potenze massacrarono tutte insieme la popolazione cinese insorta nella rivolta dei boxer con un esempio di multilateralismo che è rimasto nella storia.

 

4)      Infine, ma non per importanza, vi è il capitolo della dichiarata equidistanza del governo italiano tra palestinesi e israeliani. In questo caso separare i fatti dalle opinioni è fondamentale. I primi si stanno incaricando di demolire le più coraggiose delle seconde. Il Ministro D’Alema in alcune occasioni ha fatto dichiarazioni importanti sui diritti dei palestinesi ed ha condannato le pesanti incursioni israeliane contro Gaza. Ma sul piano dei fatti ciò che abbiamo visto confina le dichiarazioni nel limbo delle cose innocue e pone i fatti sul piano di quelle inaccettabili.

a) Viene mantenuto l’embargo economico contro il popolo palestinese bloccando i fondi destinati ai progetti nonostante che tutte le agenzie umanitarie avessero denunciato – ancora prima degli effetti dell’embargo – una situazione di emergenza umanitaria per la popolazione palestinese. Al Parlamento Europeo giace dal 2002 una risoluzione approvata che chiedeva sanzioni contro Israele per la violazione dei diritti umani dei palestinesi. L’Italia berlusconiana non l’ha mai fatta propria ma il governo Prodi si è ben guardato dall’adottarla. Siamo così in presenza del primo caso al mondo in cui l’embargo viene adottato contro le vittime e non contro gli occupanti. Non solo. Il governo italiano è arrivato a negare i visti di ingresso a ministri palestinesi nel nostro paese mentre ha ricevuto in pompa magna Olmert, l’erede di Sharon;

 

b)    Viene mantenuto in vigore l’accordo di cooperazione militare tra Italia e Israele, siglato dal governo Berlusconi e diventato nel giugno 2005 legge dello Stato, che pone l’Italia militarmente al fianco della politica bellicista israeliana;

 

c)     Sul piano delle dichiarazioni sia D’Alema che Prodi hanno esternato punti di vista che li pongono in perfetta continuità con la politica filo-israeliana del governo Berlusconi. Prodi ha rivendicato nel convegno dell’Aspen Inistitute “la salvaguardia del carattere ebraico dello Stato di Israele” mettendo così una lapide sia sui diritti storici dei palestinesi sia indebolendo le forze progressiste che in Israele si battono per una democratizzazione e la modernizzazione della società e dello Stato chiedendone il superamento del carattere confessionale. D’Alema, dovendo rispondere alle polemiche per le sue critiche alla politica del mattatoio usata dal governo israeliano a Gaza, ha precisato che l’Italia è al fianco di Israele, è ostile al governo di Hamas e intende rispettare l’embargo contro la popolazione palestinese;

 

C’è un’ultima cosa che merita di essere sottolineata nel capitolo israelo-palestinese dell’agenda della politica estera italiana. Il governo Prodi non nasconde la sua intenzione di adottare anche per la Palestina il “modello libanese” cioè una forza militare – possibilmente internazionale - di interposizione nella Striscia di Gaza. La dichiarazione di intenti – così come in Libano – è quella di porre fine ai combattimenti e di proteggere i civili. La ricaduta concreta è quella di sostenere anche militarmente la componente di Abu Mazen nel suo braccio di ferro contro l’attuale governo palestinese il cui mandato è stato affidato da elezioni democratiche e trasparenti all’organizzazione islamica Hamas. Così come in Libano l’Italia si schiera politicamente e militarmente con il governo Siniora e contro il Presidente della Repubblica Lahoud e l’opposizione, in Palestina si schiera contro il governo di Hamas e a sostegno dell’opposizione e del Presidente della Repubblica Abu Mazen. Nel diritto internazionale ciò viene definita quantomeno “ingerenza negli affari interni”. Sul piano del buonsenso dovremmo definirlo colonialismo.

 

Queste sintetica disamina di alcuni capitoli della politica estera del governo italiano sul Medio Oriente (oggi scenario decisivo per le relazioni euromediterranee e per quelle internazionali nel loro complesso), diventa sempre più difficile e incomprensibile che resti ai margini del dibattito nel movimento contro la guerra e nelle scelte concrete dei partiti di sinistra che sostengono l’attuale governo. Nel primo caso il movimento potrebbe mettere in campo iniziative innocue o al massimo inutili (vedi le aspettative tradite della pur riuscita assemblea del 15 luglio per il ritiro delle truppe dell’Afghanistan). Concentrare la nostra iniziativa solo sul ritiro dell’Afghanistan rischia di creare nuovamente aspettative superiori alla realtà ma anche di restringere l’approccio e l’azione politica ad un solo capitolo di una agenda più ampia e assai più insidiosa e pericolosa.

Nel secondo caso si tratta di mettere fine ad una inerzia della sinistra che rischia di diventare complicità con le ambizioni coloniali di una classe dirigente che - pur ricorrendo al soft power - non ha esitazioni nel trascinare l’Italia nel gorgo di nuove guerre e nel ruolo – per noi inaccettabile – di oppressore di altri popoli. E’ già accaduto in passato. Dovremmo impedire con ogni sforzo che accada nel prossimo futuro. Di questo sarà utile che si cominci a discutere….senza se e senza ma!

 

* Rete dei Comunisti