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effetti della colonizzazione israeliana
- Subject: effetti della colonizzazione israeliana
- From: "Conques" <conques at alice.it>
- Date: Sun, 12 Nov 2006 15:44:48 +0100
LA SILENZIOSA DEPORTAZIONE
DEI PALESTINESI: IL DINIEGO DI INGRESSO
Sam Bahour è un uomo d'affari
americano di Youngston, Ohio, figlio di genitori palestinesi. Tredici anni fa,
nel clima di euforia seguito agli Accordi di Oslo, decise di trasferirsi in
Palestina, per fare la sua parte nella ricostruzione della martoriata economia
dei Territori. E ci riuscì senza dubbio, fondando una compagnia di
telecomunicazioni da cento milioni di dollari e il primo centro commerciale
della West Bank, a Ramallah, dando lavoro a più di duemila palestinesi. In
questi tredici anni passati nei Territori, Sam si è sposato e ha avuto due
figlie. Un mese fa, il Ministero dell'Interno israeliano ha deciso di espellere
Sam, rinnovandogli per l'ultima volta il visto, con scadenza questa settimana.
Senza nessuna spiegazione, entro qualche giorno Sam dovrà dire addio alla sua
famiglia, e ai suoi affari.
La storia di Sam Bahour è anche la
storia di centinaia di americani di origine palestinese, uomini d'affari,
professori universitari, medici, giornalisti, che da Gennaio di quest'anno si
sono visti rifiutare l'ingresso o il rientro nei Territori Occupati, respinti al
confine israeliano. Il caso è recentemente approdato all'attenzione di
Condoleezza Rice, la quale ha affermato indignata: "Qui si tratta di cittadini
americani!". A metà Ottobre il Segretario di Stato ha presentato una formale
protesta all'Ambasciata israeliana a Washington, senza ottenere finora alcuna
risposta. L'aspetto più sorprendente della faccenda è che gli ufficiali
israeliani al confine rifiutino il visto d'ingresso, adducendo motivi di
sicurezza o terrorismo, a imprenditori e professionisti con grossi investimenti
nei Territori. Ma scopriamo che il motivo, secondo i palestinesi e le
organizzazioni non governative, è in realtà il contrasto alla cosiddetta
"minaccia demografica". Questa teoria, molto cara ad Ariel Sharon e al suo
pupillo e attuale premier israeliano Olmert, si basa sul fatto che l'attuale
maggioranza ebraica della popolazione tra la valle del Giordano e il
Mediterraneo è fortemente minacciata dall'elevato tasso di crescita della
minoranza palestinese. Il governo israeliano ha pertanto il dovere di "ridurre
il più possibile l'approvazione delle richieste di ricongiungimento familiare,
principale motivo di immigrazione nell'area" (legge del 1983). Inoltre, una
modifica alla Legge sul Ritorno prevede l'immediato rilascio della residenza
israeliana a parenti di cittadini di religione ebraica, ma il rifiuto nel caso
in cui la richiesta provenga da una famiglia di religione non ebraica
(1995).
Ad un'analisi più approfondita, viene
alla luce la dimensione impressionante di questo fenomeno, che non riguarda solo
poche centinaia di professionisti americani. Circa 120.000 richieste di
ricongiungimento familiare sono infatti in pendenza da anni presso il Ministero
dell'Interno di Gerusalemme. Riguardano cittadini di paesi arabi, europei, ma
soprattutto americani (con circa 37.000 persone sono la comunità straniera più
numerosa dei Territori Occupati), la cui famiglia risiede in West Bank e a Gaza.
Per evitare di rilasciare lo status di residenza legale, lo stato israeliano ha
per anni assicurato a queste persone il rinnovo del visto turistico ogni tre
mesi. Per ottenere il rinnovo bisogna ovviamente lasciare il paese per qualche
giorno e poi tornare; per alcuni si tratta di un viaggio nel paese d'origine
tramite l'aeroporto di Tel Aviv, per la maggior parte di una breve trasferta in
Giordania. Dal momento che tutti i confini dei Territori Occupati sono
controllati dall'esercito israeliano, l'ingresso in West Bank e Gaza è sotto la
completa giurisdizione israeliana. Anche se i dinieghi di ingresso al confine
("denied entries") sono stati sporadicamente praticati dall'inizio della seconda
Intifada nel 2000, è dal Gennaio di quest'anno, da quando cioè Hamas ha vinto le
elezioni legislative palestinesi, che Israele ha iniziato a mettere in atto
massicciamente questa pratica. Come sempre nel conflitto israelo-palestinese, la
dose di arbitrio è stupefacente: talvolta, anche se forniti di regolare visto
d'ingresso rilasciato da un'ambasciata israeliana, i cittadini stranieri vengono
interrogati per ore da ufficiali di confine e poi respinti; altri, che si
rifiutano di ripartire, vengono imprigionati nei locali CPT israeliani per
qualche giorno, in attesa di una sentenza del tribunale; più raramente, viene
respinto l'ingresso ad un confine e accettato ad un altro confine a qualche
centinaio di chilometri di distanza; infine, chi se lo può permettere a volte
riesce a entrare ugualmente pagando una cauzione di 15.000 dollari.
Circa 120mila persone sono dunque a
rischio espulsione e di giorno in giorno cresce il numero di coloro che, una
volta usciti, non possono più tornare alle loro famiglie, come nel caso di Sam
Bahour. Si tratta dunque di una deportazione de facto della popolazione
palestinese. Spesso infatti, la separazione dei nuclei familiari spinge l'intera
famiglia a trasferirsi altrove. Un altro aspetto inquietante di questa vicenda è
il diniego di ingresso a persone altamente qualificate, come ad esempio uomini
d'affari, professori universitari o giornalisti, che rientra nella specifica
tattica di boicottaggio delle istituzioni palestinesi e distruzione delle
infrastrutture, che il governo Olmert persegue dichiaratamente. Secondo Sam
Bahour, che è diventato attivista per il diritti al rientro, tutto questo è
tanto più miope e dannoso per la stessa Israele, in quanto viene espulso proprio
chi può contribuire a creare lavoro e portare benessere nei Territori, l'unico
modo per assicurare una sicurezza duratura agli israeliani. Spezzando i nuclei
familiari, al contrario, Israele non fa che alimentare la spirale di odio e di
disperazione nei Territori. Negli ultimi mesi, la situazione è degenerata al
punto che l'ingresso viene respinto ora anche a dipendenti e volontari delle ONG
internazionali che lavorano in Palestina. In particolare, una ventina di
cooperanti italiani sono stati espulsi da Israele senza alcuna motivazione, ed
il numero aumenta di settimana in settimana.
Per contrastare questa silenziosa
deportazione, è stata lanciata in Settembre la "Campagna per il diritto di
ingresso e rientro nei Territori Occupati", da parte di numerose ONG
palestinesi, israeliane e internazionali e di alcuni parlamentari europei (si
trova sul sito www.righttoenter.ps). Il primo risultato è stato
l'interessamento alla questione del Dipartimento di Stato americano. Il prossimo
obiettivo della campagna è l'intervento da parte dei governi dell'Unione
Europea, finora del tutto assenti.
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