Re: Re:[MIR-riconciliazione] Una spiegazione e una difesa (non solo mia) nella discussione sull'Afghanistan



Grazie, Paolo! Enrico


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Sent: Monday, July 17, 2006 2:18 PM
Subject: Re:[MIR-riconciliazione] Una spiegazione e una difesa (non solo
mia) nella discussione sull'Afghanistan


per quel che può valere il mio personalissimo parere, dico che sono
sostanzialmente d'accordo con Enrico.
Paolo Candelari
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Date      : Mon, 17 Jul 2006 13:06:52 +0200
Subject : [MIR-riconciliazione] Una spiegazione e una difesa (non solo mia)
nella discussione sull'Afghanistan







 17 luglio 2006

 Enrico Peyretti

 Una spiegazione e una difesa (non solo mia),

 nella discussione interna al movimento per la pace sull'Afghanistan,

 dopo l'assemblea del 15 luglio



     Devo ancora delle spiegazioni, e devo difendermi, nella discussione, in
cui mi sono impegnato, interna al movimento per la pace sul rinnovo della
spedizione militare in Afghanistan.

     Ho creduto di dover adottare la posizione positivamente paziente,
rappresentata autorevolmente da Lidia Menapace, e in ciò ho ricevuto vari
consensi altrettanto significativi e autorevoli, che in parte ho fatto
conoscere. Ho ricevuto anche critiche dure, che rispetto: per esempio, tra
altri, da parte di Peppe Sini, meritorio operatore di cultura, e da parte di
un singolo Giovanni (senza cognome) che sembra parlare per tutto il Centro
Gandhi di Pisa.

     Ho letto la mozione conclusiva dell'assemblea autoconvocata del 15
luglio (oggi in rete). Potrei sottoscriverla interamente, se potessi non
tenere conto del quadro più generale, perché soltanto in esso può collocarsi
una politica di pace progressiva. A quell'assemblea ho mandato un intervento
scritto il 12 luglio.

     Se mi si perdona un riferimento personale, posso dire che da decenni
(anche grazie all'età e ai grandi maestri incontrati), penso dico e scrivo
in libri e in centinaia di articoli le stesse cose dette in quella mozione.
Ho anche presentato ripetutamente le istanze del movimento per la pace,
oltre che per le vie collettive e pubbliche anche in via personale, in modo
corretto, a diversi operatori della politica, grazie alla conoscenza o
amicizia allacciata fin dalla gioventù nelle organizzazioni universitarie
nazionali. Neppure così ho ricevuto risposte proprio positive, ma non
desisto.

     Vorrei avere torto nella posizione che ho preso sulla questione
Afghanistan. Come ho detto fin dall'inizio della discussione, posso
sbagliare e dovermi convincere del contrario (come tutti, del resto). Come
alcuni dei principali interlocutori, ho fatto anch'io dei cambiamenti
parziali, come è naturale e giusto in chi cerca di pensare e non ripetersi
fisso. Eppure, portato piuttosto per carattere alla timidezza e incertezza
davanti agli argomenti altrui, ho sentito abbastanza chiaramente di dovere
presentare argomenti e ragionamenti differenti, non nei princìpi ma nelle
conclusioni pratiche, dai "senatori obiettori" e dell'assemblea del 15
luglio. Non li riporto ora tutti qui, ovviamente (forse li raccoglierò in un
dossier in rete).

     In sintesi: mentre dobbiamo sempre «dire la verità al potere» (Gandhi),
dobbiamo altrettanto tener conto di quanto potere abbiamo per realizzare la
verità della giustizia e della pace: se la realizziamo almeno in parte
facciamo bene, se non la realizziamo per nulla e solo la proclamiamo intera,
senza mediazioni, diciamo bene, ma non facciamo bene.

     Mi pare di avere mostrato attraverso alcuni esempi storici e altri
paradossali, nei miei interventi del 30 giugno, del 1°, 5, 7, 8, 12, 14
luglio, che nelle decisioni operative, a differenza dell'affermazione pura
di ciò che è giusto, sono necessarie e giuste le mediazioni. Il giusto
compromesso gandhiano, per realizzare il possibile, è un passo nella verità.

     E questo l'ho detto col pieno rispetto per le coscienze dei senatori
obiettori - che ho anche difeso, per esempio, dalla ironia ingiusta di
Michele Serra (3 luglio) - insieme alla discussione sugli effetti pratici
prevedibili e negativi del voto contrario da loro annunciato. Dico che
sbaglia molto Adriano Sofri a qualificare semplicemente come "sciocchzze"
(titolo di Repubblica di oggi) quelle dei pacifisti critici del governo.
Altrettanto difendo ora i politici mediatori (appello Martone, Menapace e
altri, circolato il 13 luglio) dalle accuse sbrigativamente pesanti, che
sento ingiuste, di alcuni come i corrispondenti citati all'inizio.

     Sono stato anche accusato da un amico di far valere il governo Prodi
più della vita degli afghani. Perdono quell'amico, perché constato su di me
come la polemica può trascinare a qualcosa che non si vuole (e chiedo di
essere perdonato per tutte le volte in cui vi sono caduto).

     Realizzare vuol dire introdurre pazientemente nella realtà. Pazientare
attivamente non è rassegnarsi né accontentarsi. Mediare non è svendere, ma
promuovere.

     La cultura della pace riuscirà solo a proclamare principi giustissimi
senza cominciare a realizzarli, cioè a introdurli nella politica e nella
storia effettiva, che resteranno immutate, cioè belliche e omicide, fino a
quando quella cultura pacifica nonviolenta non saprà articolare il proprio
contributo tra i due piani distinti e non separati, che sono:

     a) l'obiettivo intero (l'abolizione della guerra e dei suoi strumenti,
la difesa popolare nonviolenta, la gestione civile nonviolenta dei conflitti
coi Corpi civili di pace);

     b) i passi prossimi parziali e progressivi nelle condizioni limitate
della politica pratica.

     Perciò oggi sono importanti due cose:

     a) ricordare che il principale lavoro profondo e continuo è
culturale-educativo, fino a modificare l'attuale cultura politica generale,
da destra a sinistra, con la presa di coscienza chiara e definitiva che o
l'umanità abolisce ormai l'organizzazione istituzionale della violenza, o
questa abolisce l'umanità;

     b) rinnovare le proposte precise e minime, sintetiche e iniziali,
presentate all'Unione il 20 dicembre 2005 (che riportavo testualmente
nell'intervento del 6 luglio), e messe in rete dai movimenti di più lunga
tradizione, Movimento Internazionale della Riconciliazione, e Movimento
Nonviolento.

     A queste condizioni, il profondo giusto moto umano popolare per la pace
attiva potrà diventare politica, forza rappresentativa, anche numericamente,
di volontà democratiche capaci di incidere nelle istituzioni e nelle
decisioni. Altrimenti, il movimento per la pace e la nonviolenza resterà un
grido velleitario, giusto e generoso ma frustrato, per la ghignante
soddisfazione dei signori della guerra, e per la disperazione del popolo
numeroso che in esso ha confidato.

     Così resterà fino a quando, alle preziose necessarie elaborazioni
culturali, morali, storiche, sociologiche, psicologiche, educative,
eccetera, non aggiungerà la proposta politica, che significa anche
mediazione politica (ho fatto tante volte l'esempio del transarmo verso il
disarmo). Escludere la mediazione, come fa la mozione del 15 luglio, è
escludere la politica, cioè la realizzazione.

     Proposta e mediazione politica impongono, se vogliamo davvero una
realizzazione politica della pace e della nonviolenza nella democrazia, di
tener conto dei numeri effettivi nel panorama politico presente. In base a
questa semplice necessaria considerazione, è parso evidente - a me come a
tante persone davvero più di me serie, competenti, responsabili - che la
maggioranza dell'Unione oggi va preservata e non abbattuta, proprio per
garantire, nonostante gravi carenze sulla pace al suo interno, la sola oggi
possibile progressiva politica di pace.

     Il rinnovo temporaneo della spedizione in Afghanistan, se politicamente
indirizzato davvero alla sua riduzione e alla sua fine, mentre nuovi atti di
guerra raggelano e insanguinano il mondo, è una condizione amara per
impedire che prenda il potere un'altra maggioranza e una politica che troppo
bene conosciamo, non impegnata a fermare la guerra, ancor meno dell'attuale
restia a fare la guerra ed anzi più interessata a farla, a servizio del
bellicismo Usa.

     Amici rigorosi tirano staffilate sul viso e sull'anima di loro amici,
accusando niente meno che di essere assassini complici di assassini quanti
pensano come ho detto, mentre invece soffriamo nel limite angoscioso di una
decisione non pura, parziale, interlocutoria, che vediamo necessaria per
procedere. Credetelo, amici severissimi, non siete solo voi che sentite
l'orrore del potere che dà la morte, non solo voi lavorate per uscirne!

     Se poi (anche questo è detto e ridetto) i senatori obiettori, e
l'assemblea del 15 luglio, sanno quello che fanno, se sanno di potere
spostare una maggioranza che si deve preservare (come bene diceva
all'inizio, il 29 giugno, anche Peppe Sini: due cose sono entrambe da
salvare, l'uscita dalla guerra, e la maggioranza con cui abbiamo sventato
l'illegalità berlusconiana e l'assalto alla Costituzione), se questo piano è
realistico e responsabile, avranno ragione loro, e sarò cordialmente con
loro, perché quello è il mio desiderio più profondo.

     Ma se, come dicono troppi da quella parte, la maggioranza precedente e
l'attuale valgono lo stesso e sono entrambe nostre nemiche, allora proprio
non sanno quello che fanno.

 Enrico Peyretti , 17 luglio 2006



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