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SOMMARIO N. 130 GIUGNO
- Subject: SOMMARIO N. 130 GIUGNO
- From: guerrepace at mclink.it
- Date: Tue, 27 Jun 2006 12:22:31 +0200
Guerre&Pace - rivista di informazione internazionale alternativa via Pichi 1, 20143 Milano tel 02.89422081; guerrepace at mclink.it Una copia - 4 Euro Abbonamento annuo (10 numeri) - 35,00 Euro c/c postale n.24648206 intestato: Guerre&Pace Milano Per avere una copia saggio: guerrepace at mclink.it -------------------------------------------------------------------------- ----------------------------- Vi inviamo il sommario del n.130/giugno 2006 e, di seguito, l'editoriale dello stesso numero. SOMMARIO Italia/mese E adesso ritirarli, senza se e senza ma! <http://www.mercatiesplosivi.com/guerrepace/130editoriale.htm> (P. Maestri) Sul fronte mediorientale Elaheh Rostami Povey - L'Afghanistan sotto occupazione Lettera ai gruppi di sostegno canadesi e italiani (Rawa) Ornella Sangiovanni - Una "nuova liberazione" di Baghdad <http://www.mercatiesplosivi.com/guerrepace/130Sangiovanni.htm> Stephen Zunes - Come giustificare una guerra "Promuovere la democrazia" (R. Jacobs) palestina Cinzia Nachira Dopo la vittoria di Hamas <http://www.mercatiesplosivi.com/guerrepace/130Nachira.htm> nepal Antonello Zecca Lotta di popolo economia mondo Jean Nanga Mali & Niger nucleare Angelo Baracca La proliferazione nucleare sia con voi! <http://www.mercatiesplosivi.com/guerrepace/130Baracca.htm> immigrazione/italia Paolo Colacicchi "Altri apartheid" immigrazione/usa James Petras Mesoamérica in Nord America Gli Usa e l'ossessione della frontiera (L. Martinelli) movimenti Anna Camposampiero Da Atene all'Europa Luigia Pasi Precarietà non fa rima con qualità Spazio aperto/nonviolenza Parole abusate (G. Cordignani) La priorità del dialogo (M. Biagioni) -------------------------------------------------------------------------- --------------------------------------------------- E adesso ritirarli, senza se e senza ma! Il governo Prodi ha ottenuto la fiducia in Parlamento da pochi giorni e già si trova a dover affrontare diverse questioni importanti e urgenti. Il modo con cui verranno affrontate darà immediatamente il segno e la direzione della politica che si appresta a mettere in atto il governo dell'Unione: in particolare saranno un banco di prova fondamentale della volontà del nuovo governo di segnare un cambiamento di rotta rispetto alle politiche berlusconiane e di rispettare la volontà e le domande che vengono dal suo elettorato. È evidente ai lettori di questa rivista che per noi la principale "urgenza" alla quale dare una risposta di netta inversione di rotta riguarda la questione della politica estera e militare, a partire dalle scelte rispetto alle missioni di guerra nelle quali sono impegnati soldati italiani, in particolare la partecipazione all'occupazione dell'Iraq e la missione in Afghanistan. Nel numero di marzo di "G&P", nel quale abbiamo provato ad analizzare il programma elettorale dell'Unione, abbiamo scritto al proposito: "effettivamente il programma prevede il 'rientro dei nostri soldati' (non viene quindi usato il termine di 'ritiro' che tanto infastidisce Fini e Martino) e la previsione di una presenza 'diversa' nel quadro della 'internazionalizzazione della gestione della crisi irachena... da realizzarsi con la presenza di un'autorità internazionale (Onu) che superi l'attuale presenza militare...'. Senza voler troppo sottilizzare, ci sembra chiara la volontà del ritiro dei militari, ma si pensa già a una nuova presenza - anche militare - sotto l'ombrello dell'Onu, senza chiarire che questa non potrà mai avvenire senza il ritiro anche delle truppe statunitensi, in mancanza del quale si confermerebbe la situazione di occupazione militare. Altrimenti si rischia di ripetere l'esperienza afgana, dove la missione Onu si affianca e coopera con quella Usa/Nato - magari con un migliore rapporto con la popolazione, ma mantenendo la caratteristica di controllo di un vero e proprio 'protettorato' all'insieme dell'intervento...". Il discorso programmatico di Prodi in Senato ci sembra confermi esattamente questo giudizio, avendo egli cercato di mantenere un "equilibrio" che permettesse di dare il segnale di una svolta senza chiudere la porta alla "necessità" di una diversa presenza di soldati italiani in Iraq. Prodi infatti, ha sottolineato che "così come in alcuni casi abbiamo ritenuta legittima e doverosa la partecipazione militare dell'Italia a importanti missioni di pace delle quali andiamo orgogliosi, non abbiamo invece condiviso la guerra in Iraq e la partecipazione dell'Italia a tale guerra", e ha aggiunto che "il rientro del contingente italiano avverrà nei tempi tecnici necessari, definendone anche in consultazione con tutte le parti interessate le modalità, affinché le condizioni di sicurezza siano garantite". Anche il nuovo ministro degli Esteri Massimo D'Alema, ha insistito sulla "scelta del ritiro", parlando poi di una maggiore presenza "civile" - protetta da un contingente militare - per la ricostruzione (ci permettiamo in questo caso di suggerire un nome: "Missione arcobaleno 2"). Queste posizioni continuano esplicitamente (e colpevolmente) a eludere la questione centrale: in Iraq è in corso un'occupazione militare, alla quale si contrappone una resistenza civile e armata e che ha aperto la porta al radicamento di reti terroristiche legate ad Al Qaeda e - per le scelte fatte rispetto alle divisioni istituzionali ed economiche - sta portando l'Iraq sempre più verso una possibile guerra civile. In questa situazione è chiaro che non è pensabile una missione "Nuova Babilonia" che rimarrebbe comunque ingabbiata nella politica statunitense e britannica, che dal 2003 continua attraverso l'occupazione militare. Se davvero si crede che l'Italia abbia "partecipato alla guerra", come correttamente sostiene Prodi, bisogna ammettere che lo ha fatto proprio nascondendosi dietro la "missione di pace". Dobbiamo sapere allora che non è possibile alcuna missione legata alla "ricostruzione" che non parta dalla fine dell'occupazione militare anglo-statunitense. La vicenda afgana è da questo punto di vista esemplare, perché rappresenta la "sperimentazione" di una forma di operazione militare basata proprio sulla divisione dei compiti tra "guerra" e "ricostruzione". Non casualmente anche per l'Iraq si è parlato - analogamente a quanto avviene in Afghanistan - della costituzione di "Team di ricostruzione provinciale", che dovrebbero essere protetti con le armi. Ma quanto avviene in Afghanistan è ben diverso da quanto ci viene presentato abitualmente. Dopo quasi cinque anni dai primi bombardamenti statunitensi non solo non è in corso nessuna "pacificazione" o "stabilizzazione", ma la guerra e la violenza sono aumentate in maniera esponenziale - così come il numero di morti, anche civili - e la guerriglia talebana e dei loro alleati è forte come mai in precedenza. La situazione economica e sociale afgana non ha visto quasi nessun miglioramento (come si può leggere nell'articolo di Elaheh Rostami Povey in questo numero di G&P) e l'intervento di organizzazioni internazionali e non-governative non sembra in grado di sostenere alcuno sviluppo, rischiando al contrario di favorire un processo di concentrazione dell'economia nelle mani delle multinazionali straniere e dei signori della guerra. È in questo quadro che nel mese di marzo l'Amministrazione statunitense ha deciso di ritirare gran parte dei propri militari dalla zona meridionale dell'Afghanistan, dove maggiore è la pressione talebana, dentro un progetto di ridisegno della propria strategia a tutto campo, nell'insieme vasto di quella regione che gli Usa amano definire "grande Medio Oriente". L'amministrazione Bush sceglie quindi di concentrare maggiormente la sua presenza su Kabul e nelle diverse basi militari che si stanno consolidando in tutto il paese, e di chiedere alla Nato un impegno maggiore direttamente in missioni di combattimento. Richiesta immediatamente accettata dal governo britannico del fido Blair (che l'ex presidente Clinton vorrebbe vedere alla carica di Segretario dell'Onu!) e dai governi canadese e olandese, che hanno già inviato oltre 7.000 soldati nel sud del paese per sostituire i 2500 statunitensi. Ma anche l'Italia potrebbe assumere un ruolo sempre maggiore in Afghanistan, magari non inviando altri contingenti militari ma attraverso un diverso utilizzo di quelli già presenti, con l'ausilio anche di maggiori mezzi militari. Questa tendenza ci sembra confermata dalla notizia dell'invio di sei cacciabombardieri Amx, che avranno il compito di supporto alle missioni terrestri, anche nel quadro dell'operazione "Enduring freedom". In questo modo tende a scomparire ogni confine - al quale non abbiamo mai creduto - tra una missione di guerra e una di "peacekeeping", e la Nato si troverà presto a gestire direttamente operazioni di combattimento. La missione militare italiana in Afghanistan, così come la partecipazione italiana all'occupazione in Iraq, sono totalmente inserite - come sempre in maniera subalterna - nella complessiva strategia di "guerra permanente" degli Stati uniti, che rischia di estendersi verso nuove e ancora più pericolose avventure in Iran. È quindi tenendo conto di questa cornice che deve essere collocata la scelta di un ritiro dei soldati italiani dall'Iraq e dall'Afghanistan: non è possibile pensare ad alcun ruolo positivo delle forze armate italiane, perché queste agiscono in sintonia con le strategie statunitensi e Nato, e ancora una volta la "copertura" dell'Onu rappresenta solamente la foglia di fico dietro la quale nascondere i reali interessi strategici e le reali intenzioni statunitensi. Non possiamo credere a chi ci racconta che i militari italiani sono necessari alla protezione della popolazione afgana e al processo di democratizzazione, perché il proseguimento della guerra Usa in Afghanistan - e la loro alleanza con i fondamentalisti dell'Alleanza del Nord e i signori della guerra - stanno trascinando la popolazione afgana verso un nuovo baratro, così come la strategia in Iraq - e i crimini di guerra in essa commessi - hanno aperto la strada a sempre maggiore violenza e invivibilità. Le quotidiane dichiarazioni di esponenti della maggioranza governativa e dei vari partiti dell'Unione - con Verdi, Pdci e Rifondazione che insistono con la richiesta di un ritiro in tempi brevi e i moderati che al contrario invitano alla "flessibilità" per mantenere comunque il ruolo italiano in Iraq, discutendolo con gli alleati - sono il segno di una scelta non ancora definita. Al movimento contro la guerra, quello che in Italia ha manifestato fin dall'ottobre 2001 "contro la guerra senza se e senza ma" (cioè "con o senza l'Onu") rimane il compito di rilanciare con forza la sua iniziativa. E ha cominciato a farlo con l'appello sottoscritto dalla maggior parte delle associazioni e reti del movimento contro la guerra. Un appello che recita: "Chiediamo al nuovo Governo e al nuovo Parlamento di iniziare la legislatura dando un segnale forte di inversione culturale rispetto alla militarizzazione della società e della politica: si smetta di coprire il ruolo delle forze armate impegnate in operazioni di guerra e in occupazioni con la maschera degli interventi umanitari e di peace-keeping... è urgente che l'Italia separi le proprie responsabilità dall'occupazione illegale dell'Iraq e dalla guerra permanente e si impegni con una forte iniziativa diplomatica per ristabilire sovranità, pace e convivenza nell'area. è urgente che si pronunci contro qualsiasi intervento militare contro l'Iran, si impegni per un piano generale di disarmo nucleare, per la fine dell'occupazione in Palestina e una pace giusta in Medio Oriente. Chiediamo che non siano rifinanziate le missioni in Iraq e in Afghanistan, che si ritirino immediatamente i soldati italiani e si ridiscutano tutte le missioni militari italiane all'estero". Piero Maestri
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