SOMMARIO N. 130 GIUGNO




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Vi inviamo il sommario del n.130/giugno 2006 e, di seguito,
l'editoriale
dello stesso numero.



SOMMARIO



Italia/mese

E adesso ritirarli, senza se e senza ma!
<http://www.mercatiesplosivi.com/guerrepace/130editoriale.htm>
(P.
Maestri)



Sul fronte mediorientale

Elaheh Rostami Povey - L'Afghanistan sotto occupazione

Lettera ai gruppi di sostegno canadesi e italiani (Rawa)

Ornella Sangiovanni - Una "nuova liberazione" di Baghdad
<http://www.mercatiesplosivi.com/guerrepace/130Sangiovanni.htm>



Stephen Zunes - Come giustificare una guerra

"Promuovere la democrazia" (R. Jacobs)



palestina

Cinzia Nachira Dopo la vittoria di Hamas
<http://www.mercatiesplosivi.com/guerrepace/130Nachira.htm>



nepal

Antonello Zecca Lotta di popolo



economia mondo

Jean Nanga Mali & Niger



nucleare

Angelo Baracca La proliferazione nucleare sia con voi!
<http://www.mercatiesplosivi.com/guerrepace/130Baracca.htm>



immigrazione/italia

Paolo Colacicchi "Altri apartheid"



immigrazione/usa

James Petras Mesoamérica in Nord America

Gli Usa e l'ossessione della frontiera (L. Martinelli)



movimenti

Anna Camposampiero Da Atene all'Europa

Luigia Pasi Precarietà non fa rima con qualità



Spazio aperto/nonviolenza

Parole abusate (G. Cordignani)

La priorità del dialogo (M. Biagioni)

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E adesso ritirarli, senza se e senza ma!



Il governo Prodi ha ottenuto la fiducia in Parlamento da pochi giorni
e
già si trova a dover affrontare diverse questioni importanti e urgenti.
Il
modo con cui verranno affrontate darà immediatamente il segno e la
direzione della politica che si appresta a mettere in atto il governo
dell'Unione: in particolare saranno un banco di prova fondamentale
della
volontà del nuovo governo di segnare un cambiamento di rotta
rispetto alle
politiche berlusconiane e di rispettare la volontà e le domande che
vengono dal suo elettorato.

È evidente ai lettori di questa rivista che per noi la principale
"urgenza" alla quale dare una risposta di netta inversione di rotta
riguarda la questione della politica estera e militare, a partire dalle
scelte rispetto alle missioni di guerra nelle quali sono impegnati
soldati
italiani, in particolare la partecipazione all'occupazione dell'Iraq e la
missione in Afghanistan.



Nel numero di marzo di "G&P", nel quale abbiamo provato ad
analizzare il
programma elettorale dell'Unione, abbiamo scritto al proposito:
"effettivamente il programma prevede il 'rientro dei nostri soldati'
(non
viene quindi usato il termine di 'ritiro' che tanto infastidisce Fini e
Martino) e la previsione di una presenza 'diversa' nel quadro della
'internazionalizzazione della gestione della crisi irachena... da
realizzarsi con la presenza di un'autorità internazionale (Onu) che
superi
l'attuale presenza militare...'. Senza voler troppo sottilizzare, ci
sembra chiara la volontà del ritiro dei militari, ma si pensa già a una
nuova presenza - anche militare - sotto l'ombrello dell'Onu, senza
chiarire che questa non potrà mai avvenire senza il ritiro anche delle
truppe statunitensi, in mancanza del quale si confermerebbe la
situazione
di occupazione militare.

Altrimenti si rischia di ripetere l'esperienza afgana, dove la missione
Onu si affianca e coopera con quella Usa/Nato - magari con un
migliore
rapporto con la popolazione, ma mantenendo la caratteristica di
controllo
di un vero e proprio 'protettorato' all'insieme dell'intervento...".

Il discorso programmatico di Prodi in Senato ci sembra confermi
esattamente questo giudizio, avendo egli cercato di mantenere un
"equilibrio" che permettesse di dare il segnale di una svolta senza
chiudere la porta alla "necessità" di una diversa presenza di soldati
italiani in Iraq. Prodi infatti, ha sottolineato che "così come in alcuni
casi abbiamo ritenuta legittima e doverosa la partecipazione militare
dell'Italia a importanti missioni di pace delle quali andiamo
orgogliosi,
non abbiamo invece condiviso la guerra in Iraq e la partecipazione
dell'Italia a tale guerra", e ha aggiunto che "il rientro del contingente
italiano avverrà nei tempi tecnici necessari, definendone anche in
consultazione con tutte le parti interessate le modalità, affinché le
condizioni di sicurezza siano garantite".

Anche il nuovo ministro degli Esteri Massimo D'Alema, ha insistito
sulla
"scelta del ritiro", parlando poi di una maggiore presenza "civile" -
protetta da un contingente militare - per la ricostruzione (ci
permettiamo
in questo caso di suggerire un nome: "Missione arcobaleno 2").

Queste posizioni continuano esplicitamente (e colpevolmente) a
eludere la
questione centrale: in Iraq è in corso un'occupazione militare, alla
quale
si contrappone una resistenza civile e armata e che ha aperto la
porta al
radicamento di reti terroristiche legate ad Al Qaeda e - per le scelte
fatte rispetto alle divisioni istituzionali ed economiche - sta portando
l'Iraq sempre più verso una possibile guerra civile.

In questa situazione è chiaro che non è pensabile una missione
"Nuova
Babilonia" che rimarrebbe comunque ingabbiata nella politica
statunitense
e britannica, che dal 2003 continua attraverso l'occupazione
militare. Se
davvero si crede che l'Italia abbia "partecipato alla guerra", come
correttamente sostiene Prodi, bisogna ammettere che lo ha fatto
proprio
nascondendosi dietro la "missione di pace".

Dobbiamo sapere allora che non è possibile alcuna missione
legata alla
"ricostruzione" che non parta dalla fine dell'occupazione militare
anglo-statunitense.

La vicenda afgana è da questo punto di vista esemplare, perché
rappresenta
la "sperimentazione" di una forma di operazione militare basata
proprio
sulla divisione dei compiti tra "guerra" e "ricostruzione". Non
casualmente anche per l'Iraq si è parlato - analogamente a quanto
avviene
in Afghanistan - della costituzione di "Team di ricostruzione
provinciale", che dovrebbero essere protetti con le armi.



Ma quanto avviene in Afghanistan è ben diverso da quanto ci viene
presentato abitualmente. Dopo quasi cinque anni dai primi
bombardamenti
statunitensi non solo non è in corso nessuna "pacificazione" o
"stabilizzazione", ma la guerra e la violenza sono aumentate in
maniera
esponenziale - così come il numero di morti, anche civili - e la
guerriglia talebana e dei loro alleati è forte come mai in precedenza.

La situazione economica e sociale afgana non ha visto quasi
nessun
miglioramento (come si può leggere nell'articolo di Elaheh Rostami
Povey
in questo numero di G&P) e l'intervento di organizzazioni
internazionali e
non-governative non sembra in grado di sostenere alcuno sviluppo,
rischiando al contrario di favorire un processo di concentrazione
dell'economia nelle mani delle multinazionali straniere e dei signori
della guerra.

È in questo quadro che nel mese di marzo l'Amministrazione
statunitense ha
deciso di ritirare gran parte dei propri militari dalla zona meridionale
dell'Afghanistan, dove maggiore è la pressione talebana, dentro un
progetto di ridisegno della propria strategia a tutto campo,
nell'insieme
vasto di quella regione che gli Usa amano definire "grande Medio
Oriente".
L'amministrazione Bush sceglie quindi di concentrare
maggiormente la sua
presenza su Kabul e nelle diverse basi militari che si stanno
consolidando
in tutto il paese, e di chiedere alla Nato un impegno maggiore
direttamente in missioni di combattimento. Richiesta
immediatamente
accettata dal governo britannico del fido Blair (che l'ex presidente
Clinton vorrebbe vedere alla carica di Segretario dell'Onu!) e dai
governi
canadese e olandese, che hanno già inviato oltre 7.000 soldati nel
sud del
paese per sostituire i 2500 statunitensi.

Ma anche l'Italia potrebbe assumere un ruolo sempre maggiore in
Afghanistan, magari non inviando altri contingenti militari ma
attraverso
un diverso utilizzo di quelli già presenti, con l'ausilio anche di
maggiori mezzi militari. Questa tendenza ci sembra confermata
dalla
notizia dell'invio di sei cacciabombardieri Amx, che avranno il
compito di
supporto alle missioni terrestri, anche nel quadro dell'operazione
"Enduring freedom".

In questo modo tende a scomparire ogni confine - al quale non
abbiamo mai
creduto - tra una missione di guerra e una di "peacekeeping", e la
Nato si
troverà presto a gestire direttamente operazioni di combattimento.

La missione militare italiana in Afghanistan, così come la
partecipazione
italiana all'occupazione in Iraq, sono totalmente inserite - come
sempre
in maniera subalterna - nella complessiva strategia di "guerra
permanente"
degli Stati uniti, che rischia di estendersi verso nuove e ancora più
pericolose avventure in Iran.

È quindi tenendo conto di questa cornice che deve essere
collocata la
scelta di un ritiro dei soldati italiani dall'Iraq e dall'Afghanistan: non
è possibile pensare ad alcun ruolo positivo delle forze armate
italiane,
perché queste agiscono in sintonia con le strategie statunitensi e
Nato, e
ancora una volta la "copertura" dell'Onu rappresenta solamente la
foglia
di fico dietro la quale nascondere i reali interessi strategici e le reali
intenzioni statunitensi.

Non possiamo credere a chi ci racconta che i militari italiani sono
necessari alla protezione della popolazione afgana e al processo di
democratizzazione, perché il proseguimento della guerra Usa in
Afghanistan
- e la loro alleanza con i fondamentalisti dell'Alleanza del Nord e i
signori della guerra - stanno trascinando la popolazione afgana verso un
nuovo baratro, così come la strategia in Iraq - e i crimini di guerra in
essa commessi - hanno aperto la strada a sempre maggiore violenza e
invivibilità.



Le quotidiane dichiarazioni di esponenti della maggioranza governativa e
dei vari partiti dell'Unione - con Verdi, Pdci e Rifondazione che
insistono con la richiesta di un ritiro in tempi brevi e i moderati che al
contrario invitano alla "flessibilità" per mantenere comunque il ruolo
italiano in Iraq, discutendolo con gli alleati - sono il segno di una
scelta non ancora definita.

Al movimento contro la guerra, quello che in Italia ha manifestato fin
dall'ottobre 2001 "contro la guerra senza se e senza ma" (cioè "con o
senza l'Onu") rimane il compito di rilanciare con forza la sua iniziativa.
E ha cominciato a farlo con l'appello sottoscritto dalla maggior parte
delle associazioni e reti del movimento contro la guerra. Un appello che
recita: "Chiediamo al nuovo Governo e al nuovo Parlamento di iniziare la
legislatura dando un segnale forte di inversione culturale rispetto alla
militarizzazione della società e della politica: si smetta di coprire il
ruolo delle forze armate impegnate in operazioni di guerra e in
occupazioni con la maschera degli interventi umanitari e di
peace-keeping... è urgente che l'Italia separi le proprie responsabilità
dall'occupazione illegale dell'Iraq e dalla guerra permanente e si impegni
con una forte iniziativa diplomatica per ristabilire sovranità, pace e
convivenza nell'area. è urgente che si pronunci contro qualsiasi
intervento militare contro l'Iran, si impegni per un piano generale di
disarmo nucleare, per la fine dell'occupazione in Palestina e una
pace
giusta in Medio Oriente. Chiediamo che non siano rifinanziate le
missioni
in Iraq e in Afghanistan, che si ritirino immediatamente i soldati
italiani e si ridiscutano tutte le missioni militari italiane all'estero".

Piero Maestri