[Fwd: PACE E COSTITUZIONE ITALIANA] Giuseppe Dossetti



-------- Messaggio Originale  --------
Da: Paolo Email <paolozuliani at email.it>

Invio due articoli redatti, in anni non sospetti, da Giuseppe Dossetti - uno dei "padri costituendi" e, negli ultimi anni della sua vita, monaco - sul senso della Costituzione Italiana come risposta pacificatrice agli orrori della Seconda Guerra mondiale. Tratto da "Aggiornamenti sociali", che su tale argomento propone un interessante dossier.
www.aggiornamentisociali.it

Un punto di vista illuminato che propone un ragionamento "alto", da meditare con attenzione.
Mandi!
Paolo Zuliani
Aggiornamenti sociali, n. 7-8 (luglio-agosto) 1995, pp. 489-504

1
LA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA OGGI
G I U S E P P E DO S S E T T I
A Bari (13 maggio) e a Napoli (20 maggio), l’associazione “Città dell’uomo” ha riproposto nel Sud
d’Italia due convegni sulla falsariga di quello che aveva tenuto il 21 gennaio scorso a Milano all’insegna del titolo “La Costituzione della Repubblica oggi. Principi da custodire, istituti da riformare”, raccogliendo intorno a don Giuseppe Dossetti un gruppo di studiosi — soprattutto costituzionalisti e amministrativisti — di fama nazionale. Ma non si è trattato di una mera riproposizione dei medesimi contenuti, sia perché il dibattito politico-costituzionale è andato avanti, sia perché si è avuto cura di attingere alle migliori risorse intellettuali delle università del Sud, sia infine perché lo stesso Dossetti ha proposto una disamina accurata e aggiornatissima delle posizioni in materia, situandole altresì sullo sfondo di un ripensamento critico circa il nesso che unisce la lotta di liberazione alla Costituzione repubblicana. Il testo che proponiamo qui di seguito — pronunciato a Bari — testimonia ancora una volta quanto lucida, informata e appassionata sia la parola di questo autorevole “padre della Repubblica”, che sente il dovere di accompagnare la nostra difficile transizione. Nelle riflessioni proposte da Dossetti la nostra rivista sostanzialmente si riconosce (*).

1. La Costituzione come Patto nazionale.
Gaetano Salvemini (valente storico, appassionato meridionalista, primo grande assertore dei
diritti e della promozione dei contadini meridionali) ha parlato, nelle sue Lettere dall’America,
della Costituzione italiana come di un pateracchio.
Ma questo giudizio non si fonda su un esame obiettivo del testo costituzionale e sull’esatta
contestualizzazione storica di esso. È un giudizio che dipende dall’impressione globale
prevenuta, e soprattutto da una radicale avversione per il Partito Comunista, la cui sola rilevante presenza nell’Assemblea Costituente faceva presumere al Salvemini una volontà e una forza di imposizione negoziale, deviante da quella linea di democrazia azionista che egli vagheggiava.
C’era ancora in lui, malgrado tutto, e malgrado i suoi innegabili meriti passati, una formale
propensione verso una democrazia elitaria, che si scontrava con la realtà sopravvenuta in Italia,
durante il suo esilio ventennale in America, e cioè la realtà dei grandi movimenti di massa,
inevitabile conseguenza, fra le altre, del conflitto mondiale appena terminato.
In precedenti discorsi sulla nostra Costituzione del ’48, ho cercato di dimostrare ampiamente
come dall’evento guerra, veramente il più immane della storia dell’umanità — per numero di
vittime (oltre 55 milioni, di fronte ai 9 milioni e mezzo della prima guerra mondiale), per
estensione geografica, per globalità ideologica, per vastità di distruzioni, e per conseguenze in
ogni ordine della vita economica, sociale e persino religiosa —, fosse venuta una disposizione di
animo alla fine più profonda ed equa, che, al di là delle frange estremistiche e delle singole
divergenti od opposte ideologie, predisponeva gli animi di tutti all’accordo su un testo che
raccogliesse il più vasto consenso possibile (di fatto quel testo fu approvato con una
maggioranza del 90% dei membri dell’Assemblea Costituente).
Cioè, questo Patto non è stato un qualunque compromesso o un semplice effimero espediente,
ma il risultato di una sinergia costruttiva (al di là dei contrasti politici, anche molto aspri e
talvolta persino cruenti) che l’ottica mondiale dei recenti eventi bellici, e ancora la scala pure
mondiale della necessaria ricostruzione, imponeva, malgrado tutto, ai Costituenti. Questi
potevano essere, sì, suscettibili a tutte le tentazioni banalmente compromissorie, ma erano anche
più profondamente e intimamente necessitati, tanto dalla lezione del recente tragico passato,
quanto dall’urgenza e dall’imponenza dei compiti dell’immediato futuro, a cercare un accordo
più stabile, al di là delle loro immediate preferenze: accordo di validità universale, oltre il
nostro ambito nazionale, e quindi ancorato a principi generali di umanità e di civiltà più
vastamente ammessi, capaci in qualche modo di interpretare il comune sentire umano dopo la
grande catastrofe della guerra (tant’è vero che la prima parte della nostra Costituzione enuncia
principi e garanzie sui diritti e le libertà fondamentali della persona umana che possono stare alla pari con i più maturi enunciati al riguardo elaborati nelle sedi internazionali, con le successive dichiarazioni sui diritti umani).
Per queste ragioni la nostra Costituzione, malgrado tutte le sue imperfezioni, poté elevarsi alla
dignità di un vero Patto nazionale, in cui sono confluite le tre grandi tradizioni politiche del
nostro Paese: quella liberale, quella cattolica e quella socialcomunista.

2. Rapporto tra Costituzione e Resistenza.
Come ho già fatto in precedenti discorsi, così voglio ripetere ora, qui, parlando a un convegno
meridionale, quello che ho già detto due settimane fa, in una lezione accademica all’Università di
Parma: cioè voglio avanzare qualche riserva su una connessione troppo stretta, o comunque
parziale, che si suole stabilire — specialmente da varie parti politiche, e talvolta in sensi opposti
— tra Costituzione e Resistenza armata del Nord.
Una certa connessione reale è evidente: sia per il personale politico che compose l’Assemblea
Costituente, spesso proveniente appunto dai movimenti resistenziali, sia sotto l’aspetto delle
ideologie perseguite dalle varie parti, sia infine sotto l’aspetto delle esperienze vissute dai singoli.
Ma si dimentica troppo spesso che, quando l’Assemblea Costituente si riunì, la Resistenza
armata era già totalmente conclusa, senza lasciare (a differenza della prima guerra mondiale)
residui vistosi e ingombranti di reducismo; ed era sorpassata di fatto dalla più vasta
consapevolezza dei problemi immediati della ricostruzione oggettiva del nostro Paese, in senso
economico, sociale, giuridico e politico, sentiti nel quadro generale posto dalla problematica della ricostruzione postbellica occidentale.
Tutto questo fece, di fatto, emergere molto di più, nella coscienza comune, la resistenza
passiva di quella grande parte del popolo italiano che, pur non avendo partecipato ai movimenti
resistenziali e non essendosi schierata militarmente o politicamente, tuttavia aveva in concreto
resistito passivamente per anni nelle dure prove di una guerra sbagliata, che tutti coinvolgeva e
tutti, ora, elevava a sentimenti e a pensieri di scala più vasta, non solo localistica e non solo
regionale.
E fu così che anche uomini del Sud, che non avevano vissuto personalmente né la Resistenza
né la lotta partigiana, poterono dare un segnalatissimo contributo di unità e di creatività
pacifica nella stesura della Costituzione, in piena sintonia di sentimenti e di concetti con uomini del Nord. Ricorderò almeno tre nomi fra i non pochi: tre nomi il cui intervento è rimasto, nella Costituzione, storicamente decisivo, sia dal punto di vista tecnico-giuridico sia da quello politico: cioè Aldo Moro, pugliese, Costantino Mortati, calabrese, e Giorgio La Pira, siculo-fiorentino.
Concludendo: se è giusto — come io ritengo — insistere fortemente sull’evento guerra come
matrice originante della nostra Costituzione, può essere meno valido affermare, con troppa enfasi
e tanto meno in modo unilaterale, il nesso Resistenza-Costituzione, specialmente se si intende
Resistenza come “mito politico” di una sola parte (quella comunista), secondo una certa
storiografia degli anni ’50, che è stata ormai, da più punti di vista, storicamente e con validi
argomenti contestata (1).
3. “Patriottismo della Costituzione”: la Carta costituzionale come fattore di unità nazionale.
Queste premesse mi consentono di affrontare un altro tema, cioè quello del contributo che la
Costituzione del ’48 ha dato, e potrebbe ancora dare, alla nostra unità nazionale.
Come è arcinoto, si discute oggi, da più parti, il processo formativo della nostra unità
nazionale, se ne rivisitano le varie fasi, e se ne evidenziano vari elementi di fragilità e di
debolezza: come il perdurare pluridecennale della cosiddetta “questione romana”; la divisione e
contrapposizione tra mondo cattolico e mondo laico, o forse meglio, tra integrismo cattolico e
anticlericalismo; e ancora il separatismo e l’opposizione di classe indotti dal socialismo prima, e
poi dal comunismo; la disgiunzione tra sentimento nazionale e libertà, indotta dal fascismo; e
infine la diversa occupazione straniera del Nord-Italia e del Sud, che ha aggravato le preesistenti differenze culturali, sociali, ecc.

Orbene, la Costituzione del ’48 — la prima non elargita, ma veramente datasi da una
grande parte del popolo italiano, e la prima coniugante le garanzie di uguaglianza per tutti e
le strutture basali di una corrispondente forma di Stato e di Governo — può concorrere a
sanare ferite vecchie e nuove del nostro processo unitario, e a fondare quello che, già
vissuto in America, è stato ampiamente teorizzato da giuristi e da sociologi nella Germania
di Bonn, e chiamato “patriottismo della Costituzione ” ( 2 ) .
Patriottismo che da un lato legittima la ripresa di un concetto e di un senso della Patria,
rimasto presso di noi per decenni allo stato latente o inibito per reazione alle passate enfasi
nazionalistiche che hanno portato a tante deviazioni e disastri; e che dall’altro — così come può
risultare dai supremi principi costituzionali sui diritti e sulle libertà della persona e dal suo
pluralismo istituzionale — non esclude nessuno, e anzi potrebbe risultare di ottima garanzia e
fruizione anche per le forze eredi di quelle che a suo tempo rimasero estranee e ostili al processo costituente. Forze che non si possono considerare come una parte soccombente, a cui la
Costituzione sia stata imposta da una presunta parte vincente; e che perciò dovrebbero e
potrebbero cessare di denigrarla e invece potrebbero accettarne, con vantaggio anche loro, i
risultati e le garanzie.
Credo fermamente che in questo momento tutte le parti (esclusa solo la Lega Nord, ostinata a
battere una sua propria strada) possano assumere la Costituzione del ’48 come un presidio di
difesa e di legalità comune a tutti, presidio non chiuso in se stesso, ma evolvibile in modo
omogeneo e con le procedure da essa stabilite, sì da potersi adeguare sempre di più alle necessità
e agli sviluppi di tutta la società italiana. Tutte le attuali parti politiche dovrebbero considerare la funzione che la nostra Legge fondamentale ha esercitato negli anni difficili della prima costruzione della nostra vita democratica: anni di divisioni profonde, ricollegantisi a una radicale spaccatura del mondo, tra Ovest ed Est; anni di contrapposizioni durissime tra i partiti che, pur lottando con indicibile asprezza, tuttavia mai pensarono di denunciare il Patto, e anzi proprio in virtù di esso riuscirono a mantenere le ragioni di una reciproca coesistenza.
Questo “patriottismo della Costituzione” può concorrere, per oggi e per domani, a un
rinsaldamento della nostra unità. Certo, posso convenire con Norberto Bobbio che questo
patriottismo si pone su un altro piano da quello del patriottismo nazionale: ma lo stesso Bobbio
ammette per lo meno che l’uno e l’altro patriottismo si possono completare e rafforzare a
vicenda. E che anche il “patriottismo della Costituzione” non deriva da un semplice contratto
paritario, ma si fonda, così come risulta dallo stesso testo, su alcuni principi ultimi non
negoziabili: esso può perciò costruire e garantire uno spazio sottratto alla negoziazione e al
semplice do ut des, e quindi uno spazio sottratto sia al conflitto politico sia alla contrattazione (3).
Quindi, in definitiva, esso può riuscire, come dicevo, a essere di garanzia per qualsiasi parte
politica, in qualunque situazione, di maggioranza o di minoranza, si venga essa a trovare.

4. Primato normativo della Costituzione.
Ma perché tutto questo possa realmente funzionare, occorre che le regole costituzionali
divengano costume, come giustamente aggiunge Bobbio, e cioè vengano riconosciute come
superiori ad ogni altra norma, e fondanti tutta la legalità del Paese, che altrimenti si
troverebbe scardinata nelle sue premesse e in preda a una deriva continua. Perciò Alessandro
Pace, dell’Università di Roma, ha emblematicamente dedicato la sua più recente fatica di
costituzionalista “A Giulio e Domitilla, dal loro nonno”, volendo significare la sua fiducia che
anche le giovanissime generazioni “possano condividere, un giorno, le aspirazioni sottese all’idea
della Legge superiore” (4).
Ma fu appunto contro questo concetto di “Legge superiore”, pietra angolare di tutto il sistema
della nostra legalità, che cominciarono, sin dai primi anni ’80, a scagliarsi tutti quelli che
avevano interessi, singolari o di gruppo, a farsi una loro legalità. Fu così che da più parti e ad
ogni livello istituzionale si parlò della Costituzione come di un “ferro vecchio”, e si instaurarono prassi corrosive non solo della moralità, ma anche di ogni forma di regola stabile della civile convivenza. Oltre a tutto questo, negli anni del craxismo e della inarrestabile decadenza democristiana, col pretesto della semplificazione istituzionale e del decisionismo, venne insinuata sempre più l’idea che tutti i mali della nostra società derivavano da un assetto costituzionale dal quale occorreva liberarsi, proprio come condizione preliminare di ogni risanamento etico e giuridico. Tanto era divenuto ferreo il circolo vizioso che si imponeva a un’ opinione sempre più acritica e diffusa, e che portò alla inconsulta ed affrettata ultima legge elettorale, votata senza la predisposizione di nessuna garanzia che assicurasse una ordinata e vera transizione verso l’utopico “nuovo”.
Di fatto, il “nuovo” si è rivelato subito, dal giorno stesso delle elezioni, come più vecchio e
degradato del “vecchio”. Il governo nuovo, uscito dalle elezioni, ha mostrato ad evidenza una
allergia sistematica per ogni regola e per ogni forma di controllo o di contrappeso sociale o
istituzionale, e ha ripetuto, aggravandoli, i danni e gli esiti negativi già imputati alla vecchia
partitocrazia.
La transizione si è arrestata e ora siamo giunti a un delicatissimo punto morto, che incombe su
tutto il sistema italiano: sul sistema culturale (per la presenza deviante non più delle vecchie
ideologie, ma di altrettanti ideologumena improvvisati, vuoti di contenuti teorici e storici); e,
conseguentemente, sul sistema morale, sociale, economico, politico e giuridico.

5. intangibilità dei principi e possibili revisioni della Costituzione.
Qualcuno incomincia, in queste ultime ore, a sperare che gli avvenimenti di tutto quest’anno
possano avere risvegliato le coscienze, o almeno stimolato una qualche ripresa di consapevolezza
(5): ma è certo che questa non può darsi e non può portare a esiti positivi, se non si ricomincia a pensare da molti il testo costituzionale vigente come “Legge superiore” contenente principi
non negoziabili, che possono e debbono presiedere e dare impulso anche all’attuale fase di
transizione, verso un “nuovo” più organico, più vero e più stabile, nel costume, nelle strutture e
nelle istituzioni della vita collettiva. A questo fine bisogna anzitutto abbandonare il vezzo di una facile denigrazione della Costituzione, e pensare, più che a cambiarla o a riscriverla in toto, a rimeditarla e ad applicarla veramente nelle parti che sinora hanno avuto insufficiente o distorta applicazione.
E successivamente, o congiuntamente, si può anche pensare a quelle revisioni puntuali che,
per comune consenso tra i costituzionalisti, si possono introdurre rispettando con grande lealtà la procedura fissata dall’art. 138 della Costituzione stessa.
Non si vogliono disconoscere i mutamenti oggettivi di grande spessore intervenuti dal
1945-47 ad oggi nella società nazionale: nei suoi dinamismi economici; nelle potenzialità,
positive e negative, del suo sviluppo; nei suoi impulsi e desideri, individuali e collettivi; nella stessa coscienza e gerarchia dei valori, da parte di donne e di uomini, di individui maturi e di giovani o adolescenti; e infine nelle forme associazionistiche.
Mutamenti che sono tanto più rilevanti, quanto più vengano considerati in un quadro
internazionale che, a sua volta, ha subìto modificazioni radicali: come, per esempio, la convulsa e ancora confusa disgregazione del grande blocco orientale; la faticosa e incerta costruzione di una Unione Europea, a quanto pare sempre più volta verso il Nord e tendente a una più accentuata
marginalizzazione del nostro Meridione e dell’intera area mediterranea; gli intrecci di esasperata
conflittualità nei Balcani e nel mondo slavo; il risveglio mondiale dell’Islam; l’inarrestabile
flusso emigratorio dall’Africa settentrionale islamizzata verso l’Europa e verso l’Italia; il mutato e problematico atteggiamento dell’America nei confronti dell’Europa; la mondializzazione del mercato, e sempre più in senso sfrenatamente capitalistico, ecc.
Ma a tutti questi mutamenti non si può dare una risposta in qualche modo adeguata o
pertinente solo con un “novismo” confuso e contraddittorio, ma con una revisione pacata e
graduale, se pure non timida e non esitante.

a) Riforma elettorale maggioritaria e sistema di garanzie.
Dovrei entrare ora più nel merito del discorso delle revisioni possibili. Anzitutto una
premessa. Occorre rifiutare la tesi che una sostanziale modifica della Costituzione sia già
avvenuta automaticamente con la sola adozione del sistema elettorale maggioritario.
Questa tesi viene proposta in una duplice forma. Nella forma rozza e arrogante in cui è stata
espressa per un anno dal cosiddetto Polo delle libertà e che non merita, qui, confutazione, ed è
stata di fatto ulteriormente smentita dal voto della maggioranza degli italiani nelle elezioni
regionali e amministrative del 23 aprile – 7 maggio.
E, invece, è proposta in una forma più raffinata da qualche autore od opinionista, per esempio
da Sabino Cassese: che, oltre a notare una certa tensione (ovvia, direi) tra la Costituzione — che
si fonda sul presupposto di un sistema elettorale proporzionale — e l’avvenuta adozione, ora, di
una legge elettorale maggioritaria, inoltre accentua, per così dire, la diagnosi degli effetti di
questa tensione, sino a dire che “dinanzi a questi problemi la Costituzione è impotente, anche
perché metà di questi problemi nasce proprio da essa: dal fatto che essa è ormai fuori centro, per
cui non costituisce più quel solido ancoraggio che una Costituzione deve assicurare” (6).
Queste affermazioni sono largamente gratuite: non derivano necessariamente dalle premesse
svolte, e neppure dal seguito del discorso di Cassese. Possono, al più, dimostrare che la riforma
elettorale è stata assolutamente incompleta, mentre, per sé, poteva benissimo (e lo può ancora,
sebbene tardivamente) essere completata con alcuni accorgimenti che l’avrebbero resa
compatibile con la vigente Costituzione: soprattutto nella linea delle garanzie aggiuntive a
tutela delle minoranze elette (che talvolta possono addirittura corrispondere, invece, a una
maggioranza dell’elettorato).
Si deve poi notare che tutto quello che Cassese in seguito scrive a proposito delle tesi
avanzate e praticate dal Polo nei mesi di governo, evidenzia la necessità che queste garanzie a
favore della minoranza non siano solo affidate a un corretto costume parlamentare, o alla buona
volontà delle parti, o anche alla legislazione ordinaria; ma che esse garanzie, ora, di fronte alle dimostrate forti inclinazioni “cesariste” o “bonapartiste” delle nuove forze emerse, urgono di essere anche costituzionalizzate: inserite, cioè, formalmente, nel testo costituzionale.
È questo, in ordine temporale e logico, il primo caso di revisione possibile e necessaria.
Senza attardarmi di più sul merito, dico semplicemente che sono in tutto d’accordo sul
progetto di Legge costituzionale n. 2115, d’iniziativa dei deputati Bassanini, Elia, Ayala e molti
altri. Esso, in quattro articoli, dispone maggioranze rafforzate per l’adozione dei regolamenti
delle Camere, per l’elezione del Presidente della Repubblica, per la nomina dei Giudici
costituzionali, e infine — assolutamente fondamentale — per le proposte di revisione
costituzionale ai sensi dell’art. 138 della vigente Costituzione.
Non solo mi dichiaro del tutto d’accordo: ma penso inoltre che tutti dobbiamo promuovere,
con ogni mezzo a noi possibile, un orientamento conforme e urgente dell’opinione pubblica. È
già il caso, hic et nunc, di una prima emergenza costituzionale. E poi si dovrebbe aggiungere, a
mio parere, una garanzia parimenti rafforzata per l’elezione dei membri del Consiglio Superiore
della Magistratura.

b) Disciplina antitrust dei mezzi di informazione e integrazione dell’art. 21 Cost.
Altro caso di urgenza resta la disciplina dell’antitrust, in generale, e più specificamente nel
caso della disciplina dei mezzi di informazione.
A quest’ultimo riguardo, si può sostanzialmente dire che sinora nulla sia stato fatto di quello
che sarebbe stato necessario fare sin da prima della campagna elettorale politica dell’anno scorso; e per di più, che molto, in senso contrario, è stato fatto dal governo del Polo, con l’effettivo pratico smantellamento e asservimento della RAI.
Siamo per ora ridotti, di fatto, a una condizione non di duopolio, ma di monopolio. Mi pare
doveroso ricordare anche qui quel che ho ricordato altrove, cioè quel che ha detto, esattamente 40
anni fa, un autentico liberale come Einaudi: “Il primo canone è che il male sociale ha le sue
origini nel monopolio; e che la lotta contro le ingiustizie e le diseguaglianze sociali ha nome di
lotta contro il monopolio. Il monopolio sta alla radice delle sopraffazioni dei forti contro i deboli”
(7).
Tutti gli strumenti sinora escogitati si sono rivelati non solo insufficienti, ma addirittura
velleitari. Lo stesso decreto-legge, che ha funzionato negli ultimi trenta giorni della più recente
campagna elettorale, sarà, ora, dopo la sentenza della Corte costituzionale del 10 maggio, in gran
parte inoperante: i rimedi immediati sembrano molto difficili.
Si evidenzia sempre più la necessità di una disciplina organica e radicale della materia, con
il divieto di assegnare a un privato la concessione di più di una rete.
E perciò appare ancora più indispensabile dare, per il momento, una risposta positiva ai
referendum abrogativi in materia di legge Mammì. Ma, posto anche questo esito positivo, che
vivamente auspichiamo, resterà sempre da pensare a una integrazione omogenea dell’art. 21
della Costituzione: integrazione omogenea ai principi di libertà dello stesso articolo, ma a sua
volta intesa non solo a tutelare, come è stato sinora, i soggetti attivi di una manifestazione di
pensiero, ma anche a garantire la possibilità concreta di libertà e di scelta dei soggetti passivi, specialmente quanto all’influsso di mezzi di comunicazione così potenti e sistematicamente suggestivi come gli attuali, non prevedibili alla data della Costituzione.

c) Riforma dello Stato: verso un federalismo moderato.
Altro argomento è quello della forma di Stato e del relativo grado di autonomia degli enti
inclusi, territoriali e non territoriali (cioè associazioni di ogni tipo). In sostanza, mi pare che un’opinione, ora abbastanza diffusa e ragionevole, si muova verso un federalismo moderato, sul
modello della Grundgesetz tedesca.
Rispetto al nostro ordinamento attuale, urge anzitutto la piena attuazione delle norme vigenti,
ancora non pienamente applicate; e inoltre si possono auspicare riforme incisive e avanzate, al
riguardo, purché si osservino alcune condizioni ben precise.

a) Anzitutto il rispetto di tempi necessariamente un po’ lenti (almeno qualche anno, come
auspicano gli studi della Fondazione Agnelli, purché ci sia un rapido e sollecito inizio); e sempre
l’osservanza rigorosamente leale delle procedure per la consultazione delle popolazioni
interessate: consultazioni previste dall’art. 132 relativo alle variazioni dei soggetti attuali (cioè del numero delle Regioni e del loro territorio); e previste soprattutto dall’art. 138 (per quanto riguarda l’allargamento delle funzioni e competenze oltre le materie ora fissate).

b) Il rispetto dei principi supremi immodificabili della nostra Costituzione: in particolare il
principio posto dall’art. 1 (l’Italia è “una” Repubblica, ed è una Repubblica “fondata sul lavoro”); e quello posto dall’art. 5 (che ribadisce l’affermazione della unità e indivisibilità della Repubblica, e a un tempo il principio delle autonomie locali e del decentramento amministrativo): ciò vuol dire che si dovrà rispettare il livello unitario del Governo, che consente di garantire gli obiettivi di uguaglianza delle condizioni di vita di tutti i cittadini, in qualunque regione vivano, e insieme si dovrà rispettare la diffusione, nel seno della società italiana, di una pluralità di centri decisionali, che consentano la più accentuata vicinanza tra governanti e governati.
Come osservazioni aggiuntive sottolineerei anzitutto che ancora più importante delle
variazioni costituzionali sul riparto delle funzioni tra Stato centrale e Regioni, può essere, e può risultare più realisticamente efficace, una coerente legislazione ordinaria, che si proponga
un’ampia e sistematica riforma di tutte le pubbliche amministrazioni, e il loro effettivo
decentramento locale: anche con l’attribuzione alle strutture amministrative regionali della
applicazione di leggi statali, oltre che di quelle regionali. Questo contribuirebbe in modo decisivo alla più adeguata e pronta comunicazione tra istituzioni e cittadini, e a un più proficuo raccordo fra gli enti sociali intermedi (enti di categoria ed enti di volontariato, ecc.) e gli enti territoriali di programmazione e di gestione.

In secondo luogo, osserverei che va evitato il nuovo centralismo, già abbastanza manifesto,
da parte delle Regioni, a danno dei Comuni: con una più chiara distribuzione delle funzioni tra
Regioni ed enti territoriali inclusi in esse.
In terzo luogo, più in senso generale, mi sembrano piene di buon senso e di realismo le parole
pronunziate recentemente da Francesco Paolo Casavola secondo cui un federalismo più
accentuato o più confuso potrebbe essere “anacronistico e contro tendenza rispetto ai processi
di espansione dell’economia, di intensificazione di tutela dell’ambiente, di evoluzione della
tecnologia delle comunicazioni, della rapidità dei trasporti, del movimento delle persone, della
domanda di eguaglianza nella erogazione dei servizi e nelle più essenziali prestazioni sociali” (8).
Infine, se mi può essere consentita qui una parola esplicita e doverosa a favore del
Mezzogiorno — guardando puntualmente all’attuale quadro di forze sul piano nazionale —,
esprimerei una valutazione molto severa nei confronti delle tesi e del comportamento della
Lega Nord. Anche le ultime dichiarazioni, dopo il secondo turno delle elezioni regionali,
dimostrano non solo la ribadita volontà di procedere per conto proprio, senza tener conto del
quadro politico generale, ma anche l’intenzione precisa di condizionare ogni suo atteggiamento,
su qualunque problema, all’accettazione previa, da parte di qualunque interlocutore, della propria
visione estrema del federalismo: ossia, in definitiva, di un federalismo tendenzialmente
secessionista, e comunque sempre mirato sull’interesse, grettamente concepito, della Padania, a
scapito di tutto il Centro-Sud.
Non credo che sia mai possibile per il nucleo duro della Lega, e della sua base più solida nelle
valli delle Prealpi, elevarsi a concepire come il Centro-Sud può essere altrettanto essenziale alla Padania, quanto si pretende che la Padania sia stata sinora necessaria al Centro-Sud, e ne abbia anzi sostenuto tutto il peso.
Non si considera abbastanza la reciprocità, malgrado tutto, del bisogno e del vantaggio
dell’unione fra le due parti, essenziale in tutti i sensi: quindi anche nel senso dell’apporto
umano, culturale, sociale e politico, ma non meno, tutto considerato, nel senso dello stesso
apporto economico. Un’Italia ridotta praticamente al solo Nord vedrebbe fortemente diminuita la
sua attuale importanza politica, che è certo — nonostante tutte le fragilità imputate al Meridione
— una importanza che risulta a un tempo dal fattore continentale e dal fattore mediterraneo: tale
congiunzione, che deve diventare sempre più una coniugazione armonica e valida dei due fattori,
è il proprio costitutivo imprescindibile dell’Italia e la ragione di tutta la sua rilevanza oggettiva, socio-economica, politica e culturale-spirituale.
Aggiungerei infine che queste considerazioni valgono in pieno per la Puglia: per quello che
può essere il suo apporto vivace e indispensabile all’unità nazionale: sia per la sua singolare
collocazione geopolitica, come sempre la storia ha dimostrato, tramite necessario (oltre Venezia)
tra il Nord d’Italia e l’Oriente mediterraneo; sia per la sua complementarità economica nei due
sensi, Nord-Sud e Sud-Nord; sia infine per il suo ricco apporto umano e culturale al genio
nazionale.

d) Riforma del Parlamento.
Per il Parlamento, credo che si stia ormai creando una opinione abbastanza comune contro
l’attuale bicameralismo paritario, che implica un dispendio enorme di energie e di tempo, e un
grande rallentamento dell’attività legislativa. Anch’io aderisco all’ipotesi della trasformazione
del Senato in Camera delle Regioni, o meglio delle Autonomie locali e delle grandi formazioni
sociali, riservando, per contro, alla Camera dei deputati la rappresentatività politica
generale.
Proprio della Camera dei deputati resterebbe il compito di conferire o revocare la fiducia al
Governo, e il compito dell’attività legislativa ordinaria. Il concorso della Camera delle Regioni
potrebbe essere chiesto normalmente per le leggi che incidano sistematicamente sui rapporti tra
Stato e Regioni; invece, per le altre leggi, tale concorso potrebbe essere solo eventuale, e
prevedere la prevalenza finale della Camera dei Deputati in caso di dissenso. Si potrebbe poi
sancire anche costituzionalmente il divieto di legiferare se non su contenuti di principio: e quindi riservare al Governo, abitualmente, la normazione regolamentare.
Dovrebbe aggiungersi anche una rigorosa disciplina del decreto-legge, prevedendolo solo
per ipotesi tassative, col divieto di emendamenti in sede di conversione, e il divieto di
reiterazione anche per mancata conversione nei termini, e non solo per un esplicito voto contrario
del Parlamento.
Infine, dovrebbe essere disciplinato l’esercizio del potere di bilancio del Parlamento,
vietando la presentazione di iniziative e di emendamenti comportanti aumento di spesa.

e) Revisione della forma di Governo all’interno del sistema parlamentare.
Passerei ora a dire il mio parere più specificamente sul problema del Governo. Anche se si
possono dire notevolmente attenuate le tesi presidenzialiste, tuttavia un certo presidenzialismo
gode ancora qualche favore, soprattutto in una certa parte politica, e in qualche autore, come per
esempio da ultimo il Cassese (9).
Come è risaputo, è possibile distinguere varie forme di Governo presidenziale. Anzitutto il
presidenzialismo degli USA, che alcuni continuano a idealizzare non solo astraendo dalla
situazione concreta del nostro Paese, ma anche ignorando le critiche e le tendenze revisioniste
che si vanno diffondendo negli stessi Stati Uniti. Il crescere in autorevolezza ed estensione delle obiezioni all’attuale sistema americano, ha portato recentissimamente negli USA al nascere di uno speciale comitato cosiddetto “per il sistema costituzionale”, dal quale emergono varie proposte tutte volte a innestare sul tronco del sistema presidenziale istituti tipici del sistema parlamentare. Sia pure senza approfondire, in questa sede, i risultati complessi della revisione ora ventilata in America, possiamo ricavarne per lo meno l’osservazione che neppure l’unico caso di sistema
presidenziale che ha garantito le libertà e i diritti civili e politici, può costituire un esempio
incoraggiante per uno Stato come il nostro, in cui il sistema parlamentare ha consentito un
costante processo democratico, non compiuto, ma certo non revocabile.
Le altre ipotesi di presidenzialismo vengono tutte dai Paesi del Sud America, con quali
esperienze concrete e risultati di libertà e di garanzia dei diritti civili e politici, tutti, credo, sappiamo: tanto che nessuno accenna a farsene un fautore.
Resta l’ipotesi del semipresidenzialismo francese, che può portare alla grave discrasia, come
è già avvenuto sino a questi ultimissimi giorni, della difficile “coabitazione” tra un Presidente
eletto da un certo schieramento e una maggioranza parlamentare antagonista; mentre i suoi
possibili vantaggi possono essere assicurati da una semplice revisione del nostro sistema
parlamentare.
Ci sarebbe infine da dire una parola del presidenzialismo “all’italiana” della proposta
Segni, per l’investitura popolare di un leader al vertice del potere esecutivo, prescindendo poi da qualunque contrappeso o controllo in tutto il periodo del suo mandato: un presidenzialismo,
quindi, che assomiglia a una monarchia elettiva, e di cui il professor Gianni Ferrara, dopo averne
fatto un’analisi acuta, conclude: “Si tratta di un sistema mai sperimentato, perché nessun
costituente, di nessun Paese al mondo, ha mostrato tanta insipienza da sceglierlo” (10).
Invece, io fermamente penso che sia conforme (anzi, secondo il professor Allegretti sarebbe il
solo conforme) (11) al principio fondamentale della nostra Costituzione sulla pluralità e
distinzione di centri di potere diffusi, il conservare il sistema parlamentare con alcune
revisioni e integrazioni, già adottate anche da Costituzioni più recenti, per rendere più stabile,
più coordinata e più efficiente l’azione del Governo.
Basterebbe quindi introdurre l’elezione parlamentare del Primo Ministro, sia pure
confermata dal Capo dello Stato, e soggetta solo alla sfiducia costruttiva da parte dell’Assemblea
che lo ha investito e che, togliendogli la fiducia, deve designare a un tempo un nuovo Primo
Ministro; nonché la nomina dei Ministri da parte del Primo Ministro, salvo un controllo di
competenza, regolato da norme precise. Aggiungendo poi il divieto del cumulo della funzione di
membro del Governo con la funzione di parlamentare, si realizzerebbe quella separazione tra il
potere esecutivo e il potere legislativo che anche il Cassese auspica.
Infine, oltre alle norme di revisione costituzionale sulla forma di Governo, si dovrebbe
affermare costituzionalmente l’indipendenza delle pubbliche amministrazioni dal potere
politico, cui certo spetterebbe sempre una funzione di indirizzo, ma affermandosi a un tempo la
responsabile autonomia delle amministrazioni nella realizzazione degli obiettivi proposti dal
potere governativo di indirizzo.

6. Procedura di revisione costituzionale nel rispetto dell’art. 138 Cost.
Quanto alla procedura necessaria per introdurre le revisioni suddette nella vigente
Costituzione, non può essere altra da quella prevista dall’art. 138 in ogni caso, e in modo
assoluto. Tanto meglio se, prima di iniziare qualunque tappa delle revisioni suddette, si potranno
adottare le precisazioni proposte dal già accennato progetto Bassanini-Elia sulla maggioranza
rinforzata a due terzi di ciascuna delle Camere, e le precisazioni intese a garantire l’omogeneità
dei quesiti sottoposti a referendum confermativo.
Torna qui l’opportunità di dire, a proposito di questo progetto Bassanini-Elia, che esso è
urgente e preliminare a ogni ipotesi di revisione costituzionale, e perciò dovrebbe
necessariamente essere incluso nell’agenda dell’attuale Parlamento, prima di un suo eventuale
scioglimento.
E per di più — come ha già sostenuto Franco Bassanini (12) — dovrebbe non essere difficile
raggiungere una intesa su queste norme preliminari, che potrebbero “dare a tutti, progressisti e
conservatori, la certezza che la vittoria della parte avversa non metterebbe a rischio i diritti, le libertà, le regole democratiche. E dunque una garanzia che la sinistra deve alla destra, e la destra alla sinistra. Una garanzia da dare prima delle elezioni, finché dura il velo di ignoranza sull’esito della competizione elettorale”.
E così, dopo tanti accesi e quasi furiosi dibattiti dell’ultimo anno, si avrebbe un risultato
finalmente pacato e concorde: cioè quella più vasta e costruttiva adesione di tutte le parti e
componenti politiche, che tenderebbe a eguagliare quella che si è avuta, cinquant’anni fa, subito
dopo la guerra, nel ’47, e riuscirebbe a dare alla revisione costituzionale il sigillo di un
rinnovamento unitario del nostro Patto nazionale.
Per qualunque altra strada fuori di questa, si imboccherebbe il “sentiero di guerra”, di
lacerazioni e divisioni, forse fatalmente inarrestabili.

7. Appello ai giovani: fiducia nel valore della Costituzione.
Alla fine, vorrei dire soprattutto ai giovani: non abbiate prevenzioni rispetto alla Costituzione
del ’48, solo perché opera di una generazione ormai trascorsa. La Costituzione americana è in
vigore da duecento anni, e in questi due secoli nessuna generazione l’ha rifiutata o ha proposto di riscriverla integralmente: ha soltanto operato singoli emendamenti puntuali al testo originario dei Padri di Philadelphia, nonostante che nel frattempo la società americana sia passata da uno Stato di pionieri a uno Stato oggi leader del mondo.
Non lasciatevi influenzare da seduttori fin troppo palesemente interessati, non a cambiare la
Costituzione, ma a rifiutare ogni regola.
Il mio Maestro, pugliese pure lui, giurista di eccezionale acume, ermeneuta egualmente
grande nel Diritto canonico come nel Diritto civile, Vincenzo Del Giudice, ripeteva di frequente
che tutte le leggi sono come le scarpe: troppo nuove, in principio, possono fare male al piede, ma
con l’uso, pian piano si assestano e divengono comode.
Non lasciatevi neppure turbare da un certo rumore confuso di fondo, che accompagna
l’attuale dialogo nazionale. Perché, se mai, è proprio nei momenti di confusione o di transizione
indistinta che le Costituzioni adempiono la più vera loro funzione: cioè quella di essere per tutti punto di riferimento e di chiarimento.
Cercate quindi di conoscerla, di comprendere in profondità i suoi principi fondanti, e quindi
di farvela amica e compagna di strada. Essa, con le revisioni possibili e opportune, può
garantirvi effettivamente tutti i diritti e tutte le libertà a cui potete ragionevolmente aspirare; vi sarà presidio sicuro, nel vostro futuro, contro ogni inganno e contro ogni asservimento, per qualunque cammino vogliate procedere, e qualunque meta vi prefissiate. E questo vale non solo per voi personalmente, ma può valere, allo stesso modo e con la stessa intensità, per tutto il nostro popolo.
Questo è un momento delicato e complesso, non solo all’interno, ma anche all’esterno:
intendo, per tacere d’altro, anche rispetto all’Europa.
L’Europa cerca se stessa, e non si trova. Anche il trattato di Maastricht langue e non procede.
Tanto che qualcuno tende a cercare, se non l’Europa, quello che dovrebbe essere il “nucleo duro”
di essa (cioè Germania, Francia, Olanda, Lussemburgo, e infine, nonostante tutto, il Belgio). E
l’Italia? Pochi anni fa avrebbe potuto concorrere paritariamente a questo nucleo duro. Ora,
invece, è molto vicina — se non si affretta a ristabilire anzitutto le sue finanze, a riordinare tutte le pubbliche amministrazioni, e a condurre una solida politica economica, statale e non statalista — a perdere sempre più peso (come sta dimostrando la sorte della nostra candidatura al Consiglio di Sicurezza dell’ONU): più ancora rischia di disgregarsi in un Nord sempre più attratto dalle vicine settentrionali (Germania e Francia) e in un Sud “affogato nel Mediterraneo arabobalcanico” (13).
Soltanto quel sano, forte, diffuso, “patriottismo della Costituzione” — cui accennavo sopra
— può essere una luce orientatrice e una forza aggregante, capace, concorrendo altri fattori, di
vivificare una nuova intesa fra tutte le componenti tradizionali del nostro popolo, e di
stimolare e presiedere a una ripresa collettiva che non ci faccia perdere, forse per sempre, l’ora
della storia.
NOTE
(*) I titoli dei paragrafi e i neretti del testo sono redazionali.
(1) Si veda per tutto questo la recentissima e valida sintesi di P. SCOPPOLA, 25 aprile.
Liberazione, Einaudi, Torino 1995, e gli Autori ivi citati, pp. 10-41.
(2) Cfr. G. E. RUSCONI, Se cessiamo di essere nazione, Il Mulino, Bologna 1993, cap. V.
(3) Cfr. N. BOBBIO, Due domande a G. E. Rusconi, in “Reset”, n. 13, gennaio 1995, pp. 16-
18. Quanto diciamo nel testo, mi pare che valga anche per rispondere allo scritto di E. GALLI
DELLA LOGGIA, La morte della Patria, in AA. VV., Nazione e nazionalità in Italia, Laterza, Bari
1994.
(4) A. PACE, La causa della rigidità costituzionale, CEDAM, Padova 1995.
(5) Cfr. S. RODOTÀ, Costituzione, in “Il Manifesto”, 27 aprile 1995.
(6) S. CASSESE, Maggioranza e minoranza, Garzanti, Milano 1995, p. 17 e passim.
(7) L. EINAUDI, Il buon governo, Laterza, Bari 1955, p. 119.
(8) F. P. CASAVOLA, Per discutere della Costituzione, relazione al Convegno MEIC e Parte
Civile, Roma, 23 marzo 1995.
(9) Cfr. S. CASSESE, Maggioranza e minoranza, cit., pp. 89-91.
(10) G. FERRARA, Presidenzialismo all’italiana: le ragioni di un dissenso, in “Nuova Fase”,
Roma 1994, n. 5, p. 61.
(11) Cfr. U. ALLEGRETTI, Il problema dei limiti sostanziali all’innovazione costituzionale, in
ID., Cambiare Costituzione o modificare la Costituzione?, Giappichelli, Torino 1995, p. 33.
(12) Cfr. F. BASSANINI, Come cambiare la Costituzione, in “La Repubblica”, 29 aprile 1995,
p. 8.
(13) Cfr. EDITORIALE, L’esperimento Framania, in “Limes – Rivista italiana di geopolitica”,
Aggiornamenti sociali, n. 7-8 (luglio-agosto) 1995, pp. 489-504
n. 2, 1995, pp. 7-12.


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Aggiornamenti sociali, n. 11 (novembre) 1994, pp. 697-710

LA COSTITUZIONE ITALIANA
Il valore di un patrimonio
GIUSEPPE DOSSETTI
Proponiamo qui l’intervento pronunciato da don Giuseppe Dossetti in un dibattito
pubblico, cui ha partecipato anche l’on. Nilde Iotti, il 16 settembre scorso a Monteveglio
(Bologna), a conclusione del primo incontro nazionale dei comitati per la difesa della
Costituzione formatisi in seguito alla proposta avanzata dallo stesso Dossetti alla vigilia
dell’anniversario della liberazione solennemente celebrato in Italia il 25 aprile scorso.
L’autore ricostruisce dapprima la singolare temperie culturale entro la quale la
Costituzione fu elaborata, poi passa in rassegna i principi supremi che la informano
rimarcando che essi non sono suscettibili di revisione, illustra ancora il valore della
rigidità della Costituzione e la connessa esigenza di preservare l’art. 138 che disciplina la
procedura (rafforzata) di revisione, infine mette in guardia dal referendum di chiaro
sapore plebiscitario prefigurato dalla Commissione di esperti istituita dal ministro Speroni
per la riforma della Costituzione. La nostra rivista — come risulta dall’editoriale di
apertura di questo fascicolo — sottoscrive in pieno le preoccupazioni e il punto di vista
dell’autorevole monaco già membro della Costituente (*).
1. Radicamento della Costituzione nell’evento storico della seconda guerra mondiale.
Mi si consenta una premessa che — in proporzione della durata complessiva del mio
intervento—non sarà breve.
Mi domando: donde è nata la Costituzione italiana entrata in vigore il 1° gennaio 1948?
Qual è la sua radice più profonda?
Alcuni pensano che la Costituzione sia un fiore pungente nato quasi per caso da un
arido terreno di sbandamenti postbellici e da risentimenti faziosi volti al passato.
Altri pensano che essa nasca da una ideologia antifascista di fatto coltivata da certe
minoranze, che avevano vissuto soprattutto da esuli gli anni del fascismo.
Altri ancora — come non pochi dei suoi attuali sostenitori — si richiamano alla
Resistenza, con cui l’Italia ha potuto ritrovare il suo onore e in certo modo si è omologata a
una certa cultura internazionale.
E così si potrebbe continuare a lungo nella rassegna delle opinioni o sbagliate o
insufficienti.
In realtà la Costituzione italiana è nata ed è stata ispirata — come e più di altre
pochissime costituzioni — da un grande fatto globale, cioè i sei anni della seconda guerra
mondiale.
Questo fatto emergente della storia del XX secolo va considerato, rispetto alla
Costituzione, in tutte le sue componenti oggettive e al di là di ogni contrapposizione di
soggetti, di parti, di schieramenti, come un evento enorme che nessun uomo che oggi vive o
anche solo che nasca oggi, può e potrà accantonare o potrà attenuarne le dimensioni,
qualunque idea se ne faccia e con qualunque animo lo scruti.
Che cosa è stata la seconda guerra mondiale?

Scusate se richiamo dati elementarissimi, che sono o dovrebbero essere presenti a tutti.
La seconda guerra mondiale è stata anzitutto sul piano oggettivo e fisico — di fronte ai
nove milioni di morti della “grande guerra” (1914-1918) — ben più di cinquantacinque
milioni di uccisi da azioni belliche (1); e segnò un coinvolgimento mai visto delle
popolazioni civili, massacrate dai bombardamenti aerei (si pensi che il solo bombardamento
di Dresda fece più di 100.000 vittime!), oppure deportate in massa, oppure esposte
continuamente al rischio dei rastrellamenti e delle rappresaglie.
Inoltre sempre sul piano oggettivo, la seconda guerra mondiale ha portato a un
mutamento mai verificatosi nella mappa del mondo: in Europa, in Asia, in Africa. Anzitutto
ha avviato il deciso declino delle tradizionali grandi potenze europee e anche dell’Europa
nel suo complesso; e ha dato vita a due blocchi mondiali contrapposti guidati, con ideologie
antitetiche e con schieramenti militarmente paurosi, dalle due nuove superpotenze. E
parallelamente essa ha portato al rivelarsi della debolezza intrinseca e della insostenibilità
morale dei grandi imperi coloniali, e perciò ha dato l’impulso decisivo a una quasi totale
decolonizzazione, e alla conquista progressiva dell’autonomia di molti Paesi nuovi in
Africa e in Asia: e per contro, al simultaneo affacciarsi di due vecchie entità in passato
apparse dormienti e ora avviate a rivelarsi come protagonisti mondiali, cioè la Cina e
l’India, con un totale di due miliardi di soggetti.
E ancora: sul piano delle idee la seconda guerra mondiale è stata la sconfitta di tutta la
cultura romantica e di molti dei suoi derivati, e per contro l’affermazione, in larga parte
dell’umanità, del “marxismo realizzato”.
Come pure è stata l’inizio e il progresso di costumi e di modi di vita, individuali e
collettivi, radicalmente mutati, assai più di quanto non sia avvenuto in proporzione con la
“grande guerra”: costumi e modi di vita diffusamente permeanti ovunque, dalle metropoli
ai villaggi, dall’America all’Africa e all’Asia, in conseguenza dei nuovi mezzi di
comunicazione sociale, la televisione soprattutto.
E infine la seconda guerra mondiale è stata l’eccezionale incremento di nuove
tecnologie e quindi l’inizio di un balzo incommensurabile negli oggetti, nella intensità e
nelle forme della produzione industriale, con complesse, sempre più complesse
conseguenze nella trama e nell’ordito dell’economia e della finanza delle nazioni e in
quella internazionale.
Ma correlativamente non sono mancate anche novità decisive che la seconda guerra
mondiale ha implicato o avviato sul piano delle grandi religioni: anzitutto con un fatto
ancora di incalcolabile importanza spalancando la strada al “sionismo realizzato” e al
ritorno di milioni di ebrei alla terra dei padri e alla loro lingua e cultura; e ancora
innestando nuovi fermenti critici e dinamici nel cristianesimo; e infine determinando, con
certe premesse economiche (petrolio) e sociali e nuove ideologie, il risveglio dei popoli
arabi e il conseguente rialzarsi mondiale dell’Islam.
Infine, proprio sulla soglia del suo termine, la seconda guerra mondiale ha lasciato in
eredità al futuro due oggetti che hanno condizionato l’ultimo mezzo secolo e che ancora
condizioneranno gli anni a venire:
– cioè la V2, il missile lanciato sull’Inghilterra a partire dal settembre 1944, costruito
dal giovanissimo ingegnere Wernher von Braun (che alla fine della guerra si consegnò agli
americani e che concorse in modo decisivo alla costruzione dei missili intercontinentali e
del missile Saturno che consentì lo sbarco sulla luna);
– e l’altro: la bomba atomica, esplosa per la prima volta a Hiroshima il 6 agosto 1945.
La congiunzione di questi due oggetti ha tenuto il mondo sotto l’equilibrio del terrore.
Tutte queste cose, se pure in diverse proporzioni di sviluppo, sono comprese o almeno
si sono iniziate tra il 1° settembre 1939 (invasione tedesca della Polonia) e il 2 settembre
1945, cioè quando — dopo i due roghi atomici di Hiroshima e di Nagasaki — il Giappone
accettò la resa senza condizioni agli americani: e la guerra ebbe allora davvero termine.
In questo enorme evento globale sono incluse anche le conseguenze che esso ha
provocato per l’Italia: più di 400.000 morti tra militari e civili; stragi e deportazioni senza
limiti; incalcolabili distruzioni e rovine (nel 1945 la produzione industriale era ridotta al
30% di quella del 1938; la produzione cerealicola a 41 milioni di quintali di fronte agli 81
milioni del 1938; l’inflazione era salita spaventosamente, da 22 miliardi di lire circolanti
nel 1938 a 319 miliardi nel 1945 che arrivarono nel 1949 a 869 miliardi); e ancora e
soprattutto l’aggravarsi culturale ed etico-sociale, oltre che economico-politico, dello
squilibrio tra il sud (occupato dagli alleati) e il nord (occupato per quasi due anni dai
tedeschi); e infine la distruzione di ogni tessuto e istituzione civile e politica.
Ma queste, che furono le conseguenze per noi italiani, vanno incluse nell’evento
“seconda guerra mondiale”: e non dovevano essere, nel 1945, e non possono neppure oggi
essere considerate a parte, ma vanno inquadrate e potenziate dalla considerazione
dell’evento mondiale in cui sono inseparabilmente inscritte.
2. La Carta costituzionale, espressione del comune consenso dei Costituenti.
E di diritto e di fatto questo evento mondiale fu ben presente sin dagli inizi ai lavori
precostituenti e costituenti.
I lavori preparatori guidati dal ministero della Costituente (ministro Nenni) non
potevano non risentire di questa atmosfera globale: in particolare nella cosiddetta
Commissione Forti sulla Riorganizzazione dello Stato, insediata il 21 novembre 1945, cioè
a pochissimi mesi dalla fine della guerra e dal suo ultimo episodio, le bombe atomiche di
Hiroshima e Nagasaki. I lavori della Commissione Forti non rimasero chiusi e sigillati nel
ministero della Costituente, ma ne fu dato regolarmente conto in un apposito bollettino di
informazione, cosa che si augurerebbe ancora oggi per la cosiddetta Commissione Speroni.
Perciò il clima della Commissione Forti, almeno nelle sue idee essenziali, non poteva
non trasmettersi all’Assemblea Costituente eletta a un semestre di distanza (il 2 giugno
1946) che, con il contemporaneo referendum istituzionale, metteva fine alla monarchia e
dava inizio alla repubblica.
Anche il più sprovveduto o il più ideologizzato dei Costituenti non poteva non sentire
alle sue spalle l’evento globale della guerra testé finita. Non poteva, anche se lo avesse
cercato di proposito in ogni modo, dimenticare le decine di milioni di morti, i mutamenti
radicali della mappa del mondo, la trasformazione quasi totale dei costumi di vita, il
tramonto delle grandi culture europee, l’affermarsi del marxismo in varie regioni del
mondo, i fermenti reali di novità in campo religioso, la necessità impellente della
ricostruzione economica e sociale all’interno e tra le nazioni, l’urgere di una nuova
solidarietà e l’aspirazione al bando della guerra.
Quindi l’acuirsi delle ideologie appena ritrovate e l’asprezza dei contrasti politici tra i
partiti appena rinati, e lo stesso nuovo fervore orgoglioso determinato dalla coscienza
resistenziale non potevano non inquadrarsi, in certo modo, in più vasti orizzonti, al di là di
quello puramente paesano e non poteva non inserirsi anche in una nuova realtà storica
globale a scala mondiale.
Insomma, voglio dire che, nel 1946, certi eventi di proporzioni immani erano ancora
troppo presenti alla coscienza esperienziale per non vincere, almeno in sensibile misura,
sulle concezioni di parte e le esplicitazioni, anche quelle cruente, delle ideologie
contrapposte e per non spingere in qualche modo tutti a cercare, in fondo, al di là di ogni
interesse e strategia particolare, un consenso comune, moderato ed equo.
Perciò, la Costituzione italiana del 1948 si può ben dire nata da questo crogiolo ardente
e universale, più che dalle stesse vicende italiane del fascismo e del postfascismo: più che
dal confronto-scontro di tre ideologie datate, essa porta l’impronta di uno spirito universale
e in certo modo transtemporale.
È qui il luogo di ricordare che questa base di largo consenso — nonostante i dibattiti
assai vivaci lungo il corso di tutti i lavori e gli antagonismi che dividevano allora il Paese
— portò a una votazione finale del testo della Costituzione che raggiunse quasi il 90% dei
componenti dell’Assemblea Costituente.
Non solo emblematicamente ma effettivamente la triplice firma apposta alla sua
promulgazione il 27 dicembre 1947 sta a significare in modo causativo la coscienza
unitaria dalla quale nasce: la firma di Enrico De Nicola, capo provvisorio dello Stato,
erede della tradizione liberale; la firma di Umberto Terracini, Presidente dell’Assemblea
Costituente e fondatore, con Gramsci e Togliatti, del Partito Comunista Italiano; e la firma
di Alcide De Gasperi, Presidente del Consiglio e già primo successore di Sturzo alla
segreteria del Partito Popolare.
3. La Costituzione, legge suprema dell’ordinamento repubblicano.
Le premesse fatte erano necessarie per ben comprendere e motivare il carattere,
spettante alla nostra Costituzione, di legge prima e suprema di tutto l’ordinamento
repubblicano, dal 1948 in poi. Questo carattere è a un tempo:
– estrinseco, cioè relativo alle circostanze eccezionali che hanno maturato e fatto
adottare la nostra Carta fondamentale, circostanze ben difficilmente riproducibili o
equiparabili a qualunque altro evento-matrice della nostra storia;
– e insieme intrinseco alle disposizioni che la compongono, particolarmente, ma non
solo, quelle della prima parte, che concerne le garanzie dei diritti fondamentali di ogni
cittadino.
Questo carattere di legge superiore è rafforzato dalla speciale disposizione (art. 138) che
ne assicura (come si dice) la rigidità. Rigidità che non vuoi dire immodificabilità assoluta,
ma che è una modificabilità speciale, cioè ottenibile solo con un procedimento tutto
particolare, rafforzato rispetto al procedimento richiesto per qualunque altra legge o
deliberazione degli organi dello Stato.
Per essere ancora più concreti e più espliciti, si può convenire sulla opportunità, oggi, di
certe modifiche nelle funzioni e nella struttura delle Camere, nel rafforzamento della figura
del Presidente del Consiglio nei confronti dei partiti e dei singoli ministri, nell’ampliamento
anche forte dei poteri delle Regioni, ecc.
Ma è importantissimo essere ben chiari sul principio rigoroso che tali modifiche non
possono avvenire altro che con la piena osservanza della procedura legittima prescritta
dall’art. 138.

E questo tanto più va detto e ribadito perché la cultura superficiale e facilona che si è
andata formando negli ultimi anni sta perdendo questa coscienza e tende pian piano ad
ammettere, almeno implicitamente o surrettiziamente, uno snervamento del principio (cioè
indipendentemente, ripeto, dalle possibili e opportune riforme attuabili con l’iter prescritto),
snervamento che implicherebbe ulteriori gravi affievolimenti di tutto il nostro ordinamento
giuridico e sociale: con le ovvie conseguenze di una labilità generale dei diritti e dei doveri
personali e comunitari, e di uno sviamento aggravato della coscienza etica collettiva.
4. Principi basilari e intangibili della Costituzione.
Ed ora possiamo passare in rassegna alcuni principi fondanti della nostra Carta, che
sono espressione del grande evento in cui essa si radica e che sono tuttora adeguati ai
bisogni e ai caratteri della nostra società di oggi e a quelli che si intravedono per il futuro.
1. Primo principio: quello della unità e indivisibilità del popolo italiano, e per
conseguenza della sua espressione statuale, cioè della Repubblica Italiana (artt. 1 e 5).
Nel momento costituente non erano ignote spinte tendenzialmente secessionistiche: non
solo di qualche minoranza etnica al confine settentrionale od orientale, ma anche di una
grande regione dell’estremo Sud.
L’indipendentismo siciliano aveva anzi una sua rappresentanza alla Assemblea
Costituente.
Perciò fu quella un’occasione per prendere coscienza approfondita delle cause storiche,
remote e recenti, e delle motivazioni in atto, sul piano sociale e politico, di queste tendenze
secessionistiche. E fu anzi l’occasione di incominciare, per quel che vi poteva essere di
giusto, a dare loro soddisfazione, provvedendo con gli statuti regionali speciali, che ne
soddisfacevano le esigenze più vere, ma a un tempo ribadivano con ben meditata e pacata
fermezza e con rinnovate motivazioni l’unità e indivisibilità di tutto il popolo italiano.
Di fatto il nostro popolo era uscito dalla seconda guerra mondiale, dall’occupazione
straniera, dalla prolungata divisione in due tronconi e dalla Resistenza, era uscito, dico,
cementato — al di là di tutti i problemi e gli squilibri vecchi e nuovi — e più consapevole
della sua fondamentale coesione nazionale, etnica, culturale e sociopolitica.
A questa fondamentale unità, nelle intenzioni dei Costituenti e nel dettato della
Costituzione, non si oppone — anzi si potrebbe dire che la convalida e la rende più piena e
più ricca — il riconoscimento e ancor più il promovimento delle autonomie locali (artt. 5 e
114 ss.).
(Anche se poi occorre soggiungere subito che questa parte della Costituzione ha trovato
di fatto lenta, faticosa e ancora incompleta attuazione da parte del nostro legislatore).
Ma insieme occorre riconfermare in questa sede quanto ha scritto Giorgio Napolitano su
“La Repubblica” del 13 maggio 1994, e cioè che “il discorso del federalismo va collocato
all’interno del principio dell’unità e indivisibilità della Repubblica: questo infatti è uno dei
principi costituzionali che non solo non si debbono da parte delle sinistre, ma non si
possono da nessuna parte mettere in gioco”.
2. Il principio personalistico: garantito per tutti i cittadini. In ognuno la Costituzione
riconosce il valore insopprimibile e inviolabile della persona umana, e quindi della pari
dignità sociale ed eguaglianza davanti alla legge, senza nessuna distinzione di sesso, di
lingua, di religione, di opinioni politiche, di posizioni personali e sociali (art. 3).
Da questo principio supremo la Costituzione deriva, prima di tutto, il diritto al lavoro (e
perciò appunto la Repubblica è detta fondata sul lavoro: art. 1), e tutti gli altri diritti civili:
libertà personale, inviolabilità del domicilio, libertà e segretezza della corrispondenza,
libertà di circolazione e di soggiorno, libertà di riunione, di associazione, di professione
religiosa, di propaganda e di culto, di pensiero, di stampa (tit. I).
Al medesimo principio si riconnettono anche tutti i rapporti sociali e le relative libertà
(tit. II: e in particolare il diritto alla famiglia e alla salute e alla scuola), e i rapporti
economici (tit. III: e in particolare la libertà sindacale e la libertà di sciopero).
Tale garanzia costituzionale dei diritti civili, sociali, economici, politici è concepita
dalla nostra legge fondamentale non come un riconoscimento statico, ma come una realtà
dinamica, in via di sviluppo, cioè i diritti fondamentali devono essere assicurati dalla
Repubblica:
– in modo negativo, rimovendo gli ostacoli di ordine economico-sociale che possono
ridurre di fatto la libertà e l’eguaglianza;
– in modo positivo, favorendo il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva
partecipazione di tutti ai vari livelli della vita del Paese (artt. 3 e 4).
Di più si deve aggiungere che per non pochi di queste libertà e diritti, secondo
l’opinione oggi del tutto prevalente tra i costituzionalisti (meno una piccola minoranza),
non si può dare rivedibilità costituzionale restrittiva, neppure nella forma prescritta dall’art.
138.
Può essere messa in dubbio solo la delimitazione delle disposizioni sottratte alla
rivedibilità costituzionale, ma la immodificabilità assoluta è stata riaffermata da varie
sentenze della Corte.
Prima di tutto affermando, a proposito dell’art. 7 (che introduce il riconoscimento dei
Patti Lateranensi), che questi Patti non potessero comunque violare le libertà fondamentali
e i principi supremi della Costituzione.
Poi, a proposito dell’art. 11, riaffermando lo stesso concetto a proposito
dell’ordinamento comunitario europeo.
Infine, nella sentenza n. 1146/1988, la Corte ha affermato: “la Costituzione italiana
contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro
contenuto essenziale, neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi
costituzionali. Tali sono tanto i principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede
come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quali la forma repubblicana (art.
139), quanto i principi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non
assogettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all’essenza dei
valori supremi sui quali si fonda la Costituzione. [...] Non si può pertanto negare che questa
Corte sia competente a giudicare sulla conformità delle leggi di revisione costituzionale e
delle altre leggi costituzionali, anche nei confronti dei principi supremi dell’ordinamento
costituzionale”.
E un’altra sentenza, la n. 366/1991, ha affermato: “In base alI’art. 2 della Costituzione,
il diritto ad una comunicazione libera e segreta è inviolabile, nel senso generale che il suo
contenuto essenziale non può essere oggetto di revisione costituzionale”.
3. Terzo principio: è la consistenza costituzionale attribuita a corpi intermedi — fra la
persona e lo Stato — territoriali e non territoriali: quali la famiglia, il Comune, la Provincia,
la Regione, le confessioni religiose, la scuola di vario ordine e grado, le università e le
accademie, i sindacati, gli ordini professionali, i partiti, le libere associazioni di opinione, di assistenza, di volontariato, ecc.
Anzitutto va fatta qualche osservazione a proposito dei corpi intermedi territoriali: i
Comuni, le Province, le Regioni (artt. 5 e 114 ss.). Ho già accennato che in materia si deve
constatare una grave carenza nella volontà politica, nei decenni passati, di attuare la
Costituzione in tutte le sue virtualità, sicché giustamente, da varie parti, si profilano
proposte per modificare la Costituzione, nel senso del riconoscimento di una più larga e
approfondita autonomia soprattutto delle Regioni: in particolare e con le proposte avanzate
dalla Lega Nord e con le proposte della sinistra, oggi formulate nel solco della
Commissione bicamerale della scorsa legislatura.
Nelle proposte della Lega soprattutto di pochissime macro-regioni, a parte la non
dissimulabile tendenza secessionistica, si deve rilevare l’irriducibile contraddittorietà
costituzionale al principio dell’unità della Repubblica. Inoltre potrebbero portare — come
già ha rilevato Stefano Rodotà — a una discriminazione dei diritti fondamentali dei
cittadini, secondo l’area in cui si trovano a vivere: specie il diritto alla salute, il diritto al
lavoro, il diritto all’istruzione.
Ma ancor più sono contraddittorie allo stesso principio da cui pretendono di muovere,
cioè di esaltare le autonomie locali, perché porterebbero ad affievolire o ad alterare
l’autonomia già raggiunta sinora da corpi intermedi (soprattutto le singole Regioni già ben
individuate, differenziate e funzionanti che verrebbero — comunque — da un lato
incorporate, e dall’altro gravemente pregiudicate nelle attuali loro relazioni paritarie con
altre Regioni incluse in una diversa macro-regione).
Al progetto della Commissione bicamerale si può per lo meno obiettare che, spingendo
— come è detto nella relazione che l’accompagna — “il regionalismo ai limiti del
federalismo”, non pare abbia tenuto conto di una norma che è nella Costituzione tedesca
(che oggi molti citano, forse senza averla letta), cioè l’art. 72 che attribuisce allo Stato
federale il compito di mantenere l’unità politica ed economica del Paese e l’eguaglianza
delle condizioni di vita dei cittadini “prescindendo dai confini territoriali di ogni singolo
Land”.
Questa o altra analoga norma non è detta esplicitamente nel progetto della bicamerale
per fornirne il senso profondo e la chiave di interpretazione generale.
Quanto invece ai corpi intermedi non territoriali, data la loro grande varietà di scopi, di
funzioni, di maggiore o minore immediatezza con la sfera di sviluppo della persona, può
essere difficile fare un discorso unitario generale: ma va almeno detto che alcuni di essi
presentano una insurrogabilità nativa che si connette strettamente ad alcune delle
prerogative più inviolabili della persona (esempio precipuo la famiglia: ma anche la scuola,
e anche le associazioni volontarie per certe forme particolarmente qualificate di assistenza),
e perciò si ricollegano a un altro principio fondamentale della nostra figura di Stato, che
appunto stiamo per illustrare.
4. Quarto principio: che potrebbe essere detto il principio non soltanto della separazione
dei tre poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario), secondo la dottrina classica dopo
Montesquieu, ma piuttosto della diffusione del potere fra una pluralità di soggetti distinti,
e dei reciproci contrappesi, e perciò di un più garantito equilibrio complessivo. Come
recentemente ha confermato Sabino Cassese, di fronte al pericolo di una dittatura elettiva
(quale quella che potrebbe immaginarsi da certi sprovveduti membri della maggioranza) o
per contro di un certo tipo di rafforzamento incontrollato dell’esecutivo, cioè del governo, il
potere nelle democrazie contemporanee, e così anche nella nostra Costituzione, tende a una
razionalizzazione e a distribuirsi in una pluralità di soggetti veramente di estrazione diversa
e tra loro indipendenti.
Si hanno così:
– poteri elettivi: il Parlamento, di una o due camere, elette in modo diverso, cui compete
la funzione legislativa vera e propria;
– ancora poteri elettivi concorrenti con i precedenti, ma in modo differenziato, per
estrazione e per competenze, cioè le assemblee regionali, che si devono integrare con
l’apporto delle Province e dei Comuni;
– poteri non elettivi, ma designati solo in base alla loro competenza tecnica, accertata
con pubblico concorso, assunti e soggetti a un ordine autonomo da ogni altro potere, per la
sola funzione giudiziaria, ed espressi e coordinati dal Consiglio Superiore della
Magistratura (di estrazione mista);
– altri poteri, per aree sottratte, nel loro specifico più proprio, all’indirizzo del governo,
e costituzionalmente garantite nella loro indipendenza: per esempio la scuola (art. 33);
– infine la stessa gestione amministrativa (non nel suo indirizzo e nel suo controllo) che
è compito proprio della burocrazia;
– da ultimo vi è il potere di garantire la Costituzione, affidato a un organo, la Corte
Costituzionale, che si potrebbe dire un vero e proprio contropotere: che può perciò
annullare persino decisioni del Parlamento (proveniente esso pure da un’investitura mista:
il Capo dello Stato, la Magistratura e il Parlamento).
Orbene, tale razionalizzazione del potere, cioè questa distribuzione del potere fra
soggetti adeguatamente distinti e contrappesati, è forse uno dei pregi più raffinati e delicati
della Costituzione italiana, ne costituisce un risultato positivo e davvero meritevole della
più gelosa salvaguardia, al di là di ogni riforma possibile.
È anche un condensato perfettamente sintetico di tutta la nostra vicenda storica e
dell’evoluzione istituzionale dell’ultimo secolo in Europa: potrà esigere qualche
perfezionamento (al massimo una figura più stabile ed effettivamente coordinatrice del
Primo Ministro), ma assolutamente non può essere giocata sull’onda di avventati
presidenzialismi che precipiterebbero il nostro alto livello costituzionale in una regressiva
catastrofe. Come pure non può essere messa in pericolo da qualunque riforma che intacchi
la totale indipendenza e unità (comprese le Procure) dell’ordine giudiziario.
Fra l’altro, può tornare a proposito una smentita energica di un bugiardo e
incomponibile abbinamento — oggi di moda nelle fantasie riformatrici di certe parti
politiche e nei discorsi più superficiali dei media —, cioè l’abbinamento federalismopresidenzialismo.
Come se avesse un minimo di razionalità. Non si avverte che, o si dà un
federalismo reale e forte, e allora non può esservi neppure l’ombra di un presidenzialismo
efficiente, ma solo una specie di vago direttorio collegiale delle cosiddette macro-regioni; o
si dà un presidenzialismo effettivo, e allora non si dà che una facciata di federalismo,
destinata, prima o poi, a mostrare la sua insostenibilità reale, cioè a sparire e ad essere
inghiottita dal potere accentratore dell’unico Presidente eletto dal popolo.
5. Rischi insiti nella modifica dell’art.138 sulla revisione costituzionale.
Per finire, dobbiamo ancora ritornare all’articolo 138 della Costituzione circa il modo
della sua revisione.
Il 24 agosto scorso il Governo ha presentato al Senato un progetto intitolato dapprima
Norme transitorie in materia di revisione costituzionale.
Si propone cioè una modificazione dell’articolo 138 (2). L’attuale articolo 138
prevede, per la definitiva approvazione delle leggi costituzionali, il referendum popolare
solo quando esse non siano state approvate nella seconda votazione prescritta delle due
Camere con la maggioranza di due terzi di ciascuna Camera, e facciano domanda del
referendum, entro tre mesi dalla pubblicazione della legge, un quinto dei membri di una
Camera, oppure 500.000 elettori, oppure 5 Consigli Regionali. La norma transitoria, che
dovrebbe essere adottata per le leggi costituzionali che saranno approvate nel corso della
presente legislatura, prevede comunque il referendum popolare.
Che dire? Può sembrare una concessione all’eventuale opposizione, e infine un
rafforzamento della rigidità costituzionale: può sembrare, come dice la relazione del
Governo, studiato perché i cittadini “possano partecipare pienamente al processo di riforme
del nostro sistema istituzionale, perché soprattutto le nuove regole, suggellate dal voto
popolare, divengano e siano sentite da tutti come patrimonio comune, come conquista
duratura entro cui proseguire proficuamente la nostra esperienza democratica”.
Ma anzitutto si può obiettare la stranezza di una norma transitoria da valere solo per
la presente legislatura: e per la prossima? Ci si vuole mettere forse al sicuro dalla
previsione di una alternanza nella maggioranza? Da qui il sospetto non irragionevole di una
norma di comodo per l’attuale maggioranza.
In secondo luogo, la concessione di un solo mese di tempo dalla pubblicazione della
legge all’indizione del referendum. Soprattutto nella previsione di una riforma organica di
tutta o di grande parte della Costituzione, come si può pensare che in questo lasso così
breve si possa prendere da tutti i cittadini una conoscenza adeguata del progetto, dare agli
esperti la possibilità di discuterlo, e sperare che le ragioni in contrario addotte dagli esperti
possano rifluire con serenità e diffusamente sull’opinione pubblica?
Questa è una obiezione assoluta al progetto: da fare valere in modo intransigente,
richiamando i tre mesi previsti dall’articolo 138. Altrimenti il sospetto ragionevole
diventerebbe certezza che tutto è preordinato per una riforma precipitosa sulla quale si
vuole carpire un consenso irriflesso della gente.
E poi nel merito: il referendum previsto dall’attuale articolo 138 è nell’intenzione dei
Costituenti un referendum oppositivo, perciò rimesso non alla iniziativa del Governo ma di
chi contesta la nuova legge costituzionale, mentre diventerebbe ora un referendum
confermativo: e questo sposta tutte le previsioni sul controllo della Corte
Costituzionale che deve garantire l’omogeneità e l’univocità del quesito sottoposto al
popolo.
La Corte Costituzionale ha più volte ribadito l’inammissibilità del referendum
abrogativo avente contenuto multiplo e disorganico, come è ovvio, per l’impossibilità degli
elettori di esprimersi alternativamente con un sì o un no chiaro. Ma tutto questo è relativo
all’oggetto dei referendum abrogativi, quali finora sono stati sempre i referendum sottoposti
al popolo.
Si avrebbe così l’assurdo di un requisito necessario per il meno, cioè per
l’abrogazione di una legge, e non per il più, cioè per l’introduzione di una revisione
costituzionale che potrebbe estendersi a una complessa pluralità di istituti. E che cosa
accadrebbe quando tra questi istituti ce ne fosse qualcuno (come il famoso tetto fiscale da
non oltrepassare) che può allettare il consenso di molti e può far passar sopra ad altre più
impervie riforme?
Ma, anche al di fuori di questa ipotesi limite, è ben chiaro che, proponendo all’elettore
una pluralità di oggetti, si tenderebbe a fare spostare l’attenzione dell’elettore non tanto sui
quesiti espliciti sottoposti, ma sul quesito implicito, cioè l’approvazione generale della
politica del Governo.
Il costituzionalista di Firenze Paolo Barile ha proposto che il controllo sul quesito
proposto al referendum confermativo, se proprio lo si volesse ritenere escluso dalla
competenza esplicita della Corte Costituzionale, venga comunque esercitato dalla Corte di
Cassazione in sede di Ufficio elettorale centrale; oppure che si possa sperare che il
Presidente della Repubblica rilevi di sua iniziativa, come garante della Costituzione,
l’inammissibilità di un referendum su un quesito complesso e disomogeneo; o che infine la
Corte Costituzionale possa essere investita di un conflitto istituzionale contro l’atto
presidenziale di indizione del referendum.
Ma lo stesso Barile si dichiara consapevole che il vero rimedio, la soluzione lineare,
sarebbe che il Parlamento varasse una modifica della legge del 1971 sul referendum, per
introdurre il controllo della Corte Costituzionale anche per il referendum
confermativo.
Sarebbe questo il modo, retto e chiaro, di dare una prova concreta di buona fede da
parte dell’attuale maggioranza.
Ma lo possiamo sperare?
NOTE
(*) I titoli dei paragrafi, i neretti nel testo e la nota 2 sono redazionali.
(1) Dati ricavati da B.LIDDEL HART - B.PITT, Storia della seconda guerra mondiale,
Rizzoli, Milano 1967, vol.VI, p.525 (trad. it. dell’originale inglese History of the Second
World War, Purnell, Bristol 1966, opera curata dall’Imperial War Museum di Londra).
(2) Per facilitare la comprensione delle osservazioni critiche sulla proposta governativa di
modifica dell’art. 138 Cost., riportiamo il testo integrale dell’articolo stesso: “Le leggi di
revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera
con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a
maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione.– Le
leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro
pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o
cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non
è promulgata, se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi.– Non si fa luogo a
referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere
a maggioranza di due terzi dei suoi componenti”.