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[Fwd: PACE E COSTITUZIONE ITALIANA] Giuseppe Dossetti
- Subject: [Fwd: PACE E COSTITUZIONE ITALIANA] Giuseppe Dossetti
- From: Marino <marino222 at virgilio.it>
- Date: Wed, 14 Jun 2006 14:22:58 +0200
-------- Messaggio Originale -------- Da: Paolo Email <paolozuliani at email.it>Invio due articoli redatti, in anni non sospetti, da Giuseppe Dossetti - uno dei "padri costituendi" e, negli ultimi anni della sua vita, monaco - sul senso della Costituzione Italiana come risposta pacificatrice agli orrori della Seconda Guerra mondiale. Tratto da "Aggiornamenti sociali", che su tale argomento propone un interessante dossier.
www.aggiornamentisociali.it Un punto di vista illuminato che propone un ragionamento "alto", da meditare con attenzione. Mandi! Paolo Zuliani Aggiornamenti sociali, n. 7-8 (luglio-agosto) 1995, pp. 489-504 1 LA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA OGGI G I U S E P P E DO S S E T T I A Bari (13 maggio) e a Napoli (20 maggio), l’associazione “Città dell’uomo” ha riproposto nel Sudd’Italia due convegni sulla falsariga di quello che aveva tenuto il 21 gennaio scorso a Milano all’insegna del titolo “La Costituzione della Repubblica oggi. Principi da custodire, istituti da riformare”, raccogliendo intorno a don Giuseppe Dossetti un gruppo di studiosi — soprattutto costituzionalisti e amministrativisti — di fama nazionale. Ma non si è trattato di una mera riproposizione dei medesimi contenuti, sia perché il dibattito politico-costituzionale è andato avanti, sia perché si è avuto cura di attingere alle migliori risorse intellettuali delle università del Sud, sia infine perché lo stesso Dossetti ha proposto una disamina accurata e aggiornatissima delle posizioni in materia, situandole altresì sullo sfondo di un ripensamento critico circa il nesso che unisce la lotta di liberazione alla Costituzione repubblicana. Il testo che proponiamo qui di seguito — pronunciato a Bari — testimonia ancora una volta quanto lucida, informata e appassionata sia la parola di questo autorevole “padre della Repubblica”, che sente il dovere di accompagnare la nostra difficile transizione. Nelle riflessioni proposte da Dossetti la nostra rivista sostanzialmente si riconosce (*).
1. La Costituzione come Patto nazionale. Gaetano Salvemini (valente storico, appassionato meridionalista, primo grande assertore dei diritti e della promozione dei contadini meridionali) ha parlato, nelle sue Lettere dall’America, della Costituzione italiana come di un pateracchio. Ma questo giudizio non si fonda su un esame obiettivo del testo costituzionale e sull’esatta contestualizzazione storica di esso. È un giudizio che dipende dall’impressione globaleprevenuta, e soprattutto da una radicale avversione per il Partito Comunista, la cui sola rilevante presenza nell’Assemblea Costituente faceva presumere al Salvemini una volontà e una forza di imposizione negoziale, deviante da quella linea di democrazia azionista che egli vagheggiava.
C’era ancora in lui, malgrado tutto, e malgrado i suoi innegabili meriti passati, una formale propensione verso una democrazia elitaria, che si scontrava con la realtà sopravvenuta in Italia, durante il suo esilio ventennale in America, e cioè la realtà dei grandi movimenti di massa, inevitabile conseguenza, fra le altre, del conflitto mondiale appena terminato. In precedenti discorsi sulla nostra Costituzione del ’48, ho cercato di dimostrare ampiamente come dall’evento guerra, veramente il più immane della storia dell’umanità — per numero di vittime (oltre 55 milioni, di fronte ai 9 milioni e mezzo della prima guerra mondiale), per estensione geografica, per globalità ideologica, per vastità di distruzioni, e per conseguenze in ogni ordine della vita economica, sociale e persino religiosa —, fosse venuta una disposizione di animo alla fine più profonda ed equa, che, al di là delle frange estremistiche e delle singole divergenti od opposte ideologie, predisponeva gli animi di tutti all’accordo su un testo che raccogliesse il più vasto consenso possibile (di fatto quel testo fu approvato con una maggioranza del 90% dei membri dell’Assemblea Costituente). Cioè, questo Patto non è stato un qualunque compromesso o un semplice effimero espediente, ma il risultato di una sinergia costruttiva (al di là dei contrasti politici, anche molto aspri e talvolta persino cruenti) che l’ottica mondiale dei recenti eventi bellici, e ancora la scala pure mondiale della necessaria ricostruzione, imponeva, malgrado tutto, ai Costituenti. Questi potevano essere, sì, suscettibili a tutte le tentazioni banalmente compromissorie, ma erano anche più profondamente e intimamente necessitati, tanto dalla lezione del recente tragico passato, quanto dall’urgenza e dall’imponenza dei compiti dell’immediato futuro, a cercare un accordo più stabile, al di là delle loro immediate preferenze: accordo di validità universale, oltre il nostro ambito nazionale, e quindi ancorato a principi generali di umanità e di civiltà più vastamente ammessi, capaci in qualche modo di interpretare il comune sentire umano dopo la grande catastrofe della guerra (tant’è vero che la prima parte della nostra Costituzione enunciaprincipi e garanzie sui diritti e le libertà fondamentali della persona umana che possono stare alla pari con i più maturi enunciati al riguardo elaborati nelle sedi internazionali, con le successive dichiarazioni sui diritti umani).
Per queste ragioni la nostra Costituzione, malgrado tutte le sue imperfezioni, poté elevarsi alla dignità di un vero Patto nazionale, in cui sono confluite le tre grandi tradizioni politiche del nostro Paese: quella liberale, quella cattolica e quella socialcomunista. 2. Rapporto tra Costituzione e Resistenza. Come ho già fatto in precedenti discorsi, così voglio ripetere ora, qui, parlando a un convegno meridionale, quello che ho già detto due settimane fa, in una lezione accademica all’Università di Parma: cioè voglio avanzare qualche riserva su una connessione troppo stretta, o comunque parziale, che si suole stabilire — specialmente da varie parti politiche, e talvolta in sensi opposti — tra Costituzione e Resistenza armata del Nord. Una certa connessione reale è evidente: sia per il personale politico che compose l’Assemblea Costituente, spesso proveniente appunto dai movimenti resistenziali, sia sotto l’aspetto delleideologie perseguite dalle varie parti, sia infine sotto l’aspetto delle esperienze vissute dai singoli.
Ma si dimentica troppo spesso che, quando l’Assemblea Costituente si riunì, la Resistenza armata era già totalmente conclusa, senza lasciare (a differenza della prima guerra mondiale) residui vistosi e ingombranti di reducismo; ed era sorpassata di fatto dalla più vasta consapevolezza dei problemi immediati della ricostruzione oggettiva del nostro Paese, in sensoeconomico, sociale, giuridico e politico, sentiti nel quadro generale posto dalla problematica della ricostruzione postbellica occidentale.
Tutto questo fece, di fatto, emergere molto di più, nella coscienza comune, la resistenza passiva di quella grande parte del popolo italiano che, pur non avendo partecipato ai movimenti resistenziali e non essendosi schierata militarmente o politicamente, tuttavia aveva in concreto resistito passivamente per anni nelle dure prove di una guerra sbagliata, che tutti coinvolgeva e tutti, ora, elevava a sentimenti e a pensieri di scala più vasta, non solo localistica e non solo regionale. E fu così che anche uomini del Sud, che non avevano vissuto personalmente né la Resistenza né la lotta partigiana, poterono dare un segnalatissimo contributo di unità e di creativitàpacifica nella stesura della Costituzione, in piena sintonia di sentimenti e di concetti con uomini del Nord. Ricorderò almeno tre nomi fra i non pochi: tre nomi il cui intervento è rimasto, nella Costituzione, storicamente decisivo, sia dal punto di vista tecnico-giuridico sia da quello politico: cioè Aldo Moro, pugliese, Costantino Mortati, calabrese, e Giorgio La Pira, siculo-fiorentino.
Concludendo: se è giusto — come io ritengo — insistere fortemente sull’evento guerra come matrice originante della nostra Costituzione, può essere meno valido affermare, con troppa enfasi e tanto meno in modo unilaterale, il nesso Resistenza-Costituzione, specialmente se si intende Resistenza come “mito politico” di una sola parte (quella comunista), secondo una certa storiografia degli anni ’50, che è stata ormai, da più punti di vista, storicamente e con validi argomenti contestata (1). 3. “Patriottismo della Costituzione”: la Carta costituzionale come fattore di unità nazionale. Queste premesse mi consentono di affrontare un altro tema, cioè quello del contributo che la Costituzione del ’48 ha dato, e potrebbe ancora dare, alla nostra unità nazionale. Come è arcinoto, si discute oggi, da più parti, il processo formativo della nostra unità nazionale, se ne rivisitano le varie fasi, e se ne evidenziano vari elementi di fragilità e di debolezza: come il perdurare pluridecennale della cosiddetta “questione romana”; la divisione e contrapposizione tra mondo cattolico e mondo laico, o forse meglio, tra integrismo cattolico e anticlericalismo; e ancora il separatismo e l’opposizione di classe indotti dal socialismo prima, e poi dal comunismo; la disgiunzione tra sentimento nazionale e libertà, indotta dal fascismo; einfine la diversa occupazione straniera del Nord-Italia e del Sud, che ha aggravato le preesistenti differenze culturali, sociali, ecc.
Orbene, la Costituzione del ’48 — la prima non elargita, ma veramente datasi da una grande parte del popolo italiano, e la prima coniugante le garanzie di uguaglianza per tutti e le strutture basali di una corrispondente forma di Stato e di Governo — può concorrere a sanare ferite vecchie e nuove del nostro processo unitario, e a fondare quello che, già vissuto in America, è stato ampiamente teorizzato da giuristi e da sociologi nella Germania di Bonn, e chiamato “patriottismo della Costituzione ” ( 2 ) . Patriottismo che da un lato legittima la ripresa di un concetto e di un senso della Patria, rimasto presso di noi per decenni allo stato latente o inibito per reazione alle passate enfasi nazionalistiche che hanno portato a tante deviazioni e disastri; e che dall’altro — così come può risultare dai supremi principi costituzionali sui diritti e sulle libertà della persona e dal suo pluralismo istituzionale — non esclude nessuno, e anzi potrebbe risultare di ottima garanzia efruizione anche per le forze eredi di quelle che a suo tempo rimasero estranee e ostili al processo costituente. Forze che non si possono considerare come una parte soccombente, a cui la
Costituzione sia stata imposta da una presunta parte vincente; e che perciò dovrebbero e potrebbero cessare di denigrarla e invece potrebbero accettarne, con vantaggio anche loro, i risultati e le garanzie. Credo fermamente che in questo momento tutte le parti (esclusa solo la Lega Nord, ostinata a battere una sua propria strada) possano assumere la Costituzione del ’48 come un presidio di difesa e di legalità comune a tutti, presidio non chiuso in se stesso, ma evolvibile in modo omogeneo e con le procedure da essa stabilite, sì da potersi adeguare sempre di più alle necessitàe agli sviluppi di tutta la società italiana. Tutte le attuali parti politiche dovrebbero considerare la funzione che la nostra Legge fondamentale ha esercitato negli anni difficili della prima costruzione della nostra vita democratica: anni di divisioni profonde, ricollegantisi a una radicale spaccatura del mondo, tra Ovest ed Est; anni di contrapposizioni durissime tra i partiti che, pur lottando con indicibile asprezza, tuttavia mai pensarono di denunciare il Patto, e anzi proprio in virtù di esso riuscirono a mantenere le ragioni di una reciproca coesistenza.
Questo “patriottismo della Costituzione” può concorrere, per oggi e per domani, a un rinsaldamento della nostra unità. Certo, posso convenire con Norberto Bobbio che questo patriottismo si pone su un altro piano da quello del patriottismo nazionale: ma lo stesso Bobbio ammette per lo meno che l’uno e l’altro patriottismo si possono completare e rafforzare a vicenda. E che anche il “patriottismo della Costituzione” non deriva da un semplice contratto paritario, ma si fonda, così come risulta dallo stesso testo, su alcuni principi ultimi non negoziabili: esso può perciò costruire e garantire uno spazio sottratto alla negoziazione e alsemplice do ut des, e quindi uno spazio sottratto sia al conflitto politico sia alla contrattazione (3).
Quindi, in definitiva, esso può riuscire, come dicevo, a essere di garanzia per qualsiasi parte politica, in qualunque situazione, di maggioranza o di minoranza, si venga essa a trovare. 4. Primato normativo della Costituzione. Ma perché tutto questo possa realmente funzionare, occorre che le regole costituzionali divengano costume, come giustamente aggiunge Bobbio, e cioè vengano riconosciute come superiori ad ogni altra norma, e fondanti tutta la legalità del Paese, che altrimenti si troverebbe scardinata nelle sue premesse e in preda a una deriva continua. Perciò Alessandro Pace, dell’Università di Roma, ha emblematicamente dedicato la sua più recente fatica di costituzionalista “A Giulio e Domitilla, dal loro nonno”, volendo significare la sua fiducia che anche le giovanissime generazioni “possano condividere, un giorno, le aspirazioni sottese all’idea della Legge superiore” (4). Ma fu appunto contro questo concetto di “Legge superiore”, pietra angolare di tutto il sistema della nostra legalità, che cominciarono, sin dai primi anni ’80, a scagliarsi tutti quelli che avevano interessi, singolari o di gruppo, a farsi una loro legalità. Fu così che da più parti e adogni livello istituzionale si parlò della Costituzione come di un “ferro vecchio”, e si instaurarono prassi corrosive non solo della moralità, ma anche di ogni forma di regola stabile della civile convivenza. Oltre a tutto questo, negli anni del craxismo e della inarrestabile decadenza democristiana, col pretesto della semplificazione istituzionale e del decisionismo, venne insinuata sempre più l’idea che tutti i mali della nostra società derivavano da un assetto costituzionale dal quale occorreva liberarsi, proprio come condizione preliminare di ogni risanamento etico e giuridico. Tanto era divenuto ferreo il circolo vizioso che si imponeva a un’ opinione sempre più acritica e diffusa, e che portò alla inconsulta ed affrettata ultima legge elettorale, votata senza la predisposizione di nessuna garanzia che assicurasse una ordinata e vera transizione verso l’utopico “nuovo”.
Di fatto, il “nuovo” si è rivelato subito, dal giorno stesso delle elezioni, come più vecchio e degradato del “vecchio”. Il governo nuovo, uscito dalle elezioni, ha mostrato ad evidenza una allergia sistematica per ogni regola e per ogni forma di controllo o di contrappeso sociale o istituzionale, e ha ripetuto, aggravandoli, i danni e gli esiti negativi già imputati alla vecchia partitocrazia. La transizione si è arrestata e ora siamo giunti a un delicatissimo punto morto, che incombe su tutto il sistema italiano: sul sistema culturale (per la presenza deviante non più delle vecchie ideologie, ma di altrettanti ideologumena improvvisati, vuoti di contenuti teorici e storici); e, conseguentemente, sul sistema morale, sociale, economico, politico e giuridico. 5. intangibilità dei principi e possibili revisioni della Costituzione. Qualcuno incomincia, in queste ultime ore, a sperare che gli avvenimenti di tutto quest’anno possano avere risvegliato le coscienze, o almeno stimolato una qualche ripresa di consapevolezza(5): ma è certo che questa non può darsi e non può portare a esiti positivi, se non si ricomincia a pensare da molti il testo costituzionale vigente come “Legge superiore” contenente principi
non negoziabili, che possono e debbono presiedere e dare impulso anche all’attuale fase di transizione, verso un “nuovo” più organico, più vero e più stabile, nel costume, nelle strutture enelle istituzioni della vita collettiva. A questo fine bisogna anzitutto abbandonare il vezzo di una facile denigrazione della Costituzione, e pensare, più che a cambiarla o a riscriverla in toto, a rimeditarla e ad applicarla veramente nelle parti che sinora hanno avuto insufficiente o distorta applicazione.
E successivamente, o congiuntamente, si può anche pensare a quelle revisioni puntuali che,per comune consenso tra i costituzionalisti, si possono introdurre rispettando con grande lealtà la procedura fissata dall’art. 138 della Costituzione stessa.
Non si vogliono disconoscere i mutamenti oggettivi di grande spessore intervenuti dal 1945-47 ad oggi nella società nazionale: nei suoi dinamismi economici; nelle potenzialità,positive e negative, del suo sviluppo; nei suoi impulsi e desideri, individuali e collettivi; nella stessa coscienza e gerarchia dei valori, da parte di donne e di uomini, di individui maturi e di giovani o adolescenti; e infine nelle forme associazionistiche.
Mutamenti che sono tanto più rilevanti, quanto più vengano considerati in un quadrointernazionale che, a sua volta, ha subìto modificazioni radicali: come, per esempio, la convulsa e ancora confusa disgregazione del grande blocco orientale; la faticosa e incerta costruzione di una Unione Europea, a quanto pare sempre più volta verso il Nord e tendente a una più accentuata
marginalizzazione del nostro Meridione e dell’intera area mediterranea; gli intrecci di esasperata conflittualità nei Balcani e nel mondo slavo; il risveglio mondiale dell’Islam; l’inarrestabileflusso emigratorio dall’Africa settentrionale islamizzata verso l’Europa e verso l’Italia; il mutato e problematico atteggiamento dell’America nei confronti dell’Europa; la mondializzazione del mercato, e sempre più in senso sfrenatamente capitalistico, ecc.
Ma a tutti questi mutamenti non si può dare una risposta in qualche modo adeguata o pertinente solo con un “novismo” confuso e contraddittorio, ma con una revisione pacata e graduale, se pure non timida e non esitante. a) Riforma elettorale maggioritaria e sistema di garanzie. Dovrei entrare ora più nel merito del discorso delle revisioni possibili. Anzitutto una premessa. Occorre rifiutare la tesi che una sostanziale modifica della Costituzione sia già avvenuta automaticamente con la sola adozione del sistema elettorale maggioritario. Questa tesi viene proposta in una duplice forma. Nella forma rozza e arrogante in cui è stata espressa per un anno dal cosiddetto Polo delle libertà e che non merita, qui, confutazione, ed è stata di fatto ulteriormente smentita dal voto della maggioranza degli italiani nelle elezioni regionali e amministrative del 23 aprile – 7 maggio. E, invece, è proposta in una forma più raffinata da qualche autore od opinionista, per esempio da Sabino Cassese: che, oltre a notare una certa tensione (ovvia, direi) tra la Costituzione — che si fonda sul presupposto di un sistema elettorale proporzionale — e l’avvenuta adozione, ora, di una legge elettorale maggioritaria, inoltre accentua, per così dire, la diagnosi degli effetti di questa tensione, sino a dire che “dinanzi a questi problemi la Costituzione è impotente, anche perché metà di questi problemi nasce proprio da essa: dal fatto che essa è ormai fuori centro, per cui non costituisce più quel solido ancoraggio che una Costituzione deve assicurare” (6). Queste affermazioni sono largamente gratuite: non derivano necessariamente dalle premesse svolte, e neppure dal seguito del discorso di Cassese. Possono, al più, dimostrare che la riforma elettorale è stata assolutamente incompleta, mentre, per sé, poteva benissimo (e lo può ancora, sebbene tardivamente) essere completata con alcuni accorgimenti che l’avrebbero resa compatibile con la vigente Costituzione: soprattutto nella linea delle garanzie aggiuntive a tutela delle minoranze elette (che talvolta possono addirittura corrispondere, invece, a una maggioranza dell’elettorato). Si deve poi notare che tutto quello che Cassese in seguito scrive a proposito delle tesi avanzate e praticate dal Polo nei mesi di governo, evidenzia la necessità che queste garanzie a favore della minoranza non siano solo affidate a un corretto costume parlamentare, o alla buonavolontà delle parti, o anche alla legislazione ordinaria; ma che esse garanzie, ora, di fronte alle dimostrate forti inclinazioni “cesariste” o “bonapartiste” delle nuove forze emerse, urgono di essere anche costituzionalizzate: inserite, cioè, formalmente, nel testo costituzionale.
È questo, in ordine temporale e logico, il primo caso di revisione possibile e necessaria. Senza attardarmi di più sul merito, dico semplicemente che sono in tutto d’accordo sul progetto di Legge costituzionale n. 2115, d’iniziativa dei deputati Bassanini, Elia, Ayala e molti altri. Esso, in quattro articoli, dispone maggioranze rafforzate per l’adozione dei regolamenti delle Camere, per l’elezione del Presidente della Repubblica, per la nomina dei Giudici costituzionali, e infine — assolutamente fondamentale — per le proposte di revisione costituzionale ai sensi dell’art. 138 della vigente Costituzione. Non solo mi dichiaro del tutto d’accordo: ma penso inoltre che tutti dobbiamo promuovere, con ogni mezzo a noi possibile, un orientamento conforme e urgente dell’opinione pubblica. È già il caso, hic et nunc, di una prima emergenza costituzionale. E poi si dovrebbe aggiungere, a mio parere, una garanzia parimenti rafforzata per l’elezione dei membri del Consiglio Superiore della Magistratura. b) Disciplina antitrust dei mezzi di informazione e integrazione dell’art. 21 Cost. Altro caso di urgenza resta la disciplina dell’antitrust, in generale, e più specificamente nel caso della disciplina dei mezzi di informazione. A quest’ultimo riguardo, si può sostanzialmente dire che sinora nulla sia stato fatto di quelloche sarebbe stato necessario fare sin da prima della campagna elettorale politica dell’anno scorso; e per di più, che molto, in senso contrario, è stato fatto dal governo del Polo, con l’effettivo pratico smantellamento e asservimento della RAI.
Siamo per ora ridotti, di fatto, a una condizione non di duopolio, ma di monopolio. Mi pare doveroso ricordare anche qui quel che ho ricordato altrove, cioè quel che ha detto, esattamente 40 anni fa, un autentico liberale come Einaudi: “Il primo canone è che il male sociale ha le sue origini nel monopolio; e che la lotta contro le ingiustizie e le diseguaglianze sociali ha nome di lotta contro il monopolio. Il monopolio sta alla radice delle sopraffazioni dei forti contro i deboli” (7). Tutti gli strumenti sinora escogitati si sono rivelati non solo insufficienti, ma addirittura velleitari. Lo stesso decreto-legge, che ha funzionato negli ultimi trenta giorni della più recente campagna elettorale, sarà, ora, dopo la sentenza della Corte costituzionale del 10 maggio, in gran parte inoperante: i rimedi immediati sembrano molto difficili. Si evidenzia sempre più la necessità di una disciplina organica e radicale della materia, con il divieto di assegnare a un privato la concessione di più di una rete. E perciò appare ancora più indispensabile dare, per il momento, una risposta positiva ai referendum abrogativi in materia di legge Mammì. Ma, posto anche questo esito positivo, che vivamente auspichiamo, resterà sempre da pensare a una integrazione omogenea dell’art. 21 della Costituzione: integrazione omogenea ai principi di libertà dello stesso articolo, ma a sua volta intesa non solo a tutelare, come è stato sinora, i soggetti attivi di una manifestazione dipensiero, ma anche a garantire la possibilità concreta di libertà e di scelta dei soggetti passivi, specialmente quanto all’influsso di mezzi di comunicazione così potenti e sistematicamente suggestivi come gli attuali, non prevedibili alla data della Costituzione.
c) Riforma dello Stato: verso un federalismo moderato. Altro argomento è quello della forma di Stato e del relativo grado di autonomia degli entiinclusi, territoriali e non territoriali (cioè associazioni di ogni tipo). In sostanza, mi pare che un’opinione, ora abbastanza diffusa e ragionevole, si muova verso un federalismo moderato, sul
modello della Grundgesetz tedesca. Rispetto al nostro ordinamento attuale, urge anzitutto la piena attuazione delle norme vigenti, ancora non pienamente applicate; e inoltre si possono auspicare riforme incisive e avanzate, al riguardo, purché si osservino alcune condizioni ben precise. a) Anzitutto il rispetto di tempi necessariamente un po’ lenti (almeno qualche anno, come auspicano gli studi della Fondazione Agnelli, purché ci sia un rapido e sollecito inizio); e sempre l’osservanza rigorosamente leale delle procedure per la consultazione delle popolazioniinteressate: consultazioni previste dall’art. 132 relativo alle variazioni dei soggetti attuali (cioè del numero delle Regioni e del loro territorio); e previste soprattutto dall’art. 138 (per quanto riguarda l’allargamento delle funzioni e competenze oltre le materie ora fissate).
b) Il rispetto dei principi supremi immodificabili della nostra Costituzione: in particolare ilprincipio posto dall’art. 1 (l’Italia è “una” Repubblica, ed è una Repubblica “fondata sul lavoro”); e quello posto dall’art. 5 (che ribadisce l’affermazione della unità e indivisibilità della Repubblica, e a un tempo il principio delle autonomie locali e del decentramento amministrativo): ciò vuol dire che si dovrà rispettare il livello unitario del Governo, che consente di garantire gli obiettivi di uguaglianza delle condizioni di vita di tutti i cittadini, in qualunque regione vivano, e insieme si dovrà rispettare la diffusione, nel seno della società italiana, di una pluralità di centri decisionali, che consentano la più accentuata vicinanza tra governanti e governati.
Come osservazioni aggiuntive sottolineerei anzitutto che ancora più importante dellevariazioni costituzionali sul riparto delle funzioni tra Stato centrale e Regioni, può essere, e può risultare più realisticamente efficace, una coerente legislazione ordinaria, che si proponga
un’ampia e sistematica riforma di tutte le pubbliche amministrazioni, e il loro effettivo decentramento locale: anche con l’attribuzione alle strutture amministrative regionali dellaapplicazione di leggi statali, oltre che di quelle regionali. Questo contribuirebbe in modo decisivo alla più adeguata e pronta comunicazione tra istituzioni e cittadini, e a un più proficuo raccordo fra gli enti sociali intermedi (enti di categoria ed enti di volontariato, ecc.) e gli enti territoriali di programmazione e di gestione.
In secondo luogo, osserverei che va evitato il nuovo centralismo, già abbastanza manifesto, da parte delle Regioni, a danno dei Comuni: con una più chiara distribuzione delle funzioni tra Regioni ed enti territoriali inclusi in esse. In terzo luogo, più in senso generale, mi sembrano piene di buon senso e di realismo le parole pronunziate recentemente da Francesco Paolo Casavola secondo cui un federalismo più accentuato o più confuso potrebbe essere “anacronistico e contro tendenza rispetto ai processi di espansione dell’economia, di intensificazione di tutela dell’ambiente, di evoluzione della tecnologia delle comunicazioni, della rapidità dei trasporti, del movimento delle persone, della domanda di eguaglianza nella erogazione dei servizi e nelle più essenziali prestazioni sociali” (8). Infine, se mi può essere consentita qui una parola esplicita e doverosa a favore del Mezzogiorno — guardando puntualmente all’attuale quadro di forze sul piano nazionale —, esprimerei una valutazione molto severa nei confronti delle tesi e del comportamento della Lega Nord. Anche le ultime dichiarazioni, dopo il secondo turno delle elezioni regionali, dimostrano non solo la ribadita volontà di procedere per conto proprio, senza tener conto del quadro politico generale, ma anche l’intenzione precisa di condizionare ogni suo atteggiamento, su qualunque problema, all’accettazione previa, da parte di qualunque interlocutore, della propria visione estrema del federalismo: ossia, in definitiva, di un federalismo tendenzialmente secessionista, e comunque sempre mirato sull’interesse, grettamente concepito, della Padania, a scapito di tutto il Centro-Sud. Non credo che sia mai possibile per il nucleo duro della Lega, e della sua base più solida nellevalli delle Prealpi, elevarsi a concepire come il Centro-Sud può essere altrettanto essenziale alla Padania, quanto si pretende che la Padania sia stata sinora necessaria al Centro-Sud, e ne abbia anzi sostenuto tutto il peso.
Non si considera abbastanza la reciprocità, malgrado tutto, del bisogno e del vantaggio dell’unione fra le due parti, essenziale in tutti i sensi: quindi anche nel senso dell’apporto umano, culturale, sociale e politico, ma non meno, tutto considerato, nel senso dello stesso apporto economico. Un’Italia ridotta praticamente al solo Nord vedrebbe fortemente diminuita la sua attuale importanza politica, che è certo — nonostante tutte le fragilità imputate al Meridione — una importanza che risulta a un tempo dal fattore continentale e dal fattore mediterraneo: tale congiunzione, che deve diventare sempre più una coniugazione armonica e valida dei due fattori,è il proprio costitutivo imprescindibile dell’Italia e la ragione di tutta la sua rilevanza oggettiva, socio-economica, politica e culturale-spirituale.
Aggiungerei infine che queste considerazioni valgono in pieno per la Puglia: per quello che può essere il suo apporto vivace e indispensabile all’unità nazionale: sia per la sua singolare collocazione geopolitica, come sempre la storia ha dimostrato, tramite necessario (oltre Venezia) tra il Nord d’Italia e l’Oriente mediterraneo; sia per la sua complementarità economica nei due sensi, Nord-Sud e Sud-Nord; sia infine per il suo ricco apporto umano e culturale al genio nazionale. d) Riforma del Parlamento. Per il Parlamento, credo che si stia ormai creando una opinione abbastanza comune contro l’attuale bicameralismo paritario, che implica un dispendio enorme di energie e di tempo, e un grande rallentamento dell’attività legislativa. Anch’io aderisco all’ipotesi della trasformazione del Senato in Camera delle Regioni, o meglio delle Autonomie locali e delle grandi formazioni sociali, riservando, per contro, alla Camera dei deputati la rappresentatività politica generale. Proprio della Camera dei deputati resterebbe il compito di conferire o revocare la fiducia al Governo, e il compito dell’attività legislativa ordinaria. Il concorso della Camera delle Regioni potrebbe essere chiesto normalmente per le leggi che incidano sistematicamente sui rapporti tra Stato e Regioni; invece, per le altre leggi, tale concorso potrebbe essere solo eventuale, e prevedere la prevalenza finale della Camera dei Deputati in caso di dissenso. Si potrebbe poisancire anche costituzionalmente il divieto di legiferare se non su contenuti di principio: e quindi riservare al Governo, abitualmente, la normazione regolamentare.
Dovrebbe aggiungersi anche una rigorosa disciplina del decreto-legge, prevedendolo solo per ipotesi tassative, col divieto di emendamenti in sede di conversione, e il divieto di reiterazione anche per mancata conversione nei termini, e non solo per un esplicito voto contrario del Parlamento. Infine, dovrebbe essere disciplinato l’esercizio del potere di bilancio del Parlamento, vietando la presentazione di iniziative e di emendamenti comportanti aumento di spesa. e) Revisione della forma di Governo all’interno del sistema parlamentare. Passerei ora a dire il mio parere più specificamente sul problema del Governo. Anche se si possono dire notevolmente attenuate le tesi presidenzialiste, tuttavia un certo presidenzialismo gode ancora qualche favore, soprattutto in una certa parte politica, e in qualche autore, come per esempio da ultimo il Cassese (9). Come è risaputo, è possibile distinguere varie forme di Governo presidenziale. Anzitutto il presidenzialismo degli USA, che alcuni continuano a idealizzare non solo astraendo dalla situazione concreta del nostro Paese, ma anche ignorando le critiche e le tendenze revisionisteche si vanno diffondendo negli stessi Stati Uniti. Il crescere in autorevolezza ed estensione delle obiezioni all’attuale sistema americano, ha portato recentissimamente negli USA al nascere di uno speciale comitato cosiddetto “per il sistema costituzionale”, dal quale emergono varie proposte tutte volte a innestare sul tronco del sistema presidenziale istituti tipici del sistema parlamentare. Sia pure senza approfondire, in questa sede, i risultati complessi della revisione ora ventilata in America, possiamo ricavarne per lo meno l’osservazione che neppure l’unico caso di sistema
presidenziale che ha garantito le libertà e i diritti civili e politici, può costituire un esempio incoraggiante per uno Stato come il nostro, in cui il sistema parlamentare ha consentito un costante processo democratico, non compiuto, ma certo non revocabile. Le altre ipotesi di presidenzialismo vengono tutte dai Paesi del Sud America, con qualiesperienze concrete e risultati di libertà e di garanzia dei diritti civili e politici, tutti, credo, sappiamo: tanto che nessuno accenna a farsene un fautore.
Resta l’ipotesi del semipresidenzialismo francese, che può portare alla grave discrasia, come è già avvenuto sino a questi ultimissimi giorni, della difficile “coabitazione” tra un Presidente eletto da un certo schieramento e una maggioranza parlamentare antagonista; mentre i suoi possibili vantaggi possono essere assicurati da una semplice revisione del nostro sistema parlamentare. Ci sarebbe infine da dire una parola del presidenzialismo “all’italiana” della propostaSegni, per l’investitura popolare di un leader al vertice del potere esecutivo, prescindendo poi da qualunque contrappeso o controllo in tutto il periodo del suo mandato: un presidenzialismo,
quindi, che assomiglia a una monarchia elettiva, e di cui il professor Gianni Ferrara, dopo averne fatto un’analisi acuta, conclude: “Si tratta di un sistema mai sperimentato, perché nessun costituente, di nessun Paese al mondo, ha mostrato tanta insipienza da sceglierlo” (10). Invece, io fermamente penso che sia conforme (anzi, secondo il professor Allegretti sarebbe il solo conforme) (11) al principio fondamentale della nostra Costituzione sulla pluralità e distinzione di centri di potere diffusi, il conservare il sistema parlamentare con alcune revisioni e integrazioni, già adottate anche da Costituzioni più recenti, per rendere più stabile, più coordinata e più efficiente l’azione del Governo. Basterebbe quindi introdurre l’elezione parlamentare del Primo Ministro, sia pure confermata dal Capo dello Stato, e soggetta solo alla sfiducia costruttiva da parte dell’Assemblea che lo ha investito e che, togliendogli la fiducia, deve designare a un tempo un nuovo Primo Ministro; nonché la nomina dei Ministri da parte del Primo Ministro, salvo un controllo di competenza, regolato da norme precise. Aggiungendo poi il divieto del cumulo della funzione di membro del Governo con la funzione di parlamentare, si realizzerebbe quella separazione tra il potere esecutivo e il potere legislativo che anche il Cassese auspica. Infine, oltre alle norme di revisione costituzionale sulla forma di Governo, si dovrebbe affermare costituzionalmente l’indipendenza delle pubbliche amministrazioni dal potere politico, cui certo spetterebbe sempre una funzione di indirizzo, ma affermandosi a un tempo la responsabile autonomia delle amministrazioni nella realizzazione degli obiettivi proposti dal potere governativo di indirizzo. 6. Procedura di revisione costituzionale nel rispetto dell’art. 138 Cost. Quanto alla procedura necessaria per introdurre le revisioni suddette nella vigente Costituzione, non può essere altra da quella prevista dall’art. 138 in ogni caso, e in modo assoluto. Tanto meglio se, prima di iniziare qualunque tappa delle revisioni suddette, si potranno adottare le precisazioni proposte dal già accennato progetto Bassanini-Elia sulla maggioranza rinforzata a due terzi di ciascuna delle Camere, e le precisazioni intese a garantire l’omogeneità dei quesiti sottoposti a referendum confermativo. Torna qui l’opportunità di dire, a proposito di questo progetto Bassanini-Elia, che esso è urgente e preliminare a ogni ipotesi di revisione costituzionale, e perciò dovrebbe necessariamente essere incluso nell’agenda dell’attuale Parlamento, prima di un suo eventuale scioglimento. E per di più — come ha già sostenuto Franco Bassanini (12) — dovrebbe non essere difficile raggiungere una intesa su queste norme preliminari, che potrebbero “dare a tutti, progressisti econservatori, la certezza che la vittoria della parte avversa non metterebbe a rischio i diritti, le libertà, le regole democratiche. E dunque una garanzia che la sinistra deve alla destra, e la destra alla sinistra. Una garanzia da dare prima delle elezioni, finché dura il velo di ignoranza sull’esito della competizione elettorale”.
E così, dopo tanti accesi e quasi furiosi dibattiti dell’ultimo anno, si avrebbe un risultato finalmente pacato e concorde: cioè quella più vasta e costruttiva adesione di tutte le parti e componenti politiche, che tenderebbe a eguagliare quella che si è avuta, cinquant’anni fa, subito dopo la guerra, nel ’47, e riuscirebbe a dare alla revisione costituzionale il sigillo di un rinnovamento unitario del nostro Patto nazionale. Per qualunque altra strada fuori di questa, si imboccherebbe il “sentiero di guerra”, di lacerazioni e divisioni, forse fatalmente inarrestabili. 7. Appello ai giovani: fiducia nel valore della Costituzione. Alla fine, vorrei dire soprattutto ai giovani: non abbiate prevenzioni rispetto alla Costituzione del ’48, solo perché opera di una generazione ormai trascorsa. La Costituzione americana è invigore da duecento anni, e in questi due secoli nessuna generazione l’ha rifiutata o ha proposto di riscriverla integralmente: ha soltanto operato singoli emendamenti puntuali al testo originario dei Padri di Philadelphia, nonostante che nel frattempo la società americana sia passata da uno Stato di pionieri a uno Stato oggi leader del mondo.
Non lasciatevi influenzare da seduttori fin troppo palesemente interessati, non a cambiare la Costituzione, ma a rifiutare ogni regola. Il mio Maestro, pugliese pure lui, giurista di eccezionale acume, ermeneuta egualmente grande nel Diritto canonico come nel Diritto civile, Vincenzo Del Giudice, ripeteva di frequente che tutte le leggi sono come le scarpe: troppo nuove, in principio, possono fare male al piede, ma con l’uso, pian piano si assestano e divengono comode. Non lasciatevi neppure turbare da un certo rumore confuso di fondo, che accompagna l’attuale dialogo nazionale. Perché, se mai, è proprio nei momenti di confusione o di transizioneindistinta che le Costituzioni adempiono la più vera loro funzione: cioè quella di essere per tutti punto di riferimento e di chiarimento.
Cercate quindi di conoscerla, di comprendere in profondità i suoi principi fondanti, e quindi di farvela amica e compagna di strada. Essa, con le revisioni possibili e opportune, puògarantirvi effettivamente tutti i diritti e tutte le libertà a cui potete ragionevolmente aspirare; vi sarà presidio sicuro, nel vostro futuro, contro ogni inganno e contro ogni asservimento, per qualunque cammino vogliate procedere, e qualunque meta vi prefissiate. E questo vale non solo per voi personalmente, ma può valere, allo stesso modo e con la stessa intensità, per tutto il nostro popolo.
Questo è un momento delicato e complesso, non solo all’interno, ma anche all’esterno: intendo, per tacere d’altro, anche rispetto all’Europa. L’Europa cerca se stessa, e non si trova. Anche il trattato di Maastricht langue e non procede. Tanto che qualcuno tende a cercare, se non l’Europa, quello che dovrebbe essere il “nucleo duro” di essa (cioè Germania, Francia, Olanda, Lussemburgo, e infine, nonostante tutto, il Belgio). E l’Italia? Pochi anni fa avrebbe potuto concorrere paritariamente a questo nucleo duro. Ora,invece, è molto vicina — se non si affretta a ristabilire anzitutto le sue finanze, a riordinare tutte le pubbliche amministrazioni, e a condurre una solida politica economica, statale e non statalista — a perdere sempre più peso (come sta dimostrando la sorte della nostra candidatura al Consiglio di Sicurezza dell’ONU): più ancora rischia di disgregarsi in un Nord sempre più attratto dalle vicine settentrionali (Germania e Francia) e in un Sud “affogato nel Mediterraneo arabobalcanico” (13).
Soltanto quel sano, forte, diffuso, “patriottismo della Costituzione” — cui accennavo sopra — può essere una luce orientatrice e una forza aggregante, capace, concorrendo altri fattori, di vivificare una nuova intesa fra tutte le componenti tradizionali del nostro popolo, e di stimolare e presiedere a una ripresa collettiva che non ci faccia perdere, forse per sempre, l’ora della storia. NOTE (*) I titoli dei paragrafi e i neretti del testo sono redazionali. (1) Si veda per tutto questo la recentissima e valida sintesi di P. SCOPPOLA, 25 aprile. Liberazione, Einaudi, Torino 1995, e gli Autori ivi citati, pp. 10-41. (2) Cfr. G. E. RUSCONI, Se cessiamo di essere nazione, Il Mulino, Bologna 1993, cap. V. (3) Cfr. N. BOBBIO, Due domande a G. E. Rusconi, in “Reset”, n. 13, gennaio 1995, pp. 16- 18. Quanto diciamo nel testo, mi pare che valga anche per rispondere allo scritto di E. GALLI DELLA LOGGIA, La morte della Patria, in AA. VV., Nazione e nazionalità in Italia, Laterza, Bari 1994. (4) A. PACE, La causa della rigidità costituzionale, CEDAM, Padova 1995. (5) Cfr. S. RODOTÀ, Costituzione, in “Il Manifesto”, 27 aprile 1995. (6) S. CASSESE, Maggioranza e minoranza, Garzanti, Milano 1995, p. 17 e passim. (7) L. EINAUDI, Il buon governo, Laterza, Bari 1955, p. 119. (8) F. P. CASAVOLA, Per discutere della Costituzione, relazione al Convegno MEIC e Parte Civile, Roma, 23 marzo 1995. (9) Cfr. S. CASSESE, Maggioranza e minoranza, cit., pp. 89-91. (10) G. FERRARA, Presidenzialismo all’italiana: le ragioni di un dissenso, in “Nuova Fase”, Roma 1994, n. 5, p. 61. (11) Cfr. U. ALLEGRETTI, Il problema dei limiti sostanziali all’innovazione costituzionale, in ID., Cambiare Costituzione o modificare la Costituzione?, Giappichelli, Torino 1995, p. 33. (12) Cfr. F. BASSANINI, Come cambiare la Costituzione, in “La Repubblica”, 29 aprile 1995, p. 8. (13) Cfr. EDITORIALE, L’esperimento Framania, in “Limes – Rivista italiana di geopolitica”, Aggiornamenti sociali, n. 7-8 (luglio-agosto) 1995, pp. 489-504 n. 2, 1995, pp. 7-12. ================================= Aggiornamenti sociali, n. 11 (novembre) 1994, pp. 697-710 LA COSTITUZIONE ITALIANA Il valore di un patrimonio GIUSEPPE DOSSETTI Proponiamo qui l’intervento pronunciato da don Giuseppe Dossetti in un dibattito pubblico, cui ha partecipato anche l’on. Nilde Iotti, il 16 settembre scorso a Monteveglio (Bologna), a conclusione del primo incontro nazionale dei comitati per la difesa della Costituzione formatisi in seguito alla proposta avanzata dallo stesso Dossetti alla vigilia dell’anniversario della liberazione solennemente celebrato in Italia il 25 aprile scorso. L’autore ricostruisce dapprima la singolare temperie culturale entro la quale la Costituzione fu elaborata, poi passa in rassegna i principi supremi che la informano rimarcando che essi non sono suscettibili di revisione, illustra ancora il valore della rigidità della Costituzione e la connessa esigenza di preservare l’art. 138 che disciplina la procedura (rafforzata) di revisione, infine mette in guardia dal referendum di chiaro sapore plebiscitario prefigurato dalla Commissione di esperti istituita dal ministro Speroni per la riforma della Costituzione. La nostra rivista — come risulta dall’editoriale di apertura di questo fascicolo — sottoscrive in pieno le preoccupazioni e il punto di vista dell’autorevole monaco già membro della Costituente (*). 1. Radicamento della Costituzione nell’evento storico della seconda guerra mondiale. Mi si consenta una premessa che — in proporzione della durata complessiva del mio intervento—non sarà breve. Mi domando: donde è nata la Costituzione italiana entrata in vigore il 1° gennaio 1948? Qual è la sua radice più profonda? Alcuni pensano che la Costituzione sia un fiore pungente nato quasi per caso da un arido terreno di sbandamenti postbellici e da risentimenti faziosi volti al passato. Altri pensano che essa nasca da una ideologia antifascista di fatto coltivata da certe minoranze, che avevano vissuto soprattutto da esuli gli anni del fascismo. Altri ancora — come non pochi dei suoi attuali sostenitori — si richiamano alla Resistenza, con cui l’Italia ha potuto ritrovare il suo onore e in certo modo si è omologata a una certa cultura internazionale. E così si potrebbe continuare a lungo nella rassegna delle opinioni o sbagliate o insufficienti. In realtà la Costituzione italiana è nata ed è stata ispirata — come e più di altre pochissime costituzioni — da un grande fatto globale, cioè i sei anni della seconda guerra mondiale. Questo fatto emergente della storia del XX secolo va considerato, rispetto alla Costituzione, in tutte le sue componenti oggettive e al di là di ogni contrapposizione di soggetti, di parti, di schieramenti, come un evento enorme che nessun uomo che oggi vive o anche solo che nasca oggi, può e potrà accantonare o potrà attenuarne le dimensioni, qualunque idea se ne faccia e con qualunque animo lo scruti. Che cosa è stata la seconda guerra mondiale? Scusate se richiamo dati elementarissimi, che sono o dovrebbero essere presenti a tutti. La seconda guerra mondiale è stata anzitutto sul piano oggettivo e fisico — di fronte ai nove milioni di morti della “grande guerra” (1914-1918) — ben più di cinquantacinque milioni di uccisi da azioni belliche (1); e segnò un coinvolgimento mai visto delle popolazioni civili, massacrate dai bombardamenti aerei (si pensi che il solo bombardamento di Dresda fece più di 100.000 vittime!), oppure deportate in massa, oppure esposte continuamente al rischio dei rastrellamenti e delle rappresaglie. Inoltre sempre sul piano oggettivo, la seconda guerra mondiale ha portato a un mutamento mai verificatosi nella mappa del mondo: in Europa, in Asia, in Africa. Anzitutto ha avviato il deciso declino delle tradizionali grandi potenze europee e anche dell’Europa nel suo complesso; e ha dato vita a due blocchi mondiali contrapposti guidati, con ideologie antitetiche e con schieramenti militarmente paurosi, dalle due nuove superpotenze. E parallelamente essa ha portato al rivelarsi della debolezza intrinseca e della insostenibilità morale dei grandi imperi coloniali, e perciò ha dato l’impulso decisivo a una quasi totale decolonizzazione, e alla conquista progressiva dell’autonomia di molti Paesi nuovi in Africa e in Asia: e per contro, al simultaneo affacciarsi di due vecchie entità in passato apparse dormienti e ora avviate a rivelarsi come protagonisti mondiali, cioè la Cina e l’India, con un totale di due miliardi di soggetti. E ancora: sul piano delle idee la seconda guerra mondiale è stata la sconfitta di tutta la cultura romantica e di molti dei suoi derivati, e per contro l’affermazione, in larga parte dell’umanità, del “marxismo realizzato”. Come pure è stata l’inizio e il progresso di costumi e di modi di vita, individuali e collettivi, radicalmente mutati, assai più di quanto non sia avvenuto in proporzione con la “grande guerra”: costumi e modi di vita diffusamente permeanti ovunque, dalle metropoli ai villaggi, dall’America all’Africa e all’Asia, in conseguenza dei nuovi mezzi di comunicazione sociale, la televisione soprattutto. E infine la seconda guerra mondiale è stata l’eccezionale incremento di nuove tecnologie e quindi l’inizio di un balzo incommensurabile negli oggetti, nella intensità e nelle forme della produzione industriale, con complesse, sempre più complesse conseguenze nella trama e nell’ordito dell’economia e della finanza delle nazioni e in quella internazionale. Ma correlativamente non sono mancate anche novità decisive che la seconda guerra mondiale ha implicato o avviato sul piano delle grandi religioni: anzitutto con un fatto ancora di incalcolabile importanza spalancando la strada al “sionismo realizzato” e al ritorno di milioni di ebrei alla terra dei padri e alla loro lingua e cultura; e ancora innestando nuovi fermenti critici e dinamici nel cristianesimo; e infine determinando, con certe premesse economiche (petrolio) e sociali e nuove ideologie, il risveglio dei popoli arabi e il conseguente rialzarsi mondiale dell’Islam. Infine, proprio sulla soglia del suo termine, la seconda guerra mondiale ha lasciato in eredità al futuro due oggetti che hanno condizionato l’ultimo mezzo secolo e che ancora condizioneranno gli anni a venire: – cioè la V2, il missile lanciato sull’Inghilterra a partire dal settembre 1944, costruito dal giovanissimo ingegnere Wernher von Braun (che alla fine della guerra si consegnò agli americani e che concorse in modo decisivo alla costruzione dei missili intercontinentali e del missile Saturno che consentì lo sbarco sulla luna); – e l’altro: la bomba atomica, esplosa per la prima volta a Hiroshima il 6 agosto 1945. La congiunzione di questi due oggetti ha tenuto il mondo sotto l’equilibrio del terrore. Tutte queste cose, se pure in diverse proporzioni di sviluppo, sono comprese o almeno si sono iniziate tra il 1° settembre 1939 (invasione tedesca della Polonia) e il 2 settembre 1945, cioè quando — dopo i due roghi atomici di Hiroshima e di Nagasaki — il Giappone accettò la resa senza condizioni agli americani: e la guerra ebbe allora davvero termine. In questo enorme evento globale sono incluse anche le conseguenze che esso ha provocato per l’Italia: più di 400.000 morti tra militari e civili; stragi e deportazioni senza limiti; incalcolabili distruzioni e rovine (nel 1945 la produzione industriale era ridotta al 30% di quella del 1938; la produzione cerealicola a 41 milioni di quintali di fronte agli 81 milioni del 1938; l’inflazione era salita spaventosamente, da 22 miliardi di lire circolanti nel 1938 a 319 miliardi nel 1945 che arrivarono nel 1949 a 869 miliardi); e ancora e soprattutto l’aggravarsi culturale ed etico-sociale, oltre che economico-politico, dello squilibrio tra il sud (occupato dagli alleati) e il nord (occupato per quasi due anni dai tedeschi); e infine la distruzione di ogni tessuto e istituzione civile e politica. Ma queste, che furono le conseguenze per noi italiani, vanno incluse nell’evento “seconda guerra mondiale”: e non dovevano essere, nel 1945, e non possono neppure oggi essere considerate a parte, ma vanno inquadrate e potenziate dalla considerazione dell’evento mondiale in cui sono inseparabilmente inscritte. 2. La Carta costituzionale, espressione del comune consenso dei Costituenti. E di diritto e di fatto questo evento mondiale fu ben presente sin dagli inizi ai lavori precostituenti e costituenti. I lavori preparatori guidati dal ministero della Costituente (ministro Nenni) non potevano non risentire di questa atmosfera globale: in particolare nella cosiddetta Commissione Forti sulla Riorganizzazione dello Stato, insediata il 21 novembre 1945, cioè a pochissimi mesi dalla fine della guerra e dal suo ultimo episodio, le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki. I lavori della Commissione Forti non rimasero chiusi e sigillati nel ministero della Costituente, ma ne fu dato regolarmente conto in un apposito bollettino di informazione, cosa che si augurerebbe ancora oggi per la cosiddetta Commissione Speroni. Perciò il clima della Commissione Forti, almeno nelle sue idee essenziali, non poteva non trasmettersi all’Assemblea Costituente eletta a un semestre di distanza (il 2 giugno 1946) che, con il contemporaneo referendum istituzionale, metteva fine alla monarchia e dava inizio alla repubblica. Anche il più sprovveduto o il più ideologizzato dei Costituenti non poteva non sentire alle sue spalle l’evento globale della guerra testé finita. Non poteva, anche se lo avesse cercato di proposito in ogni modo, dimenticare le decine di milioni di morti, i mutamenti radicali della mappa del mondo, la trasformazione quasi totale dei costumi di vita, il tramonto delle grandi culture europee, l’affermarsi del marxismo in varie regioni del mondo, i fermenti reali di novità in campo religioso, la necessità impellente della ricostruzione economica e sociale all’interno e tra le nazioni, l’urgere di una nuova solidarietà e l’aspirazione al bando della guerra. Quindi l’acuirsi delle ideologie appena ritrovate e l’asprezza dei contrasti politici tra i partiti appena rinati, e lo stesso nuovo fervore orgoglioso determinato dalla coscienza resistenziale non potevano non inquadrarsi, in certo modo, in più vasti orizzonti, al di là di quello puramente paesano e non poteva non inserirsi anche in una nuova realtà storica globale a scala mondiale. Insomma, voglio dire che, nel 1946, certi eventi di proporzioni immani erano ancora troppo presenti alla coscienza esperienziale per non vincere, almeno in sensibile misura, sulle concezioni di parte e le esplicitazioni, anche quelle cruente, delle ideologie contrapposte e per non spingere in qualche modo tutti a cercare, in fondo, al di là di ogni interesse e strategia particolare, un consenso comune, moderato ed equo. Perciò, la Costituzione italiana del 1948 si può ben dire nata da questo crogiolo ardente e universale, più che dalle stesse vicende italiane del fascismo e del postfascismo: più che dal confronto-scontro di tre ideologie datate, essa porta l’impronta di uno spirito universale e in certo modo transtemporale. È qui il luogo di ricordare che questa base di largo consenso — nonostante i dibattiti assai vivaci lungo il corso di tutti i lavori e gli antagonismi che dividevano allora il Paese — portò a una votazione finale del testo della Costituzione che raggiunse quasi il 90% dei componenti dell’Assemblea Costituente. Non solo emblematicamente ma effettivamente la triplice firma apposta alla sua promulgazione il 27 dicembre 1947 sta a significare in modo causativo la coscienza unitaria dalla quale nasce: la firma di Enrico De Nicola, capo provvisorio dello Stato, erede della tradizione liberale; la firma di Umberto Terracini, Presidente dell’Assemblea Costituente e fondatore, con Gramsci e Togliatti, del Partito Comunista Italiano; e la firma di Alcide De Gasperi, Presidente del Consiglio e già primo successore di Sturzo alla segreteria del Partito Popolare. 3. La Costituzione, legge suprema dell’ordinamento repubblicano. Le premesse fatte erano necessarie per ben comprendere e motivare il carattere, spettante alla nostra Costituzione, di legge prima e suprema di tutto l’ordinamento repubblicano, dal 1948 in poi. Questo carattere è a un tempo: – estrinseco, cioè relativo alle circostanze eccezionali che hanno maturato e fatto adottare la nostra Carta fondamentale, circostanze ben difficilmente riproducibili o equiparabili a qualunque altro evento-matrice della nostra storia; – e insieme intrinseco alle disposizioni che la compongono, particolarmente, ma non solo, quelle della prima parte, che concerne le garanzie dei diritti fondamentali di ogni cittadino. Questo carattere di legge superiore è rafforzato dalla speciale disposizione (art. 138) che ne assicura (come si dice) la rigidità. Rigidità che non vuoi dire immodificabilità assoluta, ma che è una modificabilità speciale, cioè ottenibile solo con un procedimento tutto particolare, rafforzato rispetto al procedimento richiesto per qualunque altra legge o deliberazione degli organi dello Stato. Per essere ancora più concreti e più espliciti, si può convenire sulla opportunità, oggi, di certe modifiche nelle funzioni e nella struttura delle Camere, nel rafforzamento della figura del Presidente del Consiglio nei confronti dei partiti e dei singoli ministri, nell’ampliamento anche forte dei poteri delle Regioni, ecc. Ma è importantissimo essere ben chiari sul principio rigoroso che tali modifiche non possono avvenire altro che con la piena osservanza della procedura legittima prescritta dall’art. 138. E questo tanto più va detto e ribadito perché la cultura superficiale e facilona che si è andata formando negli ultimi anni sta perdendo questa coscienza e tende pian piano ad ammettere, almeno implicitamente o surrettiziamente, uno snervamento del principio (cioè indipendentemente, ripeto, dalle possibili e opportune riforme attuabili con l’iter prescritto), snervamento che implicherebbe ulteriori gravi affievolimenti di tutto il nostro ordinamento giuridico e sociale: con le ovvie conseguenze di una labilità generale dei diritti e dei doveri personali e comunitari, e di uno sviamento aggravato della coscienza etica collettiva. 4. Principi basilari e intangibili della Costituzione. Ed ora possiamo passare in rassegna alcuni principi fondanti della nostra Carta, che sono espressione del grande evento in cui essa si radica e che sono tuttora adeguati ai bisogni e ai caratteri della nostra società di oggi e a quelli che si intravedono per il futuro. 1. Primo principio: quello della unità e indivisibilità del popolo italiano, e per conseguenza della sua espressione statuale, cioè della Repubblica Italiana (artt. 1 e 5). Nel momento costituente non erano ignote spinte tendenzialmente secessionistiche: non solo di qualche minoranza etnica al confine settentrionale od orientale, ma anche di una grande regione dell’estremo Sud. L’indipendentismo siciliano aveva anzi una sua rappresentanza alla Assemblea Costituente. Perciò fu quella un’occasione per prendere coscienza approfondita delle cause storiche, remote e recenti, e delle motivazioni in atto, sul piano sociale e politico, di queste tendenze secessionistiche. E fu anzi l’occasione di incominciare, per quel che vi poteva essere di giusto, a dare loro soddisfazione, provvedendo con gli statuti regionali speciali, che ne soddisfacevano le esigenze più vere, ma a un tempo ribadivano con ben meditata e pacata fermezza e con rinnovate motivazioni l’unità e indivisibilità di tutto il popolo italiano. Di fatto il nostro popolo era uscito dalla seconda guerra mondiale, dall’occupazione straniera, dalla prolungata divisione in due tronconi e dalla Resistenza, era uscito, dico, cementato — al di là di tutti i problemi e gli squilibri vecchi e nuovi — e più consapevole della sua fondamentale coesione nazionale, etnica, culturale e sociopolitica. A questa fondamentale unità, nelle intenzioni dei Costituenti e nel dettato della Costituzione, non si oppone — anzi si potrebbe dire che la convalida e la rende più piena e più ricca — il riconoscimento e ancor più il promovimento delle autonomie locali (artt. 5 e 114 ss.). (Anche se poi occorre soggiungere subito che questa parte della Costituzione ha trovato di fatto lenta, faticosa e ancora incompleta attuazione da parte del nostro legislatore). Ma insieme occorre riconfermare in questa sede quanto ha scritto Giorgio Napolitano su “La Repubblica” del 13 maggio 1994, e cioè che “il discorso del federalismo va collocato all’interno del principio dell’unità e indivisibilità della Repubblica: questo infatti è uno dei principi costituzionali che non solo non si debbono da parte delle sinistre, ma non si possono da nessuna parte mettere in gioco”. 2. Il principio personalistico: garantito per tutti i cittadini. In ognuno la Costituzione riconosce il valore insopprimibile e inviolabile della persona umana, e quindi della pari dignità sociale ed eguaglianza davanti alla legge, senza nessuna distinzione di sesso, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di posizioni personali e sociali (art. 3). Da questo principio supremo la Costituzione deriva, prima di tutto, il diritto al lavoro (e perciò appunto la Repubblica è detta fondata sul lavoro: art. 1), e tutti gli altri diritti civili: libertà personale, inviolabilità del domicilio, libertà e segretezza della corrispondenza, libertà di circolazione e di soggiorno, libertà di riunione, di associazione, di professione religiosa, di propaganda e di culto, di pensiero, di stampa (tit. I). Al medesimo principio si riconnettono anche tutti i rapporti sociali e le relative libertà (tit. II: e in particolare il diritto alla famiglia e alla salute e alla scuola), e i rapporti economici (tit. III: e in particolare la libertà sindacale e la libertà di sciopero). Tale garanzia costituzionale dei diritti civili, sociali, economici, politici è concepita dalla nostra legge fondamentale non come un riconoscimento statico, ma come una realtà dinamica, in via di sviluppo, cioè i diritti fondamentali devono essere assicurati dalla Repubblica: – in modo negativo, rimovendo gli ostacoli di ordine economico-sociale che possono ridurre di fatto la libertà e l’eguaglianza; – in modo positivo, favorendo il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti ai vari livelli della vita del Paese (artt. 3 e 4). Di più si deve aggiungere che per non pochi di queste libertà e diritti, secondo l’opinione oggi del tutto prevalente tra i costituzionalisti (meno una piccola minoranza), non si può dare rivedibilità costituzionale restrittiva, neppure nella forma prescritta dall’art. 138. Può essere messa in dubbio solo la delimitazione delle disposizioni sottratte alla rivedibilità costituzionale, ma la immodificabilità assoluta è stata riaffermata da varie sentenze della Corte. Prima di tutto affermando, a proposito dell’art. 7 (che introduce il riconoscimento dei Patti Lateranensi), che questi Patti non potessero comunque violare le libertà fondamentali e i principi supremi della Costituzione. Poi, a proposito dell’art. 11, riaffermando lo stesso concetto a proposito dell’ordinamento comunitario europeo. Infine, nella sentenza n. 1146/1988, la Corte ha affermato: “la Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale, neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Tali sono tanto i principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quali la forma repubblicana (art. 139), quanto i principi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assogettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione. [...] Non si può pertanto negare che questa Corte sia competente a giudicare sulla conformità delle leggi di revisione costituzionale e delle altre leggi costituzionali, anche nei confronti dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale”. E un’altra sentenza, la n. 366/1991, ha affermato: “In base alI’art. 2 della Costituzione, il diritto ad una comunicazione libera e segreta è inviolabile, nel senso generale che il suo contenuto essenziale non può essere oggetto di revisione costituzionale”. 3. Terzo principio: è la consistenza costituzionale attribuita a corpi intermedi — fra la persona e lo Stato — territoriali e non territoriali: quali la famiglia, il Comune, la Provincia, la Regione, le confessioni religiose, la scuola di vario ordine e grado, le università e leaccademie, i sindacati, gli ordini professionali, i partiti, le libere associazioni di opinione, di assistenza, di volontariato, ecc.
Anzitutto va fatta qualche osservazione a proposito dei corpi intermedi territoriali: i Comuni, le Province, le Regioni (artt. 5 e 114 ss.). Ho già accennato che in materia si deve constatare una grave carenza nella volontà politica, nei decenni passati, di attuare la Costituzione in tutte le sue virtualità, sicché giustamente, da varie parti, si profilano proposte per modificare la Costituzione, nel senso del riconoscimento di una più larga e approfondita autonomia soprattutto delle Regioni: in particolare e con le proposte avanzate dalla Lega Nord e con le proposte della sinistra, oggi formulate nel solco della Commissione bicamerale della scorsa legislatura. Nelle proposte della Lega soprattutto di pochissime macro-regioni, a parte la non dissimulabile tendenza secessionistica, si deve rilevare l’irriducibile contraddittorietà costituzionale al principio dell’unità della Repubblica. Inoltre potrebbero portare — come già ha rilevato Stefano Rodotà — a una discriminazione dei diritti fondamentali dei cittadini, secondo l’area in cui si trovano a vivere: specie il diritto alla salute, il diritto al lavoro, il diritto all’istruzione. Ma ancor più sono contraddittorie allo stesso principio da cui pretendono di muovere, cioè di esaltare le autonomie locali, perché porterebbero ad affievolire o ad alterare l’autonomia già raggiunta sinora da corpi intermedi (soprattutto le singole Regioni già ben individuate, differenziate e funzionanti che verrebbero — comunque — da un lato incorporate, e dall’altro gravemente pregiudicate nelle attuali loro relazioni paritarie con altre Regioni incluse in una diversa macro-regione). Al progetto della Commissione bicamerale si può per lo meno obiettare che, spingendo — come è detto nella relazione che l’accompagna — “il regionalismo ai limiti del federalismo”, non pare abbia tenuto conto di una norma che è nella Costituzione tedesca (che oggi molti citano, forse senza averla letta), cioè l’art. 72 che attribuisce allo Stato federale il compito di mantenere l’unità politica ed economica del Paese e l’eguaglianza delle condizioni di vita dei cittadini “prescindendo dai confini territoriali di ogni singolo Land”. Questa o altra analoga norma non è detta esplicitamente nel progetto della bicamerale per fornirne il senso profondo e la chiave di interpretazione generale. Quanto invece ai corpi intermedi non territoriali, data la loro grande varietà di scopi, di funzioni, di maggiore o minore immediatezza con la sfera di sviluppo della persona, può essere difficile fare un discorso unitario generale: ma va almeno detto che alcuni di essi presentano una insurrogabilità nativa che si connette strettamente ad alcune delle prerogative più inviolabili della persona (esempio precipuo la famiglia: ma anche la scuola, e anche le associazioni volontarie per certe forme particolarmente qualificate di assistenza), e perciò si ricollegano a un altro principio fondamentale della nostra figura di Stato, che appunto stiamo per illustrare. 4. Quarto principio: che potrebbe essere detto il principio non soltanto della separazione dei tre poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario), secondo la dottrina classica dopo Montesquieu, ma piuttosto della diffusione del potere fra una pluralità di soggetti distinti, e dei reciproci contrappesi, e perciò di un più garantito equilibrio complessivo. Come recentemente ha confermato Sabino Cassese, di fronte al pericolo di una dittatura elettiva (quale quella che potrebbe immaginarsi da certi sprovveduti membri della maggioranza) o per contro di un certo tipo di rafforzamento incontrollato dell’esecutivo, cioè del governo, il potere nelle democrazie contemporanee, e così anche nella nostra Costituzione, tende a una razionalizzazione e a distribuirsi in una pluralità di soggetti veramente di estrazione diversa e tra loro indipendenti. Si hanno così: – poteri elettivi: il Parlamento, di una o due camere, elette in modo diverso, cui compete la funzione legislativa vera e propria; – ancora poteri elettivi concorrenti con i precedenti, ma in modo differenziato, per estrazione e per competenze, cioè le assemblee regionali, che si devono integrare con l’apporto delle Province e dei Comuni; – poteri non elettivi, ma designati solo in base alla loro competenza tecnica, accertata con pubblico concorso, assunti e soggetti a un ordine autonomo da ogni altro potere, per la sola funzione giudiziaria, ed espressi e coordinati dal Consiglio Superiore della Magistratura (di estrazione mista); – altri poteri, per aree sottratte, nel loro specifico più proprio, all’indirizzo del governo, e costituzionalmente garantite nella loro indipendenza: per esempio la scuola (art. 33); – infine la stessa gestione amministrativa (non nel suo indirizzo e nel suo controllo) che è compito proprio della burocrazia; – da ultimo vi è il potere di garantire la Costituzione, affidato a un organo, la Corte Costituzionale, che si potrebbe dire un vero e proprio contropotere: che può perciò annullare persino decisioni del Parlamento (proveniente esso pure da un’investitura mista: il Capo dello Stato, la Magistratura e il Parlamento). Orbene, tale razionalizzazione del potere, cioè questa distribuzione del potere fra soggetti adeguatamente distinti e contrappesati, è forse uno dei pregi più raffinati e delicati della Costituzione italiana, ne costituisce un risultato positivo e davvero meritevole della più gelosa salvaguardia, al di là di ogni riforma possibile. È anche un condensato perfettamente sintetico di tutta la nostra vicenda storica e dell’evoluzione istituzionale dell’ultimo secolo in Europa: potrà esigere qualche perfezionamento (al massimo una figura più stabile ed effettivamente coordinatrice del Primo Ministro), ma assolutamente non può essere giocata sull’onda di avventati presidenzialismi che precipiterebbero il nostro alto livello costituzionale in una regressiva catastrofe. Come pure non può essere messa in pericolo da qualunque riforma che intacchi la totale indipendenza e unità (comprese le Procure) dell’ordine giudiziario. Fra l’altro, può tornare a proposito una smentita energica di un bugiardo e incomponibile abbinamento — oggi di moda nelle fantasie riformatrici di certe parti politiche e nei discorsi più superficiali dei media —, cioè l’abbinamento federalismopresidenzialismo. Come se avesse un minimo di razionalità. Non si avverte che, o si dà un federalismo reale e forte, e allora non può esservi neppure l’ombra di un presidenzialismo efficiente, ma solo una specie di vago direttorio collegiale delle cosiddette macro-regioni; o si dà un presidenzialismo effettivo, e allora non si dà che una facciata di federalismo, destinata, prima o poi, a mostrare la sua insostenibilità reale, cioè a sparire e ad essere inghiottita dal potere accentratore dell’unico Presidente eletto dal popolo. 5. Rischi insiti nella modifica dell’art.138 sulla revisione costituzionale. Per finire, dobbiamo ancora ritornare all’articolo 138 della Costituzione circa il modo della sua revisione. Il 24 agosto scorso il Governo ha presentato al Senato un progetto intitolato dapprima Norme transitorie in materia di revisione costituzionale. Si propone cioè una modificazione dell’articolo 138 (2). L’attuale articolo 138 prevede, per la definitiva approvazione delle leggi costituzionali, il referendum popolare solo quando esse non siano state approvate nella seconda votazione prescritta delle due Camere con la maggioranza di due terzi di ciascuna Camera, e facciano domanda del referendum, entro tre mesi dalla pubblicazione della legge, un quinto dei membri di una Camera, oppure 500.000 elettori, oppure 5 Consigli Regionali. La norma transitoria, che dovrebbe essere adottata per le leggi costituzionali che saranno approvate nel corso della presente legislatura, prevede comunque il referendum popolare. Che dire? Può sembrare una concessione all’eventuale opposizione, e infine un rafforzamento della rigidità costituzionale: può sembrare, come dice la relazione del Governo, studiato perché i cittadini “possano partecipare pienamente al processo di riforme del nostro sistema istituzionale, perché soprattutto le nuove regole, suggellate dal voto popolare, divengano e siano sentite da tutti come patrimonio comune, come conquista duratura entro cui proseguire proficuamente la nostra esperienza democratica”. Ma anzitutto si può obiettare la stranezza di una norma transitoria da valere solo per la presente legislatura: e per la prossima? Ci si vuole mettere forse al sicuro dalla previsione di una alternanza nella maggioranza? Da qui il sospetto non irragionevole di una norma di comodo per l’attuale maggioranza. In secondo luogo, la concessione di un solo mese di tempo dalla pubblicazione della legge all’indizione del referendum. Soprattutto nella previsione di una riforma organica di tutta o di grande parte della Costituzione, come si può pensare che in questo lasso così breve si possa prendere da tutti i cittadini una conoscenza adeguata del progetto, dare agli esperti la possibilità di discuterlo, e sperare che le ragioni in contrario addotte dagli esperti possano rifluire con serenità e diffusamente sull’opinione pubblica? Questa è una obiezione assoluta al progetto: da fare valere in modo intransigente, richiamando i tre mesi previsti dall’articolo 138. Altrimenti il sospetto ragionevole diventerebbe certezza che tutto è preordinato per una riforma precipitosa sulla quale si vuole carpire un consenso irriflesso della gente. E poi nel merito: il referendum previsto dall’attuale articolo 138 è nell’intenzione dei Costituenti un referendum oppositivo, perciò rimesso non alla iniziativa del Governo ma di chi contesta la nuova legge costituzionale, mentre diventerebbe ora un referendum confermativo: e questo sposta tutte le previsioni sul controllo della Corte Costituzionale che deve garantire l’omogeneità e l’univocità del quesito sottoposto al popolo. La Corte Costituzionale ha più volte ribadito l’inammissibilità del referendum abrogativo avente contenuto multiplo e disorganico, come è ovvio, per l’impossibilità degli elettori di esprimersi alternativamente con un sì o un no chiaro. Ma tutto questo è relativo all’oggetto dei referendum abrogativi, quali finora sono stati sempre i referendum sottoposti al popolo. Si avrebbe così l’assurdo di un requisito necessario per il meno, cioè per l’abrogazione di una legge, e non per il più, cioè per l’introduzione di una revisione costituzionale che potrebbe estendersi a una complessa pluralità di istituti. E che cosa accadrebbe quando tra questi istituti ce ne fosse qualcuno (come il famoso tetto fiscale da non oltrepassare) che può allettare il consenso di molti e può far passar sopra ad altre più impervie riforme? Ma, anche al di fuori di questa ipotesi limite, è ben chiaro che, proponendo all’elettore una pluralità di oggetti, si tenderebbe a fare spostare l’attenzione dell’elettore non tanto sui quesiti espliciti sottoposti, ma sul quesito implicito, cioè l’approvazione generale della politica del Governo. Il costituzionalista di Firenze Paolo Barile ha proposto che il controllo sul quesito proposto al referendum confermativo, se proprio lo si volesse ritenere escluso dalla competenza esplicita della Corte Costituzionale, venga comunque esercitato dalla Corte di Cassazione in sede di Ufficio elettorale centrale; oppure che si possa sperare che il Presidente della Repubblica rilevi di sua iniziativa, come garante della Costituzione, l’inammissibilità di un referendum su un quesito complesso e disomogeneo; o che infine la Corte Costituzionale possa essere investita di un conflitto istituzionale contro l’atto presidenziale di indizione del referendum. Ma lo stesso Barile si dichiara consapevole che il vero rimedio, la soluzione lineare, sarebbe che il Parlamento varasse una modifica della legge del 1971 sul referendum, per introdurre il controllo della Corte Costituzionale anche per il referendum confermativo. Sarebbe questo il modo, retto e chiaro, di dare una prova concreta di buona fede da parte dell’attuale maggioranza. Ma lo possiamo sperare? NOTE (*) I titoli dei paragrafi, i neretti nel testo e la nota 2 sono redazionali. (1) Dati ricavati da B.LIDDEL HART - B.PITT, Storia della seconda guerra mondiale, Rizzoli, Milano 1967, vol.VI, p.525 (trad. it. dell’originale inglese History of the Second World War, Purnell, Bristol 1966, opera curata dall’Imperial War Museum di Londra). (2) Per facilitare la comprensione delle osservazioni critiche sulla proposta governativa di modifica dell’art. 138 Cost., riportiamo il testo integrale dell’articolo stesso: “Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione.– Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata, se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi.– Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti”.
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