Il tempo che resta. (Riflessione teologico/politica in un Sabato Santo.)



Il tempo che resta. (Riflessione teologico/politica in un Sabato Santo.)
Il tempo che resta
 (Riflessione teologico/politica in un Sabato Santo.)

Oracolo del silenzio.
Mi gridano da Seir:
Sentinella, quanto resta della notte?
Sentinella, quanto resta della notte?
                               ISAIA, 21, 11

Il sabato santo è per me da sempre  un tempo ed uno spazio che mi ha al tempo stesso incuriosito e spiazzato.
Per molto tempo l'ho interpretato attraverso i canoni abbastanza consueti dell'angoscia e della solitudine kirkekardiana: un tempo di attesa, sofferenza e silenzio in preparazione della visione e del compimento della resurrezione.
Un tempo definito verso un altrove, insomma.
Aiutato dal mio libraio di fiducia, un ateo ex "settantesettino" in ricerca, mi sono cimentato nella lettura del bello e intricato saggio di Giorgio Agamben che si intitola proprio: "Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani".
 In particolare oggi, ci troviamo allo stesso tempo di fronte e alle spalle la Resurrezione.
 Siamo quindi in un tempo fortemente messianico in cui il rapporto dialettico tra memoria e speranza, passato e presente, pienezza e mancanza, origine e fine necessita di un senso e di una forma.
 La risposta ce la fornisce lo stesso Paolo: egli definisce l'essenza/esistenza interna del tempo come ho nyn Kairos, il "tempo di ora".
 
Come oggi, sabato santo, ci troviamo nell'incertezza fiduciosa e sofferente che ci pone tra la morte e la Resurrezione di Gesù, così il tempo di ora si pone tra la Resurrezione e l'Apocalissi attraverso una circolarità che inverte il rapporto tra passato e futuro, tra memoria e speranza.

Passando dal testo biblico alla vita di ogni giorno è l'oggi, il tempo che ci resta, quello che è individualmente e umanamente possibile, all'interno della vita di ogni singolo essere umano: ad essere centro mobile, non destino, ma costruzione.
 E' il continuo kairos che ci obbliga ad una costante critica e rimessa in discussione e che si pone di fronte al continuo mutare del presente.
 Un presente sospeso, "in continua rivolta".
 La rivolta, come scrive Simona Urso si distingue dalla rivoluzione proprio attraverso la diversa esperienza del tempo.
 " Essere quindi dentro il tempo (la rivolta di Spartaco), e non auspicarsi in un tempo futuro (la prospettiva rivoluzionaria), è il tempo che resta."
 In questo possiamo accarezzare quello che Benjamin definirebbe "messianismo debole".
 La nostra continua rivolta si pone come argine all'assolutizzazione della violenza e del tempo, anche nel suo scontato destino, divenire del singolo e della comunità.
Da credente, scorgo e forse oltrepasso l'intuizione di Agamben.
 Il tempo che resta è proprio il contrario di quello che una teologia politica della violenza e dell'identità attualmente in voga vorrebbe farci credere assolutizzando insieme all'identità un kronos immobile nel suo scontato divenire finale.
 E' la libertà della nostra rivolta, del nostro tempo, a farci navigare in e verso una resurrezione pervadente che sta alle nostre spalle e insieme di fronte a noi.
 Nella nostra memoria, nella nostra storia, ma anche nella nostra speranza, nel nostro divenire.
Un resurrezione che non possiamo toccare, ma di cui riconosciamo i segni.
 Proprio oggi, nel tempo che ci resta, il tempo di un'incertezza declinata attraverso la memoria e la fede.
 In un sabato santo in cui il silenzio è il nostro tempo, necessario.
 Non è un altrove.
 Qui e ora.
 Il tempo che resta.

  Francesco Lauria 
 http://larete.ilcannocchiale.it
 


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