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diario da beirut n 12
- Subject: diario da beirut n 12
- From: marco at izona.it
- Date: Mon, 12 Sep 2005 09:40:21 +0200
È vecchia e stanca Khadigeh, ma non rassegnata, almeno non di quella rassegnazione sottomessa che spinge al silenzio. Ha la voce roca, il tono basso e un volto ossuto scavato dagli anni; il corpo è minuto, le mani ruvide e i lineamenti induriti ma negli occhi ha ancora una scintilla quando parla della sua Terra lontana. Lontana nel tempo, ma geograficamente così vicina che cinque anni fa - quando l’esercito israeliano si è ritirato dall’occupazione del sud del Libano - lei e suo figlio sono andati al confine per vederla, attraverso una rete. Così come loro hanno fatto in molti quei mesi; dai campi profughi di Sidone, Tiro, Beirut, Tripoli e Balbaak nei quali vivono da decenni, centinaia di rifugiati si sono andati a riempire gli occhi di lacrime e Terra di Palestina. Terra rossa di ulivi e agrumi - dice Khadigeh - che non scorda quella notte del 1956 quando è scappata con la sua famiglia lasciandosi alle spalle la casa e i campi coltivati, cacciata da un’occupazione che la ha resa profuga aprendo una cicatrice che non si è più chiusa. É cresciuta negli accampamenti, spostandosi progressivamente dal sud al nord del Libano e vedendo periodicamente la sua casa distrutta, i campi smantellati, le terre bombardate. Ricorda il cambiamento delle abitazioni da tende a baracche in lamiera, fino alle case in muratura. I nomi dei luoghi sono numerosi, quelli comuni a molti della sua generazione: Burj Al Shamale, Rashidaye, Ein El Hawe, Tall El Zaatar e poi Sabra e Chatila. Qui si è trasferita con i sopravvissuti della sua famiglia dopo l’assedio che ha portato alla distruzione di Tall El Zaatar, campo palestinese in una collina della parte orientale e cristiano maronita di Beirut. Era l’inizio della guerra civile, a breve la Green Line divise la città in due parti. I suoi genitori sono morti sperando ancora di riprendere possesso della propria casa, abbandonata improvvisamente come per rientrarci dopo poco: è stato duro dover accettare che la fuga era diventata esilio, condizione permanente. Rimane la memoria dell’abbandono: della propria Terra, della propria casa; gli anziani ne tramandano il ricordo e i giovani si stringono al mito, le chiavi di casa e i vecchi atti di proprietà conservati negli armadi – silenziosi - rivendicano un dato inopinabile: quello di appartenenza, e con esso l’inalienabile diritto al ritorno. Ho conosciuto Khadigeh Farhat un giorno che ero con Abu Maher nei corridoi del Gaza Hospital, dove lei abita con suo figlio. Salivamo di piano in piano, di scala in scala, dove io posizionavo l’occhio elettronico per registrarne i passaggi, le voci e i loro echi, i giochi dei bambini, affascinato dalla luce – e dall’assenza di luce – delle vecchie corsie d’ospedale. Corridoi scuri, attraversati da riflessi rarefatti che filtrano attraverso le porte; sostavamo, telecamera accesa, aspettando che qualcosa accadesse, e “qualcosa” non si faceva mai attendere molto. Eravamo al quarto piano, quando Samir - figlio di Khadigeh e cliente della bottega di Abu Maher - ci invita ad entrare nella loro casa. Un piccolo atrio si affaccia sul corridoio del piano, il passaggio è dal buio alla luce che viene dall’unica finestra che illumina l’ambiente; Khadigeh sorride, in piedi al centro della stanza, e fa cenno di accomodarci. Un letto singolo alle sue spalle, alla parete la bandiera della Palestina, la raffigurazione di una pagina del Corano e la foto di un bambino. Samir ha portato delle sedie di plastica sulle quali sediamo e così inizia il rituale delle presentazioni e dell’ospitalità. La casa è di due stanze, quella dove siamo e nella quale vivono e dormono, e un’altra piccolissima adibita a cucina. Le pareti sono color ocra, verniciate di nuovo, la mobilia povera ed essenziale comprende il letto, un tavolino basso ed un armadio; una tenda divide i due ambienti e sulla parete è un manifesto sul diritto al ritorno che riconosco, perchè disegnato dal mio amico e collaboratore Abed Al Rahman. È tutto ordinato e pulito, lo dico a Khadigeh che ne rimane contenta e inizia a raccontare come era il palazzo quando nel 1987 lo hanno occupato, la fatica di rendere abitabile una stanza che non aveva neanche le pareti. Era finita la Guerra dei Campi e gli uomini di Amal - prima di ritirarsi dall’assedio di Chatila - hanno rubato all’ospedale ogni sua attrezzatura, rompendo e bruciando tutto quello che non era possible portar via. Amal aveva occupato gli ultimi piani dell’ospedale, facendone postazione di tiro sul campo. Durante l’invasione israeliana del 1982 e la successiva Guerra dei Campi, moltissime famiglie palestinesi avevano nuovamente perso la loro casa, distrutta dalle bombe israeliane o dai mortai delle milizie sciite libanesi; solo il 15% delle abitazioni del campo di Chatila rimasero in piedi alla fine di quel periodo. Molti palestinesi avevano lasciato il campo ed occupato alberghi e palazzi abbandonati o in costruzione a Hamra, quartier centrale di Beirut ovest. Dopo il ritiro delle truppe di Amal i rifugiati sfollati da Chatila iniziarono a farvi ritorno, trovando cumuli di macerie al posto delle loro abitazioni, molte delle quali erano state costruite immediatamente all’esterno di quel chilometro quadrato che delimita i confini ufficiali del campo stabiliti dall’U.N.R.W.A. e riconosciuti dal governo libanese. Ferreo e tempestivo arrivò il divieto di ricostruzione all’esterno di quell’area, così la gente con l’aiuto di alcune organizzazioni locali si mosse per trovare quella che doveva essere l’ennesima soluzione abitativa provvisoria: l’occupazione del loro ospedale messo in disuso dalla guerra, il Gaza Hospital. È seduta sul letto Khadigeh, io di fronte a lei registro parole che dolorose scaturiscono dai suoi ricordi. Abu Maher mi è accanto e traduce a stento, mentre l’amarezza della disillusione non ha bisogno di alcun interprete. Vivevamo nel campo di Chatila, avevamo una casa di cinque stanze che nella Guerra dei Campi è stata bruciata da quelli di Amal; siamo scappati coi soli vestiti che avevamo addosso, abbiamo vissuto in un rifugio per cinque mesi con una creatura nata da poco. Questo era un ospedale, quando siamo arrivati abbiamo pulito e sistemato tutto e adesso viviamo qua; come avete visto portiamo l’acqua da fuori, non c’è acqua potabile e prima non c’era neanche l’elettricità, non toglievano neanche la spazzatura. Potrebbero sfrattarci da un momento all’altro e Dio solo sa dove ci buttano. Il sibilo del motorino di una pompa dell’acqua entra dalla finestra e riempie il silenzio che segue le sue parole; frequenza acuta, rumore di fondo costante nei campi palestinesi dove anche l’acqua corrente – ma non potabile - è stata una conquista. La narrazione diventa più confidenziale, Khadigeh si rivolge ad Abu Maher e il rancore dell’impotenza non si cela nella voce. Noi in Palestina abbiamo le nostre case e i nostri terreni, qua cè il nulla per noi, quella specie di case che avevamo ce le hanno bruciate. Credete che siamo contenti di stare qua? Io no, di vivere in queste condizioni; quanto dovremo sopportare ancora? Sono uscita dalla Palestina nel 1956, quanto mi resta ancora da vivere? Da qui potrebbero cacciarci da un momento all’altro, ho smesso di chiedermi se un giorno tornerò. È Youssef a fare la domanda, la conversazione tra loro prosegue noncurante della telecamera ed io ne sono testimone. Non parlo arabo, mi abbandono agli sguardi e al suono della voce, all’atmosfera empatica che ormai pervade la stanza. Dove andresti se potessi andar via di qua, torneresti in Palestina? In Palestina dove? – incalza lei - Non ho più niente la, la stanno distruggendo giorno dopo giorno…dove potremo tornare?! Quanti anni sono passati? Cercando di ricordare da quanti anni è stata cacciata da casa, Khadigeh guarda verso la parete, alza il braccio e ora si rivolge a me, indicando il poster di Abed che ha disegnato al centro la chiave di una porta. Da quanti anni siamo andati via, guarda la! In queste condizioni oggi è sempre meglio di domani. Si è fatto tardi, finiamo di sorseggiare il tè e Khadigeh ripone il vassoio nella cucina semibuia, illuminata da un unico neon e senza affacio all’esterno. Siamo di nuovo in corridoio e poi nelle scale del Gaza Building, è ormai sera e con Abu Maher scendiamo da lui per mangiare qualcosa con la sua famiglia. L’aria è fresca, ovattata una musica arriva da una delle tante finestre dell’ospedale che si affacciano nel cortile, dove ora sediamo. Sono pensieroso e Abu Maher se ne accorge, lascia il tempo al silenzio. Vedi, la nostra speranza è quella di tornare nella Terra dalla quale siamo stati dispersi dopo il 1948: è un diritto sacro per tutto il popolo palestinese. Non si può permettere a nessuno di metterlo in discussione, ogni palestinese ha il diritto al ritorno nella Terra dalla quale ci hanno cacciato, e noi continueremo a lottare per ottenerlo. Da Beirut, 7 settembre 2005 Kinoki mrc Questo racconto fa parte del diario di lavorazione di un progetto di documentazione a lungo termine; se non volete più riceverlo vi prego comunicarlo e scusare il disturbo. Il dvd di un documentario di 26 minuti, girato negli stessi luoghi e preparatorio a questo, è in vendita ad euro 15 a copia per auto-finanziamento. Per informazioni: Marco Pasquini Autoproduzioni Abbasso il GradoZero marco at izona.it
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