Fw: Intervista a Walden Bello: "Il Movimento italiano contro la guerra indica la strada"
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- Date: Thu, 12 May 2005 09:38:02 +0200
Vi inoltro questa intervista con Walden Bello che
fa il punto sul movimento contro la guerra.
Credo essa sia utile anche per focalizzare le
tematiche dell'assemblea nazionale di domenica 15 maggio in Via Marsala a Roma
in cui si decideranno le ulteriori inizative per il ritiro delle
truppe dall'iraq, contro la presenza delle basi militari e contro le aggressioni
da parte delle potenze occidentali ai paesi del terzo mondo.
Roberto
Questa intervista è stata rilasciata il 9
maggio da Walden Bello al Comitato Nazionale per il ritiro delle truppe
dall’Iraq come breve bilancio di un suo recente giro di conferenze contro la
guerra in Canada, Malesia, India, Olanda e
Italia. Il Movimento italiano
contro la guerra indica la strada intervista a Walden
Bello* Qual è la condizione del movimento contro la
guerra? Bene, attualmente continua
ad avere un potenziale enorme. È vero che le manifestazioni del 19 e 20 marzo
nel 2004 e 2005 in corrispondenza dell’anniversario dell’invasione dell’Iraq
sono state più piccole delle manifestazioni del 2003. Vero è che molte persone
sono scoraggiate dopo che le manifestazioni del 2003 non sono riuscite a
impedire l’invasione dell’Iraq, ma le persone stanno lavorando per una
resistenza di lunga durata e si muove in nuove direzioni in termini di tattica.
Se noi guardiamo la situazione come ad un match di box di 10 round, siamo solo
al secondo. Che cosa vuoi dire? Guarda gli USA. È vero che
quest’anno non ci sono state grandi manifestazioni il 20 marzo, ma ci sono state
iniziative contro la guerra in più di 700 città. La gente sta aumentando gli
sforzi per educare gli americani ordinari contro la guerra. Questo aiuta a fare
la differenza: tra gli americani la richiesta del ritiro dall’Iraq si sta
consolidando. Guarda l’Italia, dove la
disaffezione pubblica alla partecipazione dell’Italia nella guerra è alle sue
punte massime a causa dell’uccisione di al check point dell’agente italiano
Nicola Calipari: Il movimento contro la guerra sta indicando la strada al resto
del mondo. Sta portando la guerra a casa, per usare un’espressione del Vietnam.
Un movimento di cittadini,
tra i quali c’era il parlamentare italiano Mauro Bulgarelli, ha con successo
evitato che le autorità italiane offrissero l’aeroporto di Rimini a Washington
per servire da supporto logistico alla guerra in
Iraq. Per segnare il 25 aprile,
giorno della liberazione dal fascismo, circa 300 persone hanno protestato
davanti a Camp Darby, vicino Pisa, chiedendo la chiusura della base. Ho appena
concluso un giro a Sassari e Cagliari in Sardegna, dove si sono tenuti due
importanti incontri pubblici, dove è emersa la richiesta urgente della chiusura
della base americana nucleare della Maddalena. La Sardegna è un punto critico,
essa contiene il 60% dello spazio italiano occupato dalle masi americane. È come
Okinawa rispetto al Giappone. Un incidente ha coinvolto un sottomarino nucleare
due anni fa mettendo in evidenza quanto sia vulnerabile la Sardegna. Questo ha
aiutato la formazione di un più grande movimento contro il mantenimento della
base militare nell’isola. E ora questo movimento si sta rafforzando e dà un
importante contributo al movimento contro la guerra in Italia. Questo è quello
che io intendo quando dico “portare la guerra a casa”: una battaglia continua
del movimento contro la guerra in Italia. L’Italia è un caso dove una
delle non intenzionali conseguenze della guerra in Iraq è stata rendere noto
agli italiani quanto massiccia sia la presenza americana nel loro paese, quanto
compromessa sia la sovranità del proprio paese. Io spero che questo esempio darà
forza ai movimenti contro la guerra anche ai due paesi asiatici che hanno basi
americane, Giappone e Corea del Sud. Quali sono
le priorità del movimento contro la guerra? Ovviamente la fine
immediata dell’occupazione in Iraq. Ma per ottenere questo molte cose devono
essere fatte. Per il movimento della pace europeo, la priorità è portare Italia
e Gran Bretagna fuori dalla guerra. La partecipazione di questi due governi,
nonostante le grandi opposizioni popolari, continua a lasciare all’occupazione
americana legittimità. Tu dici che ci vogliono nuovi sistemi per combattere gli
Stati Uniti. Quali sono? Come dico sempre, primo
dobbiamo superare i confini. secondo, è necessario portare nuove tattiche di
lotta come chiudere gli uffici della Hulliburton in giro per il mondo e iniziare
una grande disobbedienza civile di massa. Dobbiamo andare al di là delle marce e
delle manifestazioni. Terzo, dobbiamo portare la guerra a casa, legare la guerra
a situazioni locali come le basi americane. Quarto, dobbiamo legare il movimento
contro la guerra globale e i movimenti delle società civili del mondo arabo e
del medio oriente, che significa reagire all’accusa di terrorismo che Washington
muove ai movimenti arabi e lavorare insieme. Dobbiamo farlo perché il medio
oriente è strategico per le prossime decadi e non vinceremo se non cooperiamo
con gli attivisti di quella parte del mondo. Qual è la
situazione in Iraq a questo punto? Gli stati Uniti non stanno
vincendo. Non ha convinto nessuno il tentativo di far apparire con le elezioni
l’inizio un nuovo gioco in Iraq chiamato democrazia. Una elezione boicottata da
milioni di persone – nei fatti, la maggioranza dei sunniti – e tenuta sotto
occupazione militare è difficile poi venderla al mondo come legittima.
Militarmente gli USA hanno 135.000 soldati, ma ne sarebbero necessari altri
500.000 o un milione per sconfiggere la guerriglia. Portare altri soldati provocherebbe
scioperi e reazioni negli USA, questo è il motivo per cui gli USA disperatamente
pressano Gran Bretagna e Italia a non lasciare la “coalizione dei volenterosi” e
mantenere le truppe in Iraq. Con Ungheria e Olanda che hanno ritirato le truppe
e la Polonia che ha detto di volerlo fare, il Pentagono parla sempre meno dei
suoi alleati come di una coalizione e parla di forza
multinazionali. Quali
saranno i prossimi target dell’intervento americano? In effetti gli Stati Uniti
sono meno capaci oggi di portare all’esterno un intervento militare rispetto al
2003. Essere inchiodati in Iraq per gli USA significa non avere in campo altre
forze per lanciare una nuova avventura militare in Iran, Corea del Nord, Siria o
Venezuela. Sono possibili bombardamenti chirurgici ma non interventi di terra e
occupazioni. Nel tuo libro Dilemmas of Domination parli della
crisi di sovraestesione degli USA. Cosa
significa? La resistenza irachena ha di fatto reso
molto difficile per gli Stati Uniti intervenire in altri luoghi e ha esacerbato
la condizione di sovraestensione degli USA globalmente. Mai sottostimare
l’imperialismo americano ma nemmeno sovrastimarlo. Guarda: gli USA stanno
perdendo la cosiddetta guerra contro il terrore, l’alleanza Bush-Sharon non sta
vincendo in Palestina, La NATO è morta, il governo Karzai appoggiato dagli Stati
Uniti controlla una o due città in Afganistan e forze anti-americane e anti-neoliberali hanno preso il potere
attraverso elezioni e con l’appoggio popolare in America Latina. La correlazione
globale di forze è contro gli Stati Uniti, questo non significa che il potere
degli USA finirà presto. C’è da fare un duro lavoro da parte nostra. Come ho
detto prima, siamo solo al secondo round in una partita di 10 rounds. Ma questo
significa che l’impero non è onnipotente. a
cura del COMITATO NAZIONALE PER IL RITIRO DELLA TRUPPE
DALL’IRAQ Viadalliraqora at libero.it *Direttore Esecutivo del
“Focus on the Global South”, basato a Bangkok, e Professore della Sociologia e
l’Amministrazione Pubblica presso l’Università delle
Filippine Traduzione di Cinzia Della
Porta |
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