[Prec. per data] [Succ. per data] [Prec. per argomento] [Succ. per argomento] [Indice per data] [Indice per argomento]
Rinvio discussione riforma codici militari
- Subject: Rinvio discussione riforma codici militari
- From: ufficio stampa Elettra Deiana <uffstampa_edeiana at libero.it>
- Date: Thu, 10 Mar 2005 17:06:40 +0100
Roma 10 marzo 2005 Martedì 8 marzo è stato nuovamente bloccato l'iter di approvazione della legge delega sulla riforma dei codici militari di pace e guerra e durante la discussione è stato rifiutato l'emendamento di incostituzionalità presentato dalla deputata Anna Finocchiaro (Ds). La discussione sul provvedimento, tornato alla Camera dopo la creazione di una commissione ristretta che non ha apportato modifiche sostanziali al testo, è stata rinviata ad aprile. L'opposizione ha così ottenuto il rinvio, almeno di un mese, della votazione sulla revisione dei codici militari di guerra e di pace. Obiettivo raggiunto anche grazie alla mobilitazione di associazioni e movimenti che in questi mesi hanno cercato di sensibilizzare l'opinione pubblica. È importante continuare a mantenere alta l'attenzione, affinché si possa ampliare il dibattito dentro e fuori l'aula in attesa di tornare alla discussione parlamentare. INTERVENTO IN AULA DI ELETTRA DEIANA (capogruppo Prc Commissione Difesa) 8 MARZO 2005 Signor Presidente, il provvedimento di delega al Governo per la revisione dei codici penali militari di guerra e di pace costituisce l'ipotesi di una radicale trasformazione dell'ordinamento giuridico italiano; trasformazione estremamente negativa sia sul piano ordinamentale, sia - cosa ancora più grave - perché intende legittimare il ricorso all'uso della forza militare al di fuori ed in contrasto con i vincoli costituzionali. In tal senso configura, a nostro parere, un vero e proprio attentato alla Costituzione repubblicana. L'intenzione politica del Governo e della maggioranza è quella di rendere funzionale la norma giuridica al tempo della guerra infinita e preventiva in cui siamo incorsi e alle concrete scelte di guerra che un tale tempo, indefinito e indefinibile per definizione, comporta. Pertanto, viene aggredito alla radice l'articolo 11 della Costituzione, che viene ridotto, nei riferimenti un po' giaculatori di questi tempi, ad un semplice riferimento etico che non ha più alcuna forza di inibizione e di orientamento sulle concrete politiche internazionali. La partecipazione italiana ad avventure belliche, stando alla Costituzione, è infatti interdetta dall'articolo 11, che dovrebbe costituire un principio fondamentale dell'ordinamento. Tale principio è tutelato essenzialmente da garanzie politiche e procedimentali che la Costituzione prevede con estrema precisione. Occorre che lo stato di guerra sia deliberato da parte delle Camere, che queste ultime conferiscano al Governo i poteri necessari per condurre la guerra, e che il Presidente della Repubblica faccia una dichiarazione di guerra. Ma una maggioranza come l'attuale, che non condivide affatto o giudica superati i vincoli costituzionali, può facilmente ignorare tali principi operando scelte in forte contrasto con gli stessi, come la sventurata partecipazione alla guerra in Iraq ha mostrato e continua a mostrare. Su tale versante, gli strappi anticostituzionali del testo sono davvero tanti e tutti estremamente negativi. Occorre, evidentemente, tenere presente il contesto internazionale per capire perché si operi in tal senso. Le strategie imperiali degli Stati Uniti hanno oramai aperto nel mondo uno stato di eccezione, che costituisce la regola delle relazioni internazionali. Questo stato di eccezione è destinato a durare; dunque, se ne dovrebbe discutere seriamente, fuori da ogni retorica circa il ruolo pacificatore degli Stati Uniti e dei suoi alleati. La seconda amministrazione Bush non promette nulla di buono, poiché ha ricominciato a dilettarsi in allarmi e minacce rivolte agli «Stati canaglia» di turno (Siria ed Iran, in primo luogo). Tali strategie hanno imposto uno stato di guerra che si trasforma in una traiettoria temporale di durata interminabile, mentre la distinzione tra guerra e politica si fa sempre più labile ed incerta; oggi la guerra tende ad ampliarsi oltremisura e si trasforma in una relazione sociale permanente e costitutiva delle relazioni internazionali. In tal modo, viene meno il vincolo di alcune grandi Costituzioni europee e della Carta dell'ONU ad agire attraverso la mediazione diplomatica e i tentativi di politiche di pace per dirimere le controversie internazionali. Dunque, tutto ciò viene meno, anzi appare un ingombro obsoleto. L'Italia si è voluta adeguare alle strategie di dominance militare degli Stati Uniti; questa maggioranza e questo Governo hanno voluto spingere fino alle estreme conseguenze la sua subalternità strategica in materia internazionale, accogliendo per buone le ragioni delle guerre in Afghanistan e Iraq, rendendosi complici della violazione del diritto internazionale e della riduzione dell'ONU ad ufficio notarile di avallo delle decisioni prese dalla Casa Bianca. Pertanto, si è reso necessario l'adeguamento della strumentazione giuridica al fine di concorrere più agevolmente alle nuove avventure militari di questa epoca storica. Che di questo si tratti ne dà testimonianza, sia pure da un altro punto di vista, la stessa relazione introduttiva al provvedimento in esame, quando afferma che bisogna recepire le recenti trasformazioni del quadro internazionale. E quali sono le recenti trasformazioni del quadro internazionale se non l'irruzione sullo scenario mondiale delle cosiddette nuove guerre, ovvero delle guerre asimmetriche, che hanno fatto deflagrare tutti i contesti relazionali di rapporti tra gli Stati e di concezione del nemico che costituivano l'architrave del diritto bellico precedente? Tali princìpi non sono più presenti, e quindi si richiedono nuove formulazioni giuridiche per rendere digeribile le nuove forme di guerra volute dalla potenza imperiale statunitense. Fino ad oggi quello che ha reso particolarmente problematica la partecipazione italiana ad operazioni belliche all'estero è stata la carenza di un quadro normativo adeguato. L'arsenale normativo dei codici penali militari di pace e di guerra, entrambi approvati con regio decreto del 20 febbraio 1941, e dell'ordinamento giudiziario militare, approvato con regio decreto del 9 settembre 1941, risale ad un'altra epoca storica. Esso contiene norme e princìpi palesemente inutilizzabili, nonché strumenti che non possono essere riesumati perché seppelliti per sempre dalla Costituzione. Pertanto, si trattava di attualizzare la necessità del codice militare penale di guerra, inserendolo in un contesto che rendesse accettabile tale decisione. Quando, dopo il 1989, è iniziato l'attivismo delle missioni militari italiane all'estero, è balzato subito agli occhi che lo strumento del codice penale militare di guerra non poteva essere adoperato direttamente. Le varie leggi e leggine che hanno finanziato le missioni in Somalia, in Bosnia e nel Kosovo hanno sempre contenuto una norma che prevedeva l'applicazione del codice penale militare di pace, in deroga all'articolo 9 del codice penale militare di guerra, che dispone l'applicazione automatica della legge di guerra ai corpi di spedizione all'estero. L'intensificarsi delle missioni militari e, soprattutto, l'accentuarsi del loro carattere potenzialmente o fattualmente belligerante hanno poi creato problemi di vario genere, compreso quello della protezione del personale impegnato nelle missioni, nonché quello della perseguibilità dei crimini di guerra, come prima ricordato all'onorevole Pisa. Essi infatti non potevano essere risolti dal codice penale militare di pace. Quindi, si è dato inizio a tale processo di riforma, mirato a restaurare e a mascherare dietro un belletto di accettabilità il codice militare penale militare di guerra, per rendere la legge marziale pienamente utilizzabile. Ovviamente, si tratta di una operazione di restyling di un codice fascista, ovvero un codice penale militare di guerra «precostituzionale», ispirato ad una concezione assolutamente diversa delle relazioni internazionali, del diritto di cittadinanza e della funzione delle Forze armate. Quindi, l'attualizzazione di tale testo è un atto politico di estrema gravità. Esso, infatti, è stato «in apnea» per sessant'anni: doveva rimanerci per sempre, e doveva essere sostituito, se necessario, da un nuovo codice militare, ispirato ai principi della Costituzione e, dunque, difficilmente definibile quale codice penale militare di guerra, dal momento che la guerra è interdetta dalla Costituzione stessa. Attualizzare il codice del 1941, sia pure modificato dalle leggine che ne hanno accompagnato l'utilizzazione nella missione in Afghanistan, significa compiere un atto di estrema gravità sul piano storico-giuridico, con la riproposizione e la riabilitazione di un testo legislativo che non è stato sottoposto, nei sessant'anni trascorsi, ad alcuna seria reinterpretazione giurisprudenziale e che contiene dunque, nella logica e nella lettera, tutti gli aspetti del contesto che lo ha reso possibile. Viene dunque fissato un nuovo incipit della normativa penale militare estremamente negativo. Come ho già sottolineato, con il decreto-legge dell'1 dicembre 2001, n. 421, recante disposizioni urgenti per la partecipazione dei militari italiani all'operazione Enduring freedom in Afghanistan, è stata riesumata per la prima volta la legge di guerra. Nella legge 31 gennaio 2002, n. 6, con la quale è stato convertito il predetto decreto, è confluita una mini-riforma del codice di guerra che ha cancellato alcune disposizioni abnormi, come quella che consentiva, in circostanze particolari, l'esecuzione immediata delle spie, o quella relativa al potere del comandante supremo di legiferare emanando bandi militari. È stata inoltre soppressa la condizione di reciprocità che impediva la punibilità dei reati contro le leggi e gli usi di guerra commessi dai militari italiani. Sono stati dunque compiuti alcuni passi, che tuttavia non potevano supplire al vuoto derivante dall'assenza di uno strumento organico, vale a dire di un codice vero e proprio, volto a fare fronte al carattere sempre più apertamente belligerante delle nostre missioni militari. Si è quindi giunti al disegno di legge di riforma complessiva della materia, presentato lo scorso anno al Senato dai ministri Martino e Castelli: una riforma ambiziosa, è stato detto, che mira a una profonda riscrittura dei codici penali militari di pace e di guerra ed introduce incisive modifiche nell'ordinamento giudiziario militare, come è stato ricordato dall'onorevole Pisa e dai relatori di minoranza. Si è operato sul versante dell'ordinamento giudiziario militare un vero e proprio salto all'indietro rispetto ai positivi processi, intervenuti nei decenni precedenti, di assunzione di consapevolezza crescente circa il carattere arcaico e obsoleto della magistratura penale militare e la conseguente necessità di organizzare l'intera materia facendo prevalentemente riferimento alla magistratura ordinaria. Due linee guida orientano l'intero progetto. La prima è costituita dall'esigenza di mantenere in vita ed, anzi, di incrementare l'asfittica giurisdizione militare, che è stata abolita in tutti i paesi della NATO, ad eccezione della sola Turchia. La seconda - e si tratta dell'aspetto che ritengo più inquietante - è data dall'esigenza di abbassare la soglia fra pace e guerra, riesumando le leggi di guerra e rendendole pienamente utilizzabili ed automaticamente instaurabili: si tratta di quello che ho definito come un attentato alla Costituzione. L'attentato alla Costituzione consiste nell'introduzione di una distinzione e separazione, sul piano concettuale prima ancora che su quello pratico, tra stato di guerra e tempo di guerra, tra piano interno e piano esterno. Stando alla Costituzione, alla sua logica ispiratrice oltre che alla lettera, non vi è differenza tra l'uno e l'altro, essendo il tempo di guerra una conseguenza dello stato di guerra oppure essendo una condizione ex ante, che richiede, per ricorrere all'uso della forza militare, la dichiarazione di uno stato di guerra. Esiste, quindi, nei fatti, un intreccio, una connessione politica e giuridica, se non immediatamente temporale. Pertanto, il tempo di guerra è la conseguenza dello stato di guerra, o ne è la premessa immediata, come ricordavo poc'anzi. Lo stato di guerra, inoltre, è la conseguenza, ove ne esistano i presupposti di obbligo di difesa del territorio nazionale, di un preciso voto del Parlamento. Si tratta, quindi, di tre momenti fra loro assolutamente connessi: tempo di guerra, stato di guerra e dichiarazione dello stato di guerra da parte del Parlamento. Lo stato e il tempo di guerra, di conseguenza, oltre che essere connessi nella logica della Costituzione, non suppongono distinzioni sul piano giuridico tra quanto accade sul territorio nazionale e quanto accade negli altri territori su cui dovesse estendersi l'azione militare del nostro paese. Lo stato di guerra, ed il conseguente tempo di guerra (o, nel rapporto inverso, tempo di guerra-stato di guerra), oltre che non essere separabili - e ciò è essenziale stando alla Costituzione -, non sono materia a disposizione del potere esecutivo. La Costituzione dispone rigorosamente che soltanto nel Parlamento risieda il potere di operare un tale gravoso passo. L'articolo 4 del provvedimento in esame, invece (come ricordava chiaramente la collega Pisa poc'anzi), scombussola definitivamente questi vincoli costituzionali e gli assetti giuridici che ne conseguono. Siamo, quindi, di fronte ad un vero e proprio colpo di mano: la decostituzionalizzazione dell'articolo 11 della Carta costituzionale e, di conseguenza, la rilegittimazione delle norme più dure della disciplina militare. Per riprendere un concetto già espresso, il tempo di guerra e la separazione dallo stato di guerra sono un aspetto di tale importanza che avrebbero richiesto una discussione approfondita, anche sul versante strettamente costituzionale. Mentre, invece, come ricordato dai colleghi, la discussione su tutta questa materia è stata frettolosa e clandestina. La discussione si è svolta al Senato nel silenzio pressoché totale e senza che si svolgesse alcun dibattito pubblico: non si sono tenute audizioni, nulla. Mentre alla Camera abbiamo compiuto una fatica enorme per ottenere lo svolgimento di audizioni, con la possibilità di un confronto con esperti della materia ed esponenti di associazioni ed organizzazioni interessate, a partire dai Cocer e dai magistrati militari, che sono direttamente parti in causa. La connessione tra tempo di guerra e dichiarazione dello stato di guerra è l'evento che segna l'entrata in vigore delle leggi di guerra, la condizione risolutiva e immanente della loro applicabilità. Tale stretta connessione, e questa conseguente applicabilità, si evincono in modo particolare dallo stesso articolo 3 del codice penale militare di guerra del 1941. L'articolo 3, infatti, stabilisce che la legge penale militare di guerra si applica dal momento della dichiarazione dello stato di guerra sino a quello della sua cessazione. Ovviamente, il codice del 1941, ancorché di epoca fascista, era ispirato ad una logica del diritto bellico che dimensionava fortemente il diritto di adire all'uso della forza militare entro determinate regole e, soprattutto, entro determinati poteri dello Stato. Di conseguenza, siamo di fronte al rischio di una deroga rispetto alle stesse disposizioni dell'articolo 3 del codice penale militare di guerra, che attribuisce all'esecutivo la possibilità di ricorrere all'uso della forza militare, con il rischio che la deroga si trasformi in principìo, come nei fatti è, in quanto il testo di legge in esame non fa altro che normalizzare, da una parte, l'emergenza e, dall'altra, la continua rottura dei vincoli normativi esistenti, con la trasformazione dell'eccezione in regola. Il timore che avverto, quindi, è quello di un insidioso e progressivo assorbimento dello stato di pace nello stato di guerra, di un ulteriore cedimento (gravissimo, per quanto riguarda il nostro paese, se dovesse essere approvato tale provvedimento) all'ideologia della guerra permanente e ai suoi terribili progetti. Nel nuovo ordinamento globale la guerra va normalizzata: queste sono le direttive della potenza imperiale, il senso del Patriot Act, ed è quello che sostanzialmente viene recepito nel provvedimento in esame. Ricordo ancora dalla relazione: «La dimensione bellica fa ormai parte della nostra vita, del nostro orizzonte quotidiano. Fa parte - viene detto espressamente - del tempo normale di vita dell'ordinamento giuridico. Come dire, l'emergenza bellica è destinata a divenire la norma (...). Anzi non è più emergenza, perché nel nuovo ordine globale la guerra è oramai in grado di coesistere con una normale situazione ordinamentale». Si tratta non di parole mie né di quelle di qualche pacifista incallito, ma delle parole che accompagnano il testo e che quindi sono elementi coordinatori del ragionamento attraverso cui è costruita la relazione introduttiva. Sostanzialmente, la maggioranza ci dice che ormai dobbiamo coabitare e convivere con il nuovo ordine globale della guerra. Siamo in presenza, con l'accelerazione sul piano normativo, dell'accettazione del processo di normativizzazione dello stato di eccezione, inteso come «paradigma di governo dominante della politica contemporanea». Voglio ancora rapidamente ricordare un altro elemento che viola il tradizionale diritto bellico e che, sostanzialmente, introduce elementi di normalizzazione delle nuove guerre: la dilatazione, cioè, della nozione giuridica di «conflitto armato» anche alla lotta al terrorismo. Sostanzialmente, le azioni terroristiche, dalle più banali alle più tremende, vengono rubricate come fenomeni di conflitto armato. Ciò è in contraddizione con le disposizioni dello stesso codice penale militare di guerra, dal momento che l'ordinamento internazionale, rispetto alla lotta al terrorismo, non consente il ricorso alla forza a fini sanzionatori. In sostanza, i terroristi debbono essere sanzionati; occorre operare nei loro confronti come se si trattasse di criminali. E le loro azioni, conformemente al diritto internazionale, non dovrebbero essere catalogate come atti di guerra ma come crimini contro l'umanità; allo stesso modo, il loro statuto non dovrebbe essere quello dei belligeranti ma quello dei criminali. In questo modo, si avrebbe una precisa definizione del terrorismo e dei terroristi; ed essi, come tali, dovrebbero essere sottoposti all'azione della polizia internazionale ed essere, quindi, perseguibili in via giudiziaria sulla base di adeguate misure preventive e repressive, ma non certamente con la guerra. Questa dilatazione abnorme del concetto di guerra e di conflitto armato è, in realtà, il meccanismo ideologico-culturale attraverso cui la potenza imperiale pretende di attribuirsi il diritto a ricorrere alla guerra per contrastare qualsiasi situazione, propria di Stati - come è possibile osservare dalle varie vicende storiche, si è trattato di vere e propria guerre nei confronti di Stati -, in nome di quelle azioni e vicende terroristiche catalogate come conflitti armati e, sostanzialmente, come fenomeni di guerra. Concludo, ricordando molto brevemente tutte le conseguenze negative che questo provvedimento comporta sul piano dei diritti. Segnalo, in particolare, che l'articolo 4 dello stesso è stato già bocciato in Commissione. Ciò ha permesso di sottrarre al Governo tutta la materia relativa al codice penale militare di guerra. Questo, come ricordava poc'anzi la collega Pisa, aveva significato per noi la speranza (che poi si è rilevata invece un'illusione), che da parte del Governo vi fosse la volontà di procedere ad una ridiscussione e ad una riflessione più seria dei rischi che questa materia comporta. Purtroppo, nessuna seria preoccupazione è stata manifestata da parte della maggioranza, neanche di fronte alle reiterate critiche provenienti da tutti i soggetti interessati al provvedimento. Pertanto, il contenuto dell'articolo 4 ci verrà riproposto, sebbene, lo ripeto, la materia trattata in questo articolo contiene una serie di aspetti che contrastano con i diritti fondamentali, anche questi sanciti dalla Costituzione, della libertà di informazione e della libertà di azione nelle zone di guerra. Quello al nostro esame è per noi un provvedimento che si caratterizza in tutti i suoi aspetti per un'estrema gravità; conseguentemente, noi siamo fortemente contrari ad esso. Ci auguriamo pertanto che non abbia seguito e che il suo cammino sia bloccato. Questo permetterebbe al Parlamento di riconsiderare la materia in tutti i suoi aspetti, ad iniziare dai contesti internazionali, che oggi obbligano a percorrere questo genere di strada. Noi dovremmo quindi rifiutarci di adeguarci pedissequamente alle logiche di queste nuove guerre e dovremmo avere il coraggio di riconsiderare nel loro complesso le vicende delle guerre svoltesi nel corso degli anni Novanta e all'inizio del 2000. Il testo di un provvedimento fondamentale come quello relativo ai codici penali militari dovrebbe nascere dal concorso di tutte le forze politiche presenti in Parlamento; si tratta infatti di un testo non di parte, ma destinato al paese e, come tale, andrebbe sottratto alle scelte politiche contingenti di questa o di quella maggioranza .
- Prev by Date: Giuliana e Il Manifesto sotto attacco
- Next by Date: Prof.LUIGI LOMBARDI VALLAURI
- Previous by thread: Giuliana e Il Manifesto sotto attacco
- Next by thread: Prof.LUIGI LOMBARDI VALLAURI
- Indice: