Se le torcessero un capello



Se le torcessero un capello
lanfranco caminiti [www.reporterassociati.org]

È vero, non sappiamo con precisione chi tenga Giuliana Sgrena.
Presumibilmente,  è stata rapita da un gruppo di banditi allettati
dall'idea di fare soldi in fretta con un riscatto in denaro; altrettanto
presumibilmente adesso è nelle mani di un gruppo politico-militare di
fondamentalisti islamici o di ex sostenitori del regime di Saddam o un
miscuglio d'essi e qualcos'altro ancora, e è questo gruppo in questo
momento il responsabile del sequestro e l'unico che può deciderne la
liberazione. Chiunque l'abbia in mano è poco compassionevole e feroce.
È vero, il sequestro, il rapimento, il «ratto» è un gesto odioso:
annichilisce chi è nelle mani dei sequestratori, fa delle persone oggetti,
cose, strazia i sentimenti e gli affetti, porta già con sé un carico d'odio
e di disperazione che rende ogni cosa imprevedibile, sul filo d'un rasoio
dove tutto può precipitare per un nonnulla e niente dei passi che fai, di
quello che dici può mai rassicurarti fino all'ultimo che tu stia facendo la
cosa giusta, che tu stia dicendo proprio quelle parole che vanno dette,
rovesciando su di te il senso di colpa e la responsabilità. A volte puoi
ritenere che un «protocollo di comportamenti» - quelle cose che si fanno
sempre in queste condizioni - sia l'unica strada giusta per non dar fuori
di senno. I video dei sequestrati, in catene, in lacrime, supplicanti come
chi ti spiega per la millesima volta che c'è un'unica idea che conta e
quella devi afferrare aumentano il senso del tuo smarrimento. Cos'altro
puoi fare ancora che non hai già fatto? Cos'è che non hai capito?
È vero, Giuliana Sgrena è stata poco prudente e poco cauta. Restare era
irragionevole. Nessuna linea di condotta della propria vita fa da scudo
quando la sottile linea rossa della guerra attraversa ogni cosa. Tutti i
giornalisti erano da tempo nel mirino: avrebbe già dovuto lasciare l'Iraq,
non incaponirsi a raccogliere storie e risvolti di storie, ad andarsi a
cercare persone, facce, ferite, lutti che potessero dire il loro «racconto»
di quello che sta succedendo a Bagdad e in Iraq, che non tutto fila proprio
come c'era stato detto sarebbe filato e che il prezzo che si sta pagando è
davvero troppo alto qualunque sia il beneficio o la missione. Avrebbe
dovuto chiedersi se valesse la pena morire per Bagdad. Se c'è qualcosa che
possa mostrare come l'opposizione a questa guerra, all'atteggiamento
americano e alla follia terrorista non sia un sottrarsi alle
«responsabilità», non sia evacuare prudentemente e cautamente in una terra
di nessuno al riparo ma al contrario scegliere con semplice determinazione
la posizione più scomoda, esporsi in prima persona, anche sconsideratamente
come sconsiderato è battersi per la pace quando infuria la guerra, qui si
mostra con evidenza. Qui forse stanno anche le ragioni di una mobilitazione
forte e pure non dai caratteri «popolari», non «sentimentale». Giuliana
Sgrena in Iraq ci stava con i motivi d'un movimento, non d'una «nazione». E
neppure solo d'un mestiere. È vero, lo sgomento e il dolore per il
sequestro di Giuliana Sgrena colpiscono anzitutto i suoi familiari, i suoi
affetti, i suoi compagni. Ma anche, a onde larghe, il mondo sociale che ha
chiesto da sempre la fine della guerra in Iraq, di questa guerra. Nessun
altro può capirlo. È un dolore al petto ma è anche un dolore alla testa,
alla ragione. Ho la sensazione che l'onda d'urto di questo sequestro non ci
sia ancora del tutto esplosa dentro: ne abbiamo avvertito il boato, ma la
sua conflagrazione non è ancora completamente arrivata. Ci sono mille cose
da fare e non c'è tempo per fermarsi a riflettere: dopo, dopo. Io, a
esempio, ne sono frastornato. Tutto si arrovescia nel suo contrario, non
capisci dove sia la testa e dove i piedi. Siamo sotto schiaffo. Con
spontaneità ci mobilitiamo, con altrettanta consapevolezza sappiamo che non
è questa la «carta vincente». Questa è la nostra «parte». Solo una parte. È
vero, le istituzioni sono «carine» e gentili e compunte. Visitano,
stringono mani, abbracciano, sostengono. Si stanno prodigando per stabilire
un contatto con chi ha rapito e comunque detiene Giuliana Sgrena. Stanno
facendo il possibile, riferiscono con dovizia a chi di competenza, vigilano
sempre all'erta, la questione è verosimilmente al primo posto nelle loro
agende, e l'intelligence si adopra sul terreno come e più di quello che
possiamo immaginare. Sono vicine e compassionevoli.

Cionondimeno la guerra continua, col suo carico di bombe, attentati,
sequestri, kamikaze, militarizzazione, morti, feriti. Irrimediabilmente.
C'è bisogno di qualcosa d'altro, di qualcosa che sia ancora di più, più
degli appelli, più delle trattative, più delle mobilitazioni, delle
solidarietà. Qualcun altro deve fare davvero la sua, di parte. Ci vuole uno
scarto, un «cedimento». Un cedimento del governo. Il governo non è
responsabile del sequestro della Sgrena, lo so bene, ma che c'entra? Il
governo è l'unico che può fare un gesto significativo, risolutivo sulla
guerra. Quell'unica idea che conta e devi afferrare in questo momento. Ci
sono mille domande e mille ragioni che uno può porsi e può opporre.
Sposeremmo così le «ragioni» dei sequestratori? Ma non diciamo
scempiaggini. Saremo al riparo dagli attacchi fondamentalisti a casa
nostra? Non lo so. La Francia non è mai stata in Iraq, ha avversato la
guerra, ma è sotto il nostro stesso ricatto e sul suo territorio vi sono
stati attentati. Daremo così più vigore e più arroganza al terrorismo
fondamentalista? Forse sì, non lo so. Ci sono nazioni che hanno abbandonato
e dimenticato l'Iraq, ci sono aziende che avevano investito milioni di
dollari e che sono andate via. Non sono migliori o peggiori di altri. Vi
sono state costrette e questo è sempre un motivo sufficiente. È un atto di
viltà internazionale, la rottura di patti e alleanze, la resa degli
interessi nazionali e del prestigio internazionale? Forse sì, non lo so. Ci
sono mille domande e mille ragioni che uno può porsi e può opporre. Ma non
c'è ragione di Stato, ragione di guerra, una qualunque ragione che in
questo momento mi sembri più importante della vita di Giuliana Sgrena.
Tutte le «strategie» della politica, le minuziose esegesi sugli «scenari»
in Iraq mi sembrano vuoti esercizi di stile di fronte l'unica cosa soda,
reale, tangibile che in questo momento io riesca a capire: la vita di
Giuliana Sgena. Quella vita, quella storia che in questo momento ci fanno
migliori di quel che siamo. Tutti. Al «manifesto», al movimento della pace
non è capitata una «disgrazia»: la commendevole commozione è gradita ma non
è sufficiente. Occorre un fatto, una dichiarazione, un gesto, una decisione
del governo che vada incontro alle «richieste» dei sequestratori. Mi rendo
conto anche solo nel dirlo di quanto questo sia terribile. Ma l'unica
«trattativa» reale è questa: il resto va bene, va inseguito ogni tenue
barlume, ogni filo per venirne a capo, ma è collaterale, parziale,
appartiene a tutte quelle cose che si fanno in queste condizioni, ai
«protocolli». E invece ci vuole proprio un di più. Le forme non saprei
neppure accennarle. Nessuno può dirci che sia risolutivo ma è la cosa più
decisiva rispetto alla situazione. La cosa più «grossa» che si possa fare.
Presto. Adesso.

Roma, 26 febbraio 2005